venerdì 1 dicembre 2017

INCONSOLABILI (Recensione di Piero Nicola)

Inconsolabili è il titolo di una silloge, or ora pubblicata per i tipi di Tabula Fati, da nove autori controcorrente, fustigatori dei costumi non già per partito preso. Chi sono gli inconsolabili? Sono le vittime innocenti o meno di questo mondo decaduto, pervertito e iniquo. Pregiudizi insensati, innaturali, vili e feroci tormentano bimbi ignari, adolescenti privati dei valori, adulti condannati a non reggersi dritti. Di fronte a questo disastro di falsità, che alimenta il velleitarismo e il masochismo, l'efficienza o la crisi economica diventano assolutamente secondarie.
   Il racconto Pugno chiuso (di Dionisio Di Francescantonio) ci presenta la vicenda di un figlio di famiglia spezzata da genitori che, come tanti altri, non sono all'altezza per affrontare le conseguenze delle lusinghevoli soluzioni fornite da una società corrotta fin nelle leggi. Sicché, al protagonista, per sua natura introverso ma retto, anche quando è divenuto adulto viene chiuso ogni varco che possa liberarlo da rancori e diffidenza, che possa salvarlo da un disperato isolamento.
  Dal finestrino (di Barbara Marugo) riassume una vita femminile segnata di nuovo dal divorzio dei genitori, che secondò un marito egoista e violento e rivelò una madre debole e inetta. La figlia, già dissipata, incapace di amare, pur giunta alla sistemazione del matrimonio e adesso madre di buoni propositi, non sa  perdonare e si rassegna al rimorso di aver continuato a respingere la mamma, che tuttavia l'amò.
  Con chi dormi (di Maria Cristina Morsia): Tenero quadretto d'una bambina desolata dalla separazione dei suoi.  Il loro amore scemato li ha divisi. Il generoso sacrificio è scomparso dall'orizzonte della felicità da perseguire storditamente; poiché quale pienezza si ottiene sacrificando un figlioletto e il suo sviluppo?
  Disposizioni testamentarie (di Miriam Pastorino). Racconto di largo respiro, particolarmente ben dosato nello stile impeccabile e ben articolato nella trama; verte, infine, sulla pillola, oltre che sul cedimento alle seduzioni dei costumi, che inducono agli errori orgogliosi. La pillola provoca non di rado la frigidità, e questa non di rado produce un dramma familiare. La madre morente vuole avvertire la figlia (da tempo separata da lei per un loro contrasto insanabile) del pericolo che per la donna, moglie ancor giovane, si trasformò in una sventura. Ma la figlia ha già ricalcato gli sbagli materni.
  Pornografia (di Fabrizio Fratus). È la succinta rappresentazione di una particolare piaga postmoderna: la diffusione del vizio sessuale solitario, alimentato dagli spettacoli osceni. Vizio trattato, come altri (vedi la ludopatia), alla stregua di fenomeno patologico. La breve storia purtroppo non approfondisce l'aspetto morale, e termina con il ravvedimento dell'uomo caduto, sebbene lo spettro della pratica vergognosa incomba ancora su di lui.
  Promettimi che non crescerai (di Rossana Tasselli). Un altro genitore se n'è andato, o dovuto andare, di casa; un'altra bimba disorientata e sballottata tra due abitazioni. La sua dimora è doppia, ma dimezzata della presenza di papà e mamma, alternativamente assenti. La bambina prova in sé una medesima, irrimediabile menomazione. Famiglia distrutta, litigi tra i separati, ragazzina contesa e ingannata. Ella si rifugia nell'immaginaria, affettuosa comprensione tra lei e il micio di stoffa, che non mente; e gli chiede di non cambiare mai.
  Cuori in affanno (di Dionisio Di Francescantonio). Elaborata psicologia d'una coppia di divorziati. Il grande accordo sentimentale e carnale tra i due entra in crisi a motivo della gelosia provata dalla donna verso la figlia del compagno, la quale a sua volta è ostile alla signora che prenderebbe il posto di sua madre. Il padre, anteponendo l'attaccamento per la figlia e per la nipotina ai desideri di colei che ha buoni motivi per ambire al matrimonio, provoca la frustrazione dell'amata e una schermaglia, in cui non si escludono i colpi bassi. Il maschile senso del dovere e degli affetti paterni si contrappone alla femminile rivendicazione del diritto alla felicità amorosa. Il dissidio nel legame, fattosi avvilente e tormentoso, non avrà rimedio.
  Ritroviamo qui una densa esposizione delle complicazioni dovute ai divorzi, che mettono a nudo l'umana vulnerabilità, la debolezza destinata a peggiorare dovendo sostenere certe prove. L'amore che genera la passione necessita d'una stabilità familiare in cui compiere il suo ciclo, ha bisogno di vivere in una cittadella che è ormai smantellata.
  Da Warda a Rosa (di Elisabetta Ali e Leyla Ziliotto), Il racconto, a mio avviso scritto quasi ottimamente da due giovani, l'una italo-egiziana, l'altra italo-marocchina, evidenzia l'incompatibilità delle culture troppo differenti e l'insufficienza dell'attuale nostra civiltà snervata e stravolta. La narrazione fa giustizia degli stereotipi ingiusti, legalizzati, con cui si conferisce alle donne colpevoli l'immunità e i più incredibili privilegi.
  Il libro ristabilisce coraggiosamente il vero sulla condizione umana di questo tempo calamitoso, e va reso il merito spettante agli autori per l'impegno e per il molteplice interesse che sono stati abili a suscitare.


Piero Nicola



Miriam Pastorino (a cura di)
INCONSOLABILI
Vite sconclusionate al tempo dell’irragionevolezza e della paura 
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-595-0]
Pagg. 216 - € 16,00

lunedì 27 novembre 2017

IL SIGNORE DEGLI ANELLI (Recensione di Piero Nicola)

  Al maggior lavoro di Tolkien è stata conferita la patente di capolavoro ineguagliabile, edificante (anche a parere di molti tradizionalisti cristiani), per quanto alcuni critici l'abbiano giudicato negativamente sotto vari aspetti. Tre sono i suoi aspetti principali: riguardo al valore letterario, riguardo a quello morale e riguardo a quello religioso; benché gli ultimi due non possano andare disgiunti. Infatti, se il libro lede la Religione, sarà anche inficiata la sua etica.
  È fuor di dubbio che l'autore abbia rappresentato un mondo fantastico, epico e in certo qual modo mitologico, con un realismo morale che non ammette un alibi rispetto alla Verità intera, rispetto a Dio vero. Si ammette la favola e la leggenda, anche popolata di esseri inverosimili, ma il tutto deve rientrare nella Rivelazione. Il Male fa capo al demonio, il Bene fa capo all'Onnipotente. L'allegoria può proporre animali, fantasmi e personaggi mai esistiti e inesistenti, tuttavia con significati conformi al disegno della Creazione. Il bestiario cattolico in parte fu testimoniato come reale e miracoloso, oppure le sue rappresentazioni immaginarie vennero accolte essendo ortodosse.
  Purtroppo, sebbene Tolkien, figlio della Chiesa, abbia inteso rivendicare l'ortodossia dei suoi romanzi, escluse da essi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, la Madonna e i Santi, a differenza di quanto fecero cristiani creatori di leggende (da non confondersi con le tradizioni). Non basta che egli abbia rispettato le virtù, bollato i vizi, distinto la giustizia dall'iniquità, esaltato la fedeltà e la generosità, proposto la nobile lotta dei buoni contro i malvagi. Per giunta, riguardo a certe razze che abitano la sua Terra di Mezzo - al di fuori degli Uomini e di Hobbit, Nani, Uomini-alberi, stregoni - gli Elfi sono puri affatto, mentre Orchetti e altri personaggi malefici (sebbene abbiano un carattere umano essendo considerati colpevoli) sono condannati alla cattiveria, non appaiono suscettibili di redenzione. E neppure troviamo il religioso paganesimo, assai ignaro di Dio. La superiore divinità è assente.
  La storia, situata in un mondo ancestrale e già decaduto in una Terza Età, si riassume con la missione condotta da un Hobbit, assistito da un mago, da alcuni compagni e da nobili signori, rivolta a salvare quella Terra da un regno maligno e mostruoso. Frodo, campione del minuto, modesto e gioviale popolo degli Hobbit, affiancato da un servo fedele, perviene a distruggere l'Anello del potere gettandolo nel cratere infuocato, posto nell'orribile paese delle tenebre governato dal Nemico. Il nesso tra la sconfitta di questi, tra la disfatta del suo mostruoso esercito e l'eliminazione del magico Anello rimane alquanto misterioso, come difetta anche la spiegazione di altri fenomeni e situazioni, nonostante il solido complesso del lungo racconto suddiviso in tre tomi. Pare che la forza ricevuta dall'Anello posseduto debba risolversi in un suo cattivo uso. E non si comprende perché la sua distruzione annienti il potente perverso che già non detiene lo strumento portentoso.
  Quanto al pregio letterario, l'opera si situa nel genere avventuroso destinato ai ragazzi e agli adulti che prediligono tale narrativa, farcita di immaginario. Mutatis mutandis, cioè sostituendo ai prodigi di razze e poteri extranaturali le invenzioni avveniristiche pseudoscientifiche, Tolkien può paragonarsi a un Giulio Verne. E la sua bravura di scrittore, i suoi pregi stilistici (non senza qualche flessione) non lo elevano certo al di sopra dei molti bravi artisti. Non bastano certi giochi di prestigio metaforici per eccellere ("il sole era tramontato, affondando dietro l'orlo del mondo"; "il cielo era ancora rosso, e una luce incandescente covava sotto le nubi galleggianti"; "gonfie praterie ondulate come un grande mare grigio"; "il fiume largo e stanco fra banchi sabbiosi ed alte terrazze erbose"; "il giorno invecchiato"). D'altra parte è innegabile l'eccesso dei dettagli ("faceva caldo rispetto alla stagione in cui erano"), la prolissità di parecchie descrizioni, il numero stragrande degli esseri straordinari dotati di eccezionali capacità, la superfluità delle vicende che li vedono protagonisti (p.e. circa gli Ent, esseri mezzo umani e mezzo alberi) e in generale la pletora di avvenimenti incalzanti e di sorprese, con episodi che sanno di riempitivo senza particolare significato (p.e. Sire Aragorn per abbreviare il cammino attraversa una regione detta Sentieri dei Morti, dove si verificano spaventose e di regola irresistibili apparizioni di spettri, in seguito arruolati nella guerra contro gli invasori). Se ciò lusinga l'interesse degli appassionati di imprevisti e di casi stupefacenti, contribuisce a togliere l'ampio respiro agli avvenimenti eroici e poetici. L'epopea delle gesta e delle grandi ambientazioni risulta diminuita. L'infinita varietà dei paesaggi incredibili e poco funzionali alla narrazione finisce per essere stucchevole. C'è pure qualche arrivano i nostri che scongiura una sconfitta irreparabile. La trama predispone la molteplicità delle avventure. Eventi contrari scompaginano presto la Compagnia dell'Anello; il viaggio dei suoi elementi si dirama e talvolta si ricongiunge.  
  Né mancano le incongruenze, benché quasi inevitabili in tanta finzione: due a cavallo, veloci come il vento, conversano quasi fossero in un salotto. Che Il Signore degli Anelli fosse sostanzialmente per ragazzi lo dice il fatto che di tanti soggetti perversi e posseduti da brame, non uno di loro manifesta voglie sessuali; inoltre mai di essi compaiono le famiglie. Mal si concilia poi il coraggio e la generosità degli Hobbit con le loro paure e terrori. La scena in cui il servo Sam sta accanto all'adorato padrone Frodo, creduto ucciso dal mostro, è assai debole: scarsa emotività di Sam, dolore poco e male rappresentato, prevalendo la preoccupazione per se stesso e per la missione da portare a termine (cfr. La Due Torri. pag. 377-378). Viceversa il personaggio di Gollum, che contiene in sé Sméagol, è geniale e inedito. Gollum, fisicamente sgraziato e unico esemplare di tal razza, infido e servile dovendo sottomettersi, si rivolge spesso apertamente alla sua seconda personalità, ragiona, discute con essa, e nella sua viltà riesce spassoso. Altrettanto originale e azzeccato troviamo Barbalbero, la sorta di albero semovente animato al pari di un mortale, bonario ma un rullo compressore quando si tratta di fare giustizia. Ma ripeto che la sovrabbondanza di soggetti e di situazioni, insieme agli innumerevoli prodigi e ai luoghi inattesi ad ogni piè sospinto, va a detrimento dell'essenziale, dell'armonia, del punto di vista distaccato necessario al pathos. La vicenda avventurosa e guerresca risente del truce, dell'oscuro, del truculento, del ripugnante, relativi ai luoghi spaventevoli e agli orridi avversari, restringendosi così lo spazio del meraviglioso. La parola tetro predomina e ricorre cento volte.
  Vi sono pure squarci di sereno, per lo più melanconici, come nel finale in cui Frodo si stacca da colui che è il caro amico prima d'essere il servitore, e lascia la patria Contea per imbarcarsi con lo stregone su un vascello. La partenza prefigura l'approdo a un lido alieno dalla Terra di Mezzo, adatto a chi ormai deve trascenderla. Infine la breve Appendice esula dal racconto per la gioventù, riepilogando la storia di Aragorn erede dell'antico Regno, del quale entrerà in possesso, e della sua amata Arwen, che per amore rinuncerà alla sua condizione privilegiata di elfica, accettando di divenire mortale sposando il Re.


Piero Nicola 

giovedì 23 novembre 2017

Ricordo di ETTORE COZZANI (di Piero Nicola)

  Chi ricorda questo scrittore potente, roccioso e umano, poeta nella sua prosa ricca e incisiva, in una narrativa che ci fa partecipi degli ambienti come delle vicende con efficacia immediata e sincera, compiendo affreschi di vita autentica? Chi rende omaggio ai contenuti ideali dei suoi romanzi, pregni di sapienza esistenziale e sociale? Chi apprezza ancora i loro protagonisti positivi, con i quali si risolve al meglio l'avventura terrena, attraverso il personale travaglio, con i quali si distruggono, sulla condizione umana, sia il pessimismo che l'illusione ottimista, la condanna alla miseria morale e la falsità?
  Ultimamente, nella sua terra d'origine, da lui amata e illustrata, qualcuno ha tentato un suo dissotterramento, una riabilitazione, a prezzo di qualche bugia; poiché egli non solo esaltò concezioni appartenenti al fascismo (mai abiurate), ma non negò ad esso il suo consenso. Il riconoscimento prestato al concittadino resta comunque tardo e parziale, disperso nella vasta dimenticanza, negato dalla denigrazione degli addetti ai lavori di critica letteraria, nei repertori specifici da cui non è stato possibile eliminarlo.
  Lo stile del Cozzani, pur essenziale, presenta una menda; ciò va riconosciuto. È un neo dovuto al temperamento, piuttosto che un punto di vista melodrammatico, tanto meno è un'infatuazione e imitazione del dannunzianesimo. Quasi con rammarico si riscontrano certe accentuazioni evitabili, che i detrattori tacciano, a torto, di enfasi ottocentesca, e vi si appigliano per inficiare tutta un'opera grande. Il sentimento di tale grandezza, d'una costruzione robusta, compiuta, persuasiva, obbliga ad accettare il lavoro, a rigettarne una bocciatura, a ringraziare di averne potuto godere, di non averlo perduto.
  Prima di presentare a sufficienza autore e opere, devo porre un'altra avvertenza. Essendo un estimatore di Giovanni Pascoli, in particolare, dell'interpretazione pascoliana di Dante politico e teologo, Cozzani, pur rispettoso della nostra Religione, omette l'eterodossia del Poeta romagnolo, cui si contrappone l'ortodossia dantesca (confermata da Benedetto XV con l'Enciclica In Praeclara Summorm).
  Cito alcune note circa il pensiero di Pascoli, contenute nel IV volume della monografia (1937) a lui dedicata dal suo antico alunno all'Università di Pisa.
  "Noi attraversiamo un periodo in cui, non ostante la superba eruzione di potenze storiche che drammatizza la vita, la letteratura è minacciata dal più grave dei pericoli, quello di diventare formalismo, tecnicismo, sensualismo, esteriorità. L'idea pascoliana disperde questo pericolo, perché riafferma la necessità - per l'opera d'arte, d'essere unità e totalità di spirito e di forme - e per l'artista, di vivere e trasfigurare in bellezza la fede, il pensiero, la volontà dei suoi tempi, della sua terra, della sua razza, chiamando i millenni a testimonianza della missione del proprio popolo, e schiudendo ad esso la visione del suo avvenire sull'orizzonte del destino universale.
  "Noi ci accorgiamo che tutto intorno a noi e in noi stessi si prepara ed è già in atto una vera palingenesi umana, nella quale lo scetticismo, la materialità, la prepotenza delle nude leggi fisiche, dei valori economici, delle abilità ed esperienze organizzative, tentano di violentare le forze morali, imponendosi come sola potenza creatrice, organizzatrice e dominatrice del cosmo umano.
  "L'interpretazione pascoliana della Commedia insorge; illuminando in tutte le coscienze la più alta delle verità: che la vita tende a sublimarsi nell'ideale, liberando alla lotta tutte le forze spirituali; e la civiltà, per quanto aspra e sanguinosa e scoraggiante d'arresti e di cadute sia la strada, tende a diventare nella giustizia e nella pace, ordinata, feconda e lieta.
  "Ed è forse destino che questa nuova apparizione di Dante ci si chiarisca proprio mentre l'Italia, animata da un impeto di fede messianica, e tutta intenta a rimettere sul loro piano gerarchico le forze spirituali, in piena armonia con le forze materiali, attua la sua rivoluzione; e lavora a creare le moderne leggi della convivenza umana basate su tutte le più audaci conquiste della giustizia sociale e civile, che son l'avvenire, e sul concetto d'una universalità cattolica e imperiale che è il passato ancor vivo e vitale".
  "Nel 'buon Barbarossa' Dante non vede il nemico dell'indipendenza italica, ma il rappresentante dell'Impero, a quindi in Milano non la antesignana della libertà nazionale, ma la ribelle a Roma e alla missione di Roma".
  "Dante, di fronte al disordine delle vita comunale [...] lancia un allarme: 'Se non ci sarà ordine, nella pace, e per mezzo della giustizia, ordine che non può essere ricondotto in terra che dall'Impero, la vita tempestosa, riempiendo ed eccitando di mali impulsi l'anima, le impedirà di meditare e di contemplare: e l'anima disorientata, stordita, snervata, non avrà possibilità di pensare alla sua salvazione e di salvarsi: ossia per essa la Redenzione sarà come non fosse stata'.
  "Soltanto che, secondo l'interpretazione del Pascoli, Dante queste verità le ha espresse in una maniera oscura e potente, profonda e scottante, misteriosa e abbagliante, perché le anime inadeguate a resistere non se ne spaventassero, e le anime preparate e forti ne fossero scosse come da un cataclisma interiore: che è il modo dei libri biblici e di tutte le profezie; delle apocalissi e delle catarsi: il modo con cui egli ridifendeva ancora la sua idea politica centrale, della necessità dell'Impero, e riaccendeva la sua speranza dell'avvento dell'Imperatore, del Veltro".
  Segnalo un'ultima cautela da assumere a proposito di Mazzini, da Cozzani considerato maestro, così che nel 1917 fondò l'Associazione Nazionale La Giovane Italia, e fece dell'Apostolo del Risorgimento l'ispiratore dello statuario che anima un suo romanzo. Ebbene, il pensatore e patriota sovversivo genovese non fu cattolico. Perciò se ne potevano trarre alcune affermazioni di valori, evitando di prenderlo come figura esemplare.
  Ettore Cozzani (La Spezia 1884 - Milano 1971) nel 1911 pubblicò L'Eroica, rivista di arti figurative e letteratura, con l'intento dichiarato di "annunciare, propagare, esaltare la poesia, comunque e dovunque nobilmente essa si manifesti in ciascuna arte e nella vita". Tenne fede all'impegno preso, procurando una veste tipografica pregevole e la collaborazione di notevoli artefici nel campo delle previste creazioni. Continuando la sua professione di insegnante, trasferì la Casa editrice a Milano, con la quale curò la pubblicazione di libri, anche propri. Per la Giovane Italia, da lui diretta durante un quinquennio, redasse L'Orazione ai giovani. I titoli principali della sua produzione sono inoltre: Le strade nascoste e Le sette lampade accese (novelle del 1920); Il regno perduto (1927), romanzo premiato, riedito corretto nel 1941; Il poema del mare (1928); Leggende della Lunigiana (1931);  Isabella e altre creature (racconti drammatici del 1933); Un uomo (1936); Come visse e morì Vittorio Locchi (1937), in ricordo dell'autore di La Sagra di Santa Gorizia; Ceriù (1938), romanzo per i giovani; Vita di Guglielmo Massaia (1943), citato dalla Enciclopedia Cattolica nella bibliografia in calce alla voce dedicata al celebre missionario divenuto cardinale; Destini (1944).
  Nei corposi volumi Un uomo e Destini i protagonisti dei romanzi sono, il primo: un figlio delle Apuane, che intende risolvere la crisi dell'industria marmifera con soluzioni ardite e lungimiranti, non recepite dagli imprenditori, è costretto, a causa di pregiudizi e complicazioni dei rapporti sentimentali, a rinunciare alla direzione della cava affidatagli per darsi a un'eroica impresa agricola e d'allevamento sugli alti colli carraresi; il secondo: uno scultore genovese, sistemato nel sudato studio costruito tra il porto e un cantiere di demolizione, e presso qualche bicocca di pescatori sospesa tra la spiaggia scogliosa e la muraglia della circonvallazione cittadina, vuole raffigurare esseri umani ispiratori di nobiltà, ma resta incompreso. Poi plasma i lavoratori duramente provati, di terra e di mare, affinché le loro degne espressioni suscitino il loro riscatto, edificando bensì chiunque quei bronzi abbia apprezzato; e torna a scontrarsi con la critica disonesta e con gli interessi politico-economici della borghesia del primo dopoguerra. Quindi accetterebbe come committente un capopopolo, sorta di asceta rivoluzionario. Ma di fronte al conflitto di classe che sta dilaniando la società e rovinando la nazione, lo scultore perde la fiducia e ritira la sua opera. Allora trova lo sbocco ideale in un ritratto di Mazzini. Delibera di dedicarsi a un gruppo scultoreo che fa capo a  lui. Nel gruppo prevale il concerto dei vari soggetti, il senso del dovere, del sacrificio, senza che nessuno sia svilito e si snaturi.
  Le due trame sono ben articolate; ospitando svariati personaggi, vengono alimentate da visioni del mondo conformi alle differenti indoli e menti, e presentano intrecci amorosi, che, nel primo libro, si dipanano e culminano nell'unione attesa; nel secondo, alla fine, l'amata muore in un incidente, avendo dato vita al dramma della donna mal sposata e madre, onesta, e che un amore generoso avrebbe destinato ad essere la valida compagna dell'artista.

Piero Nicola   

  

UNA SOCIETÀ ISTERICA TRA LUPANARE E VESPASIANO (di Emilio Biagini)

Due anni: 1957, 2016. Due versioni di una stessa opera: Testimone d’accusa di Agatha Christie, testimoniano una trasformazione epocale vertiginosa. La prima versione, in bianco e nero, interpretata da Marlene Dietrich, Tyrone Power e Charles Laughton, è luminosa e perfettamente chiara; la seconda, prodotta dalla mitica BBC, è, o dovrebbe essere a colori, se non vi dominassero le tenebre.



Tenebre che regnano in più di un senso, non solo perché lo schermo è buio e l’azione si svolge per lo più nella più impenetrabile oscurità, ma perché l’intera vicenda è immersa in una tenebra morale assolutamente satanica. Nel 1957 si contrapponevano il bene e il male, nel 2016 rimane solo il male, non vi è più un solo personaggio positivo; il male resta impunito e trionfa, e si permette pure di fare la morale, incolpando la “società”, mentre una innocente finisce sulla forca e l’avvocato che si è disperatamente battuto per l’accusato credendolo innocente, finisce suicida perché la moglie gli ha detto che non lo ama più.
La vittima del delitto, nel 1957 un’attempata vedova che ha la disgrazia di innamorarsi di un mascalzone, nel 2016 è diventata una ninfomane sempre a caccia di giovani uomini, la sua devota serva da simpatica vecchietta scozzese si è trasformata in una lesbica repressa, mentre abbondano scene di sesso che più esplicito non si potrebbe. Scomparso lo humour, che aveva una parte non piccola nel 1957, viene sostituito da uno horror assolutamente gratuito.
Per conseguire questo brillante risultato di vomitevole disordine morale, la trama del racconto è stata del tutto sovvertita. La sceneggiatura nel 1957 scorre in modo logico e coerente, quella del 2016 procede a singhiozzo, con ossessive ripetizioni della medesima scena e delle medesime battute. La recitazione del 1957 è misurata ed efficace, quella del 2016 è isterica e delirante; ogni dignità di comportamento è scomparsa, la maestà della legge è messa alla berlina, gli avvocati si agitano come istrioni da baraccone.
La recente produzione della BBC non è più Testimone d’accusa, non è neppure più un rifacimento moderno mal fatto, ma tutt’altra cosa, un prodotto di gran lunga più scadente, penoso, disgustoso: è rimasto il titolo per attirare gli estimatori dell’originale, e poco altro.
Mentre negli anni Cinquanta si avverte ancora la presenza di valori, nella versione odierna tutto è disintegrato: disintegrata la famiglia, devastata la stessa natura umana, perché l’uomo ha fatto un idolo di se stesso, non ha più nessun punto di riferimento, e gettando via la Fede ha perduto il suo centro, che è Dio, ed è solo, e gira a vuoto intorno a se stesso, distruggendo e distruggendosi.
Questo non stupisce affatto: cosa c’è in mezzo tra il 1957 e il 2016? Un anno diabolico: il mitico Sessantotto, quello della “liberazione” o meglio dello scatenamento degli istinti e dell’infamia, sulla scia di Cohn Bendit e di altri consimili pederasti confessi, con la tonaca pretesca (vedi don Milani) o senza tonaca. Si è così compiuta quella che Plinio Corrêa de Oliveira chiama la quarta rivoluzione (dopo quelle protestante, giacobina e comunista), la rivoluzione dove il disonore, da sempre compagno della rivoluzione, raggiunge il suo apice.
Nessuno può illudersi, naturalmente, che nel 1957 regnasse il bene e tutto fosse in ordine. Il marcio bolliva sotto la superficie, tre rivoluzioni avevano già compiuto le loro devastazioni; la cultura della morte, le trame gnostiche evoluzioniste, ambientaliste, abortiste, eutanasiche, mondialiste mandavano già i loro fetori, ma almeno regnava ancora una certa parvenza di ordine.
Nel rifacimento del 2016 ogni traccia di ordine è scomparsa, e questo caso non è che uno fra i tantissimi. Ogni volta che viene eseguita una riedizione (remake per gli anglofili) di un classico cinematografico, il crollo estetico, morale e di tenuta dei nervi salta immediatamente agli occhi. È lo specchio di una società isterica, sguazzante nel lupanare e nel vespasiano, che ha smarrito tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta: fede, speranza, carità, onore, valori, civiltà, senso estetico, equilibrio, raziocinio, sanità mentale. Un mondo pienamente laicista, relativista, gnostico, putrefatto, in piena decomposizione, di cui i valenti anglosassoni, come sempre all’avanguardia nel “progresso”, ci indicano la strada, e mediante l’imposizione di storicismo e relativismo vorrebbero vietare qualsiasi giudizio morale.
Ma è col massimo disprezzo che vanno respinte le diffuse farneticazioni storicistiche e relativistiche, le quali tendono a minimizzare ogni condanna delle degenerazioni contemporanee additandola come effetto di incapacità dei “vecchi” di apprezzare le mirabilia del mitico “progresso”. No, la realtà è la realtà, i fatti sono fatti, la degenerazione e l’isterismo del mondo contemporaneo assatanato sono evidenti a chiunque abbia occhi e un po’ di ben dell’intelletto, compresi i giovani, almeno quelli non (ancora) instupiditi dalle deliranti “riforme” scolastiche, dai telefonini, dai vizi e dal frastuono mediatico mondialista.


Emilio Biagini

venerdì 10 novembre 2017

IL SUGGELLO DEL FRANCOBOLLO (di Piero Nicola)

  Il 31 ottobre scorso, a distanza d'un anno, allorché l'anno venne dedicato dal Vaticano (usurpato) alla commemorazione della Riforma luterana, lo stesso Stato della Chiesa (sotto occupazione profanatrice) ha emesso un francobollo intitolato il V Centenario della Riforma Protestante. Ai piedi di un Crocifisso di maniera stanno, da un lato, Filippo Melantone che mostra la Confessione di Augusta (testo ufficiale del protestantesimo al suo inizio) e, dall'altro lato, Martin Lutero che regge la Bibbia. Sullo sfondo: il profilo della città di Wittenberg. Il quadro commemorativo è completo. E carta canta, a dispetto della malizia dei prelati che non vogliono definire per iscritto la loro dottrina e concilierebbero, rendendola elastica, la vera dottrina con i loro detti e atti di manipolazione e di impostura. Quale più definitiva qualificazione dell'insegnamento bergogliano di questo soggetto filatelico?  
  Nei nostri ambienti, il fatto non è passato senza commento, ma non so se qualcuno abbia osservato che si tratta di una misura colma, oltre la quale è perfettamente inutile guardare. Qualunque cosa si faccia ancora da parte di Bergoglio e dei suoi satelliti - senza che si cospargano il capo di cenere per ravvedimento - sarà inezia degna di un non ti curar di lor, ma guarda e passa. Dio tradito coram populo, qualsiasi misericordia accordi agli autori di adulterazione del Vangelo in seno alla Chiesa, avrà giudicato l'enorme affronto recatoGli. Un novello Giuda ha venduto la Sposa di Cristo per trenta denari. E se finora egli non se ne dispera, e sarebbe in tempo per pentirsi senza impiccarsi, il gesto rimane nella storia inaudito e incancellabile.
  Quale sia stata l'empietà oltremodo sacrilega, sta pure sotto gli occhi di tutti. È la giustificazione dell'eresia e il rinnegamento della Chiesa, dei Vicari di Cristo, dei Concili che fulminarono di suprema autorità tale eresia luterana. Ci vuole forse di più per gridare al maggior delitto che si potesse commettere contro lo Spirito Santo, al peggior scandalo che si potesse dare ai credenti e al mondo intero, provenendo esso dal Trono di Pietro? Quando il Messia, gli Apostoli e i loro successori condannarono chi abusò, prima, del Vecchio Testamento, e poi, del Nuovo.
  A questo punto non mette conto scendere nel dettaglio, né enumerare i vari errori spacciati per verità dal Vaticano II, dai suoi autori e dei successivi custodi di esso, né denunciare le attuali nefandezze commesse presso gli Altari. Questa misura colma sintetizza tutta l'opera diabolica precedente e contemporanea, come fu detto che il modernismo sintetizzava l'insieme delle eresie. Sennonché il modernismo ha scalzato il clero ortodosso e imperversa nel Luogo Santo.
  Di fronte a tanta enormità non pochi tradizionalisti rimangono perplessi o turbati, domandandosi come Dio potrebbe astenersi dall'intervenire, dal castigare. Ma essi stessi sono colpiti dal castigo che non riconoscono, perché un castigo grande, evidente, un incendio di Sodoma e Gomorra sarebbe ancora una grazia, una luce, un evento miracoloso. Invece la massima punizione dell'empietà è lasciarla alle sue proprie tenebre. Un Diluvio spirituale si espande sulla terra, prodotto dagli stessi uomini apostati e dagli increduli fornicatori. In esso annegano le anime immeritevoli della Strage materiale, in esso naufragano le anime tiepide e dubbiose.


Piero Nicola

lunedì 6 novembre 2017

IL REGNO ECONOMICO (di Piero Nicola)

  Cadute le ideologie novecentesche, piovuto il discredito sulla politica e sulla classe dirigente, precipitate filosofia e religione nel nichilismo e nel solve ecumenico, lavoro e produzione in funzione della prosperità economica e del carpe diem edonistico, sembrano esaurire le aspettative popolari. Soltanto qualche popolo europeo, provocato dalla minaccia dell'immigrazione abusiva, ritrova la Patria e un poco Nostro Signore. In Cina, la Patria è quella colorata di mitologia comunista e provvida di efficienza economica. Se ieri cercarono di far attecchire laggiù la democrazia, stante la desolazione del maoismo, oggi il regime che funziona è diventato intangibile. Domani, a scadenza imprecisata, anch'esso andrà incontro alla sua decadenza. Ma in futuro potrebbe intervenire una guerra a ridare le carte ai contendenti, o a condurre all'ultima spiaggia.
  Per ora la Cina è il paese esemplare, essendo del tutto idoneo a svilupparsi materialmente. E la competizione mondiale si gioca affatto su questo piano materialistico.
  In un articolo pubblicato su Il Giornale il 29 ottobre, lo studioso Riccardo Ruggieri spiega il motivo dell'eccellenza cinese: la dittatura. Ciò non è per niente scandaloso, anzi risulta ragionevole. Poiché, a questo punto, lo Stato deve provvedere a soddisfare la mentalità e i desideri prevalenti dei cittadini, bisogna che esso agisca alla stregua di un'azienda. E l'azienda per sua natura è organizzata gerarchicamente, quasi come l'esercito: aliena dalla democrazia. Per dare frutto, l'impresa riposa su un solido organico e su un vertice avente pieni poteri; né sarà imbarazzata da scioperi e contestazioni dei dipendenti. Quando il vertice fallisce, la sostituzione diventa inevitabile, ma fintanto che regge, quasi nessuno trova da ridire.
  L'autore dell'articolo descrive lo stato-imprenditore e regolatore della società, vigente in Cina. Un unico Timoniere (Xi Jiuping), un Comitato ristretto, un solo partito monolitico, il potere giudiziario sottomesso al potere esecutivo. In tal guisa tutta l'economia e i bisogni sociali sono sotto controllo, ogni aggiustamento si attua con prontezza, la potenza militare (sempre necessaria) viene assicurata, le industrie strategiche sono in regime di monopolio. E i risultati appaiono evidenti.
  S'intende che un sistema politico efficace (giacché di politica sempre si tratta) non si giustifica con la sua sola efficacia. Anche il nazismo visse d'un successo cosiffatto, i tedeschi entusiasti o consenzienti. Il male può abitare nel totalitarismo in auge o in un regno assoluto comunque giustificato, come il Regno del Vaticano, istituito nientemeno che da Gesù Cristo. La Chiesa è pure uno Stato sovrano. Resta il fatto che il sistema strettamente gerarchico e autorevole, privo di contrasti  e di divisioni, assolve la sua funzione meglio di ogni altro. Del resto, le democrazie non hanno dato prova di sanare lo Stato e i costumi, semmai il contrario; tanto che oggi la maggioranza non vota alle elezioni o vota soprattutto per protestare.
  Ne viene che il male si rimedia soltanto con una giusta Costituzione, con leggi fondamentali e irrevocabili fatte rispettare da una potestà robusta, atta alla tutela del bene. Naturalmente il male pratico non sarebbe eliminato, data la debole natura umana. Ma lo Stato non sarebbe iniquo, quando i governanti dovessero per principio, volenti o nolenti, custodire la Verità (antidoto della corruzione), permettendo ai giusti di preservarsi e di contagiare gli iniqui, tenuti in soggezione.
  Riprendiamo l'esempio della Chiesa. I Pontefici inetti o corrotti (p.e. Alessandro VI) non poterono fare un danno eccessivo, avendo mantenuto il Deposito della Fede. Dopo di loro, la Sposa di Cristo ebbe modo di risollevarsi, maggiormente benefica. Soltanto gli occupanti del Trono di Pietro che hanno osato violare la Legge eterna, hanno prodotto la necessità d'un ripristino del Regno da essi usurpato: reso nocivo e inservibile, per quanto resti in piedi.


Piero Nicola

sabato 4 novembre 2017

Novantanove anni fa il 4 novembre 1918, giorno della nostra Vittoria nella Grande Guerra (di Paolo Pasqualucci)

Quand’ero ragazzo, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il 4 di novembre era festa nazionale.  Allungava le festività religiose di Ognissanti e del Giorno dei Morti.  Si celebrava la vittoria nella I guerra mondiale:  correlativamente, il raggiungimento dell’Unità nazionale e l’opera valorosa delle Forze Armate.  Gran parte delle sinistre e parte consistente del mondo cattolico non l’hanno mai amata, questa celebrazione, troppo patriottica per i loro gusti.  La svalutazione progressiva, sul piano politico e culturale, dell’idea di Nazione, di Patria e di Vittoria militare, portato della decadenza generale dei costumi che affligge noi e tutto l’Occidente, fece sparire ogni riferimento alla Grande Guerra, riducendo la festa a Giornata delle Forze Armate, ed infine a cancellare la festività.  Oggi, in questa data, si rende omaggio, nelle dichiarazioni ufficiali, alle Forze Armate e all’Unità nazionale.  Della vittoria nella Grande Guerra si è persa definitivamente ogni traccia.
Si è pertanto avuta, in data odierna, giorno lavorativo, la consueta anonima cerimonia al Vittoriano, condita dai consueti messaggi di routine delle Autorità costituite. Il Presidente Mattarella ha ricordato “la conseguita completa Unità d’Italia” e “l’onore” che si deve rendere alle Forze Armate, con un “commosso pensiero a tutti coloro che si sono sacrificati sull’Altare della Patria e della nostra libertà, per l’edificazione di uno Stato democratico ed unito” (Corriere della Sera di oggi, 4 nov. 2017).
Il ministro della difesa, on. Roberta Pinotti, colei che vorrebbe istituire il “servizio civile” obbligatorio per tutti (sì, il servizio civile non quello militare) ha detto, sempre nell’estratto del Corriere della Sera, che “la comemorazione di quel doloroso periodo della nostra storia nazionale offre la possibilità per una riflessione più profonda sul valore della pace, anelito insopprimibile di ogni società civile, dovere ma anche diritto di ogni uomo, delle nuove generazioni, dei deboli e indifesi, di coloro che scappano dalle guerre, dei tanti rifiutati e oppressi.  Ed è in momenti come questo che dobbiamo rinnovare con forza il ricordo delle migliaia di Caduti sulle pietraie del Carso, sull’Isonzo, sul Grappa, sul Piave e in tanti altri luoghi entrati a far parte della nostra memoria collettiva”.
Avrà detto anche altre cose, l’onorevole ministro, nel suo messaggio.  Se questo ne è il nucleo, esso appare abbastanza singolare per un ministro della Difesa, delle Forze Armate.  Di quella terribile ma valorosa ed eroica epopea che fu la nostra Grande Guerra, sa dire solo che è stato “un doloroso periodo della nostra storia”.  Il dolore, dunque.  La riflessione sul dolore passato offre lo spunto per quella sul presente, rappresentato sempre dal dolore, che sarebbe quello delle categorie consacrate dalla retorica politicamente corretta dominante – le quali categorie si ritengono private del loro “diritto alla pace”:   ogni uomo in generale, i giovani, i deboli e gli indifesi, i profughi, i rifiutati ed oppressi.
C’è un po’ di tutto, nel materno abbraccio pinottiano, come si conviene ad una governante intrisa di “pluralismo”, anche sul piano strettamente culturale.  Un “diritto alla pace”, intrinseco ad ogni essere umano, non sapremmo per la verità come concepirlo, in termini propri, giuridici.  Ma tant’è. Il nostro bravo ministro, nel ricordare l’anniversario della Vittoria in una guerra mondiale di fondamentale importanza per la nostra stessa esistenza di popolo – se, nonostante tutto, esistiamo ancora come popolo e Stato unitario lo dobbiamo alla vittoria in quella guerra – sa parlare solo di pace e nei termini di quella  retorica sentimentale ed umanitaria con la quale si tentano oggi di occultare le gravi debolezze e lacune della nostra attuale classe di governo, incapace di difendere il territorio nazionale da una massiccia invasione afro-asiatica e musulmana, che nessuna emergenza cosiddetta umanitaria giustifica, dal momento che, nella massa che ci invade, i veri profughi sono solo una piccola minoranza.

Allora, perché il 4 novembre?  Cos’è successo il 4 novembre?  Lo sa l’on. Roberta Pinotti? Immagino che siano in pochi a saperlo, visto che da anni non se ne parla mai, anche perché si insegnano da tempo falsità di ogni tipo sulla nostra partecipazione alla Grande Guerra.  Per esempio, che per noi essa sarebbe finita con la pesante sconfitta di Caporetto, dopo la quale saremmo arrivati alla vittoria, un anno dopo, solo perché sorretti dai nostri alleati franco-britannici, che ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco.    
Invece, a due settimane circa da Caporetto, il nostro esercito (allora Regio Esercito) risuscitò sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, contenendo da solo gli ultimi furiosi e decisivi assalti austro-tedeschi, sorretto alle spalle da undici preziose divisioni franco-britanniche accorse in riserva strategica, ridotte poi assai presto a cinque, le quali subentrarono  in linea dopo circa un mese, quando avevamo stabilizzato il fronte.  Risuscitò, con grande sorpresa del nemico, ma in realtà non era mai morto.  Aveva incassato un colpo da K.O., portato con estrema maestria dalle migliori divisioni tedesche e austro-ungariche, e tuttavia era riuscito ad assorbirlo.  Era stata distrutta a Caporetto l’ala sinistra della II armata, mal schierata nelle montagne isontine del Friuli del Nord-Est. Parte di quell’armata, dislocata più a sud, si ritirò in ordine, assieme alle altre due armate nostre, la III e la IV, non intralciate dalla marea dei profughi friulani.  I circa trecentomila prigionieri e molti fra gli altrettanti sbandati (poi recuperati) appartenevano in numero consistente alle sterminate retrovie caratteristiche di tutti gli eserciti moderni.
Dalla nostra vittoriosa “battaglia d’arresto” del novembre-dicemtre 1917, come si giunse al 4 novembre 1918?  Nel giugno del 1918, la Duplice Monarchia, uscita dalla guerra la Russia travolta nel gorgo della rivoluzione, in appoggio alle poderose offensive con le quali i tedeschi stavano tentando di vincere la guerra anche a Ovest, prima che si consolidasse il sempre più massiccio apporto americano in Francia,  tentò a sua volta di sfondare contro di noi, raccogliendo le sue logorate forze per un ultimo formidabile sforzo.  Si ebbe la grande Battaglia del Montello o seconda del Piave, che si concluse con un completo insuccesso austro-ungarico.  La testa di ponte larga 8 km e profonda 5 costituita al di qua del Piave, sulle alture del Montello, fu da noi contenuta in aspri combattimenti e l’Imperial-regio esercito fu costretto a ripassare il Piave.  Con quella fallita e sconsiderata offensiva, per di più mal condotta dall’inesperto imperatore Carlo d’Asburgo, l’Austria-Ungheria perse la guerra.  Dopo questa battaglia, cessarono del tutto i tentativi anglo-americani di indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata.  Gli Alleati avevano ormai la sensazione netta del crollo imminente del nemico.
La grave crisi interna dell’Impero, economica e spirituale, aumentò sempre di più.  L’esercito teneva ancora ma cominciò a disgregarsi nelle retrovie quando il fronte balcanico, tenuto soprattutto dalla Bulgaria, crollò all’improvviso alla fine del settembre 1918, aprendo agli eserciti alleati (tra i quali anche un corpo di spedizione italiano) dalla Grecia orientale la via verso Budapest, via che essi cominciarono ovviamente a percorrere,  non velocemente ma inesorabilmente.  A quel punto le divisioni ungheresi sul nostro fronte cominciarono ad agitarsi e a voler tornare a casa, per difendere la Patria in pericolo.
Con il nemico in crisi sempre più evidente, in condizioni di inferiorità anche per le munizioni e il vettovagliamento, e i tedeschi ormai in ritirata in Francia, ordinata anche se la loro linea non era più continua e mancavano riserve e munizioni, il nostro Comando Supremo si decise alla fine ad attaccare, in ritardo, il 24 ottobre e con il Piave in piena!  La Terza Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto, durò cinque giorni effettivi, dal 24 al 28 ottobre, giorno nel quale l’VIII armata italiana, comandata dal generale Caviglia, appoggiata sulla destra dall’armata anglo-italiana del generale Cavan e sulla sinistra da quella franco-italiana del generale còrso Graziani, sfondò il centro dello schieramento nemico, puntando verso Vittorio Veneto e dividendo in due tronconi l’Imperial-regio.  Sul Grappa gli italiani non passarono e subirono le consuete, ingenti perdite, nei ripetuti assalti e contrassalti.  Ci riuscirono sul Piave, contro un nemico indubbiamente debilitato ma che si batté valorosamente sino all’ultimo, nonostante le defezioni di diversi reparti della seconda linea, soprattutto ungheresi e cèchi, a partire dal terzo giorno della battaglia, e nonostante la dissoluzione politico-amministrativa ormai inarrestabile dello Stato austro-ungarico.

Ho ricordato sinteticamente quei drammatici eventi, al fine di arrivare nel modo dovuto al punto che ci interessa: solo alle 7 di mattina del 29 ottobre, quando l’esercito era ormai in rotta sul fronte del Piave, i Comandi austriaci presero i primi contatti con il Comando italiano, chiedendo un armistizio.  Precedentamente avevano tentato invano con gli americani, perdendo del tempo prezioso.  Iniziarono in tal modo convulsi negoziati che si conclusero con la firma dell’armistizio a Villa Giusti, presso Padova, il pomeriggio del 3 novembre, a valere dal pomeriggio (dalle 15) del 4 novembre successivo.  Ora, gli austriaci speravano giustamente di poter negoziare con noi termini onorevoli.  Ma non ci riuscirono.  Le condizioni di armistizio non erano decise dal Comando Supremo italiano o dai politici italiani isolatamente: erano prese dal Consiglio di guerra interalleato che risiedeva a Parigi, in quei drammatici frangenti riunito in seduta quasi permanente.  Fu tale Consiglio, che ricomprendeva le alte cariche politiche e militari dei ‘Quattro Grandi’, ad imporre la resa incondizionata, poiché tale fu l’armistizio che l’Austria-Ungheria dovette sottoscrivere.  Certo, l’Italia non si oppose.  La Battaglia di Vittorio Veneto portò alla dissoluzione dell’esercito austro-ungarico, in parte già iniziata:  gli diede il colpo di grazia, impedendo il disegno austriaco e tedesco di riportare la componente nazionale dell’esercito sui confini naturali, cioè sulle Alpi da un lato e sul Reno dall’altro, per cercare di resistere ancora e ottenere una resa meno dura.  Sparendo l’Imperial-regio  dalla scena, la via dell’invasione della Germania da sud era aperta a noi e ai nostri alleati e i tedeschi non avevano in pratica più truppe da opporre.  In tal modo, la Germania dovette anch’essa piegarsi ad accettare una resa incondizionata, sottoscritta l’11 novembre 1918.  
Questo dunque, in estrema sintesi, ciò che accadde il 4 novembre 1918, data indubbiamente significativa per noi italiani e che dovrebbe esser ricordata in modo degno.  Senza retorica e senza animosità per i nemici di un tempo ma con il pathos che la ricorrenza richiede, osando magari pronunciare le parole probite di guerra e vittoria.  
 Era la fine della guerra in Italia, dopo tre anni e mezzo di tremendi sacrifici umani e materiali.  Soprattutto, era la Vittoria, conseguita con l’eroico sacrificio di un’intera generazione.  Dopo Caporetto ci fu in tutto il Paese, anche nelle classi popolari, un grande slancio patriottico, per resistere all’invasione straniera e per vincere.  Come disse Benedetto Croce, dopo quella cocente sconfitta, solo allora quella guerra diventava nostra.  Combattevamo per la nostra terra, per riconquistarla e per l’onore nazionale, ingiustamente infangato da uno sciagurato Bollettino del Comando Supremo che, il giorno dopo lo sfondamento di Caporetto, ancora mal informato su quello che stava succedendo, diede la colpa del crollo locale ad una viltà dei soldati che in realtà non c’era stata (episodi di rese locali senza combattere ci furono dopo lo sfondamento, le cui cause furono soprattutto militari, nel clima di caos, di panico e di abbattimento subito creatosi, anche a causa della rivoluzionaria tattica del nemico, basata non più sui sanguinosi attacchi frontali ma sull’aggiramento veloce dei caposaldi e l’attacco di lato o da tergo, di sorpresa, condotto da truppe scelte).
Ma non si trattava solo della vittoria in quella guerra, fatto di per sé pur notevole per un popolo ed uno Stato di recente e tormentata formazione come il nostro.  Con quella prova, con quel sacrificio, riscattavamo moralmente noi stessi dalle dominazioni straniere che avevano infierito su di noi per tre secoli e mezzo.  Da quando, nelle sciagurate e crudeli Guerre d’Italia (1498-1559), Asburgo spagnoli e austriaci, francesi, svizzeri, da noi in nessun modo provocati, avevano fatto a pezzi il sistema degli Stati italiani indipendenti ma militarmente deboli e sempre divisi tra di loro.  Fu una grande tragedia, che non dobbiamo dimenticare. Riuscì a resistere solo la Repubblica di Venezia, spacciata alla fine del Settecento da Napoleone, dopo una lunga decadenza.  Le Guerre d’Italia le vinse su tutti la Spagna asburgica e quando il suo dominio finalmente si allentò, dopo altre guerre, si ebbe la prevalenza dell’Austria asburgica, rinnovatasi dopo l’intervallo napoleonico, che aveva annesso all’Impero francese parti consistenti del nostro Paese, riducendo le altre a Stati suoi satelliti.  L’Impero austriaco mai ci volle riconoscere il diritto ad essere non dico uno Stato indipendente suo alleato ma nemmeno un popolo degno di essere preso in considerazione. Eravamo, per tutti, solo una espressione geografica, “volgo disperso che nome non ha”, pascolo ubertoso per le politiche di potenza dei grandi Stati: e così avremmo dovuto rimanere, in eterno.   La lunga sequela delle “preponderanze straniere” (Cesare Balbo) fu per noi un’età di ripetuto sfruttamento economico e militare, di sudditanze umilianti, di umiliazioni a non finire. 
 Combattendo e vincendo la Grande Guerra, abbiamo pagato il prezzo di sangue che il nostro riscatto esigeva.  Perché quel sangue non sia stato versato invano, dobbiamo ora resistere con tutte le nostre forze all’ondata nichilista che vuole travolgerci, dall’interno e dall’esterno, ammantata di ipocrisie pseudo-umanitarie.  E tra i valori che dobbiamo recuperare, per resistere, il patriottismo, la fede nell’Italia patria comune e unitaria, da difendere in tutti i modi, occupa senz’altro un posto eminente.  In questo, ci ispiri, dunque, e ci sostenga il ricordo di questa data gloriosa, il 4 novembre, giorno della Vittoria della Patria, finalmente tutta unita nei suoi confini naturali.

Paolo  Pasqualucci,  sabato 4 novembre 2017 


Fonte:  iterpaolopasqualucci.blogspot.ie     

martedì 24 ottobre 2017

UNA DOMANDA ALLA SCIENZA (di Piero Nicola)

La scienza prosegue nelle sue indagini rivolte a scoprire, a spiegare l'universo e le sue leggi, sia nel microcosmo che nel macrocosmo. È un fatto naturale. Almeno dovrebbe esserlo qualora fosse in funzione della Verità, ovvero del bene dell'uomo e della gloria resa al Creatore.
  Purtroppo non è così quando, prescindendo da Dio e dalla metafisica, si agisce per altri scopi, che di necessità diventano cattivi, empi e luciferini.
  Si dirà che il progresso è sempre utile, giacché possono disporne anche i credenti fedeli.  Obietto che i buoni cristiani morti prima delle scoperte, non ne ebbero bisogno per salvarsi e per contribuire alla salvezza del prossimo. Ad ogni modo, la scienza attuale, volente o nolente, coltiva lo scientismo, che quanto meno è eretico; quanto meno essa inculca l'impressione che riuscirà a rivelare il mistero dell'esistente e a risolvere i problemi essenziali. Cosa affatto impossibile.
  Di tanto in tanto giunge la notizia della soluzione data a un enigma di cui la gente comune ignorava perfino l'esistenza. Il recentissimo presunto accertamento delle onde gravitazionali, sorprende coloro che a scuola appresero le leggi della gravitazione. Essi vengono a sapere che prima si brancolava nel buio, mancando il fondamento delle leggi di Keplero, pure inconfutabili. Vengono a sentire che la scoperta confermerebbe le teorie di Einstein. Forse i capitali investiti in questa ricerca non saranno stati spesi invano. Per adesso, i frutti sono più che altro platonici, e forse quei soldi serviti a costruire un impianto faraonico, potevano essere impiegati per alleviare la cresciuta povertà causata dalla crisi economica, e per combattere chi l'ha procurata.
  Ora, l'individuo terra terra, che non si fa incantare dai buchi neri, dalla meschina - di fronte ad essi - ventura missione degli astronauti su Marte (pianeta desolatissimo), individuo che scorda l'allunaggio e il mancato sfruttamento del nostro ingrato satellite, quest'uomo il quale, pur sognatore, da certi sogni prospettati non ricava un bel niente, può darsi che rivolto alla Scienza le domandi:
  "Come mai ti affanni per trovare una goccia d'acqua sul Pianeta Rosso, e hai già scartato gli altri pianeti per le loro atmosfere invivibili, e mi parli di galassie tremende e irraggiungibili, e non mi spieghi perché, in questo infinitesimo sistema solare, la terra è venuta fuori oltremodo differente, così unica, così ricca e vitale, così meravigliosamente combinata tra il benefico sole e le stelle?"
  Quando poi costui sia un cattolico, la domanda assume un valore quanto mai gratificante per lui, poiché la Scienza resta muta o, imbarazzata, adduce teorie e ipotesi labili come il vapore, soggette a ogni vento: schiacciate dalla Creazione.  


Piero Nicola

lunedì 23 ottobre 2017

GALANTINO E IL CONCILIO DI TRENTO (di Piero Nicola)

Dopo il distacco, il clero eminente continua imperterrito la sua marcia di allontanamento dal Signore. Basterebbero le innumerevoli prove della violazione della Verità per ritenere debito e definitivo il ripudio dei responsabili. Soltanto un loro ravvedimento potrebbe essere preso in considerazione. Tuttavia certe remore tengono ancora molti in sospeso e nell'indugio. Perciò conviene seguire il disgraziato cammino degli apostati che, come ai tempi dell'arianesimo trionfante, detengono il possesso delle chiese.
  La Pontificia Università Lateranense, definita da G.P. II "l'università del Papa", fondata nel 1773 da Clemente XIV, ha tenuto di recente un convegno sulla "Passione per Spiritualità e teologia della Riforma a 500 anni dal suo albeggiare".
  Sarebbe offensivo per la capacità di intendere di chi legge ogni commento inteso a mettere in evidenza la riabilitazione del luteranesimo, anzi il suo apprezzamento.
  Il Segretario della CEI, Galantino, è intervenuto e, citando l'iniziatore della Riforma, ha riferito un suo detto: "Mi sono schierato contro tutti i papisti, contro il Papa e le indulgenze, ma solo predicando la Parola di Dio. E quando io dormivo la Parola di Dio operava tali cose che il Papa è caduto".
  Di nuovo la volontà di giustificare Lutero appare troppo evidente per essere sottolineata. Lo straordinario è che sarebbe come se un giudice d'appello assolvesse un criminale condannato per le prove inconfutabili del suo delitto, adducendo a discolpa una dichiarata buona intenzione del reo. Un verdetto inappellabile è stato emesso dal Concilio di Trento, che fulminò di anatema le proposizioni di Lutero. Perciò assolvere o scusare l'eresiarca scomunicato, significa demolire non solo l'autorità del Pontefice, ma anche il Concilio di Trento. In verità, poco importa l'animo del monaco rivoluzionario, importa la sua dottrina sacrilega mantenuta dai suoi seguaci e oggi scusata. In vero è come se il custode della morale scusasse il delitto. Ma qui il custode dovrebbe essere il Vicario di Cristo e il delitto negato l'offesa enorme recata a Dio. Assurdità!
  Nell'affermazione riportata dal Galantino ci sono le contraddizioni che stritolano gli usurpatori degli altari e dei pulpiti. Poiché fa comodo, l'autorità pontificia viene da essi mantenuta, salvo inficiarla quando il violatore è un fratello separato (leggi: eretico). L'autore delle tesi di Wittenberg  "contro il Papa" screditò il Papa in materia di fede e di morale. Inoltre, nominando la predicazione della "Parola di Dio", non è affatto lecito prescindere dal contenuto di tale annunzio, quand'anche fosse stato fatto in buona fede. Il che sarebbe pure da escludersi, avendo l'imputato rifiutato l'obbedienza e la resipiscenza.
  Le affermazioni del Segretario della CEI sono pertanto false in modo risibile, sostenibili solo rivolgendosi a un consesso di sprovveduti e di sofisti da dozzina, che si arrampicano disperatamente sugli specchi onde non rinunciare alle loro misere convenienze morali e materiali.
  Galantino prosegue la perorazione a vantaggio dell'a suo tempo incompreso e scomunicato: "La riforma avviata da Martin Lutero 500 anni fa è stata un evento dello Spirito Santo".
  Dicono che nello scorcio dell'800, allorché uno spettacolino teatrale stava naufragando, si facessero entrare in scena Mazzini o Garibaldi. L'accostamento può sembrare blasfemo; ma,  data la profanazione dello Spirito Santo, anche in documenti conciliari in cui lo si adopera per rendere valide le religioni eretiche, come è possibile che si tratti ancora del Paraclito: fatto servire per benedire l'errore e l'empietà?
  Quanto all'"evento dello Spirito Santo" in quel frangente storico, ciò è vero in un senso opposto a quello suggerito. La dolorosa rivolta protestante servì - al pari di altre tremende eresie - al consolidamento della Rivelazione e al risanamento dei costumi ecclesiastici, intervenendo la Terza Persona della Trinità.
  Galantino ricorda che Francesco I a Lund "ha firmato la dichiarazione congiunta per superare i pregiudizi vicendevoli che ancora dividono cattolici e protestanti". E Lutero "volle rinnovare la Chiesa, non dividerla".
  La scempiaggine non ha requie. Quei "pregiudizi" e quell'"ancora" relativi alla divisione superabile, quel "volle rinnovare", comportano una rafforzata negazione sia dell'autorità pontificia (a meno di non mantenerla soltanto per Bergoglio e immediati predecessori), sia del Concilio di Trento e dei dogmi contrari all'eresia.
  Ed ecco l'infantile scappatoia: "La Chiesa è sempre da riformare mai da deformare".
  Dopo averla deformata quanto mai, si viene a sostenere che l'intento fu e resta soltanto quello di riformarla. Persino con l'uso del termine ambiguo riformare, si insinua la malizia che adonesta la Riforma.
  La campagna pro Lutero la ritroviamo sul foglietto stampato dalle Paoline per la messa dello scorso 1° ottobre, con un elogio a monaco eresiarca e alla sua apertura allo straniero (nell'ambito della propaganda per lo ius soli). - Fonte: Il Giornale del 21.10.2017.
  Però già Benedetto XVI, il 23 settembre 2011 a Erfurt, fu comprensivo verso Lutero a motivo della sua supposta buona intenzione!


Piero Nicola

sabato 7 ottobre 2017

ORIGINE DELL'“AMORIS LAETITIA” (di Piero Nicola)

Si potrebbe credere che gli errori dell'Amoris laetitia, come altri gravi (per esempio concernenti la stima dimostrata ai luterani, o quelli che riguardano l'astensione dal giudizio sui pubblici peccatori i cui atti gridano vendetta al cospetto di Dio), siano novità introdotte dall'attuale insediato sulla cattedra di Piero. Non è così. Le ultime infedeltà grosse e tremende sono figlie delle affermazioni eterodosse inserite nel Deposito della Fede. Non essendosi posto mano al risanamento del Deposito, chi lo detiene ha agio di trarne mostruosità.
  Potrei rifarmi dall'ultimo Concilio neomodernista. Invece considero un testo di certo meditato e recente, stabilito dal Vaticano per l'insegnamento della dottrina a tutti i fedeli: il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana in luglio 2005.
  Al  n. 372, "Che cos'è la coscienza morale?" risponde: "La coscienza morale, presente nell'intimo della persona, è un giudizio della ragione, che, al momento opportuno, ingiunge all'uomo di compiere il bene e di evitare il male. Grazie ad essa, la persona umana percepisce la qualità morale di un atto da compiere o già compiuto, permettendole di assumerne la responsabilità. Quando ascolta la coscienza morale, l'uomo prudente può sentire la voce di Dio che gli parla".
  Poiché si tratta dell'uomo in generale, non indicato come cattolico osservante, né altrimenti battezzato di fresco, risulterebbe che egli ha facoltà di servirsi della propria coscienza per distinguere il bene dal male e comportarsi da responsabile. Avremmo senza ombra di dubbio una proposizione eretica conforme al pelagianesimo, che voleva l'essere umano, anche non battezzato, anche privo della Grazia santificante, anche senza la Chiesa, in grado di concepire la verità morale e di salvarsi. In altri termini, stando a questo punto del Catechismo, tutti possederebbero una coscienza efficiente, né erronea, né adulterata colpevolmente.
  Era troppo, e bisognava rimediare.
  Per intanto, al n. 373, il catechismo prepara l'intangibilità della coscienza con la domanda: "Che cosa implica la dignità della persona nei confronti della coscienza morale?" Risposta: "La dignità della persona umana [dovuta alla somiglianza col Creatore, vien detto in precedenza, omettendo che la nostra dignità è rovinata dal peccato originale o profanata da quello attuale, mentre quella di creatura appartiene a Dio come la nostra vita, e possiamo onorarla o offenderla] implica la rettitudine della coscienza morale (che cioè sia in accordo con ciò che è giusto e buono secondo la ragione e la Legge divina). A motivo della stessa dignità personale, l'uomo non deve essere costretto ad agire contro coscienza e non si deve neppure impedirgli, entro i limiti del bene comune, di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso".
  Qui sorge una netta contraddizione, che passerà come inesistente, presumendosi l'impossibilità d'una caduta  in questo importante magistero. Ammettendo che l'uomo, il quale si appella alla propria coscienza, possa violare il "bene comune", la sua coscienza non è sempre valida, egli può compiere il male altresì "in campo religioso" corrompendo il prossimo, quand'anche sia in buona fede. E non si vede in che modo un atto eretico o di empietà possa essere tollerabile e meno dannoso d'una lesione recata all'ordine civile. La vera Chiesa infatti non tollerò mai il contagio dell'eresia, comunque prodotto, e condannò la libertà religiosa.
  Poi si riconosce meglio che c'è anche una coscienza morale non retta e non veritiera. N. 374. "Come si forma la coscienza morale perché sia retta e veritiera?" Risposta: "La coscienza morale retta e veritiera si forma con l'educazione, con l'assimilazione della Parola di Dio e dell'insegnamento della Chiesa. È sorretta dai doni dello Spirito Santo e aiutata dai consigli di persone sagge. Inoltre giovano molto alla formazione morale la preghiera e l'esame di coscienza".
  Sembrerebbe che per avere una coscienza valevole occorra essere diligenti membri della Chiesa. Però questa condizione, non espressamente definita, può essere tralasciata considerando la dignità personale originaria, supposta sempre efficiente (errore risibile, ma ribadito in modo disastroso).
  Al n. 375 si tratta delle norme che la coscienza "deve sempre seguire". Se ne approfitta per annettervi la seguente eresia: "La carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza, anche se questo non significa accettare come un bene ciò che è oggettivamente un male".
  In altri termini, si afferma che la coscienza è buona, inviolabile, pur essendo erronea e producendo un male. Grazie a questa presunta sacralità della coscienza (in virtù della sua connessione con la dignità innata - sia onorata o infangata) si rispetta l'autore del male, che non viene accettato.
  N. 376. "La coscienza morale può emettere giudizi erronei?" Domanda superflua, dopo le premesse. Risposta: "La persona  deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza, ma può emettere anche giudizi erronei, per cause non sempre esenti da colpevolezza personale. Non è però imputabile alla persona il male compiuto per ignoranza involontaria, anche se esso resta oggettivamente un male. È quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori".
  Siamo giunti all'evenienza di una coscienza affetta da "colpevolezza personale". Ma, essendo ciò possibile, è impossibile che la coscienza sia per natura connessa alla divina dignità personale, che la renderebbe intangibile.
  Che uno non sia in buona fede avendo una coscienza erronea, da lui dichiarata veridica, è sovente impossibile stabilirlo. E allora,  non dovendosi condannarlo né riprenderlo per il suo errore, si sostiene, a motivo della sua dignità (purché non abbia turbato l'ordine pubblico), sarà ritenuto non colpevole fino a prova contraria; potrà aver calpestato la Legge di Dio e essere ciononostante giustificato.
  C'è la prescrizione di "adoprarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori". Come farlo, se bisogna avere "rispetto del prossimo e della sua coscienza"? Mettiamo che la Chiesa (questa pseudo-chiesa) abbia la facoltà di istruire moralmente il fedele, inducendolo a vedere la sua trasgressione. Questa non potrà essergli imputata a colpa senza che se ne abbiano le prove. Nondimeno, avvenuta l'istruzione o la correzione, rimane il principio della coscienza sovrana e intangibile. L'autorità ecclesiastica e divina è decaduta ed è omessa nello stesso Catechismo, secondo un concetto modernista. Serve a poco la contraddizione per cui, al n. 185, la dottrina infallibile obbliga i fedeli.
  Al n. 358 troviamo: "Qual è la radice della dignità umana?" "La dignità della persona umana si radica nella creazione ad immagine e somiglianza di Dio. Dotata di un'anima spirituale e immortale, d'intelligenza e di libera volontà la persona umana è ordinata a Dio e chiamata, con la sua anima e il suo corpo, alla beatitudine eterna".
  Dio vuole che tutti si salvino, però non battezzati, eretici e figli della Chiesa in peccato mortale non hanno, o hanno perduto, l'adesione alla dignità originaria, sono indegni destinati all'inferno, sono in potere di satana, sono mele marce possibilmente da risanare.  Pertanto, venendo meno la sacra dignità (attitudine al riscatto rovinata dal peccato, affidata alla personale responsabilità variamente indegna e bisognosa di misericordia), viene meno la presunta base della sacra coscienza: viceversa soggetta ad essere abusata dal suo possessore. Ma questa teologia dogmatica è stravolta dai nuovi teologi, che si sono guardati bene dal formulare una nuova dogmatica in materia.
  Il medesimo Catechismo (n. 337 seg.) ribadisce i precetti sul matrimonio, le colpe delle sue violazioni e come porvi rimedio. Contrapponendo tali asserzioni alla Amoris laetitia, sorge infrangibile contro di essa l'accusa di eresia. Non importa. Una volta fissato il principio dell'intangibilità della coscienza, nessuna norma ha più valore oggettivo e inderogabile; purché non turbi l'ordine della pseudo-chiesa.

  Sento che Bergoglio ha già risposto ai suoi accusatori che il documento oggetto di contestazione da lui approvato, è in ordine con la dottrina tradizionale della Chiesa, con san Tommaso d'Aquino, e bisogna saper leggere, leggere tutto per bene.
  Può darsi che vi siano delle asserzioni giuste, che contraddicono quelle errate. È il solito espediente degli eresiarchi: tengono in serbo - pubblicate nella loro dottrina ma quasi nascoste - espressioni corrette con cui tappare la bocca all'obiezione ortodossa; tuttavia non si curano di emendare l'errore perpetrato, né badano alla contraddizione e all'ambiguità che distruggono il vero, pronti a sfoderare un sofisma per smentire i rigorosi formalisti. E infine le incongruenze, di non semplice connessione e comprensione, sono peggiori della netta proposizione eretica (meglio confutabile): difendono l'eresia spacciata, anziché indebolirla,essa farà maggior presa su molti grazie all'astuzia; diversamente: sfiducia nella Sposa di Cristo inattendibile e perdita della fede.
  Si pensi che dopo aver difeso a spada tratta la libertà delle coscienze erranti (n. 364: "l'imputabilità e la responsabilità di un'azione possono essere sminuite e talvolta annullate [...] dalla violenza subita, dal timore..."; n. 365: "il diritto all'esercizio della libertà è proprio di ogni uomo, in quanto è inseparabile dalla sua dignità... pertanto tale diritto va sempre rispettato, particolarmente in campo morale e religioso...") in Appendice, a pag. 178, tra le Sette opere di misericordia spirituale, ricompare "Ammonire i peccatori". Precetto negato a iosa, con argomenti e nei fatti, in nome della libera coscienza, nondimeno da Madre Teresa di Calcutta, proclamata santa.
  Ora, la scocciata risposta di Francesco I riposa sull'asserzione seguente: "Voglio ribadire con chiarezza che la morale dell'Amoris laetitia è tomista, quella del grande Tommaso. Potete parlarne con un grande teologo [...] il cardinal Schömborn". Il quale, in proposito, dichiara essere "funzione propria del magistero vivente, interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta e trasmessa". Sicché, per esempio, "noi leggiamo [...] il Vaticano I alla luce del Vaticano II".
  D'altronde il Catechismo attuale dice, al n. 15, che: "tutto il Popolo di Dio, con il senso soprannaturale della fede, sorretto dallo Spirito Santo e guidato dal Magistero della Chiesa, accoglie la Rivelazione divina, sempre più la comprende e la applica alla vita".
  Non dice che la maggiore comprensione debba essere uno sviluppo semplice e rigoroso della prima sufficiente comprensione, restando fermi i dogmi. I dogmi non vi sono mai neppure nominati. Dunque l'asserita continuità dottrinale resta affidata alla spiegazione dell'ultimo magistero, che in effetti interpreta il Deposito della Fede in modo eretico, violentando i dogmi.
  Così è questione finita. La confutazione della Correctio filialis, che pone l'eresia delle 7 proposizioni attribuite Bergoglio, è bell'e fatta:
1. "Una persona giustificata non ha la forza con la grazia di Dio di adempiere i comandamenti oggettivi della legge divina".
  Come si fa a sapere se uno, quando trasgredisce, ha la giustificazione e la grazia? Quelli che non le hanno a causa di circostanze avverse ("violenza", "timore") dovrebbero essere messi tra i reprobi?
2. I divorziati risposati che vivono more uxorio possono non essere in peccato mortale. - Perché no? Chi può entrare nelle loro coscienze? Come escludere che esistano serie circostanze a giustificarli?
3. "Un cristiano può avere la piena conoscenza di una legge divina e volontariamente può scegliere di violarla in materia grave, ma non essere in stato di peccato mortale".
   Inutile insistere: si dà il caso che ciò avvenga, e se ne tiene conto. De resto, alla gravità della "materia" si contrappone la gravità dei dolori e degli incomodi. Il foro interiore di quel cristiano resta la misura, svelata o incognita, della sua innocenza o colpevolezza. Sussistendo l'incertezza del giudizio sulla gravità del peccato, occorre credergli, occorre assolverlo, persino allorché per scrupolo egli si accusa.
4. "Una persona, mentre obbedisce alla legge divina, può peccare contro Dio in virtù di quella stessa obbedienza".
  L'accusato dirà di non capire il fallo attribuitogli, di non aver pronunciato tale arzigogolo. Egli non ha criticato chi obbedisce alla legge divina, ha assolto chi sembra disobbedire e pare abbia sufficienti attenuanti, che lo rendono degno della misericordia.
5. "La coscienza può giudicare veramente e correttamente che talvolta gli atti sessuali tra persone che hanno contratto matrimonio civile, quantunque uno dei due o entrambi siano sacramentalmente sposati con un'altra persona, sono moralmente buoni, richiesti o comandati da Dio".
  La replica sarà che solo Dio è giudice delle anime.
6. "I principi morali e le verità morali contenute nella Divina Rivelazione e nella legge naturale non includono proibizioni negative che vietano assolutamente particolari generi di azioni che per il loro oggetto sono sempre gravemente illecite".
  Si farebbe più presto imputando all'Amoris laetitia d'avere, in buona sostanza, affermato che la Legge divina ha un valore pedagogico non assoluto, non potendo giudicare le coscienze, il ministro di Dio non potendone scrutare il santuario, dovendo invece tener conto degli elementi di discolpa.
  Ma questa eresia è già stata sostenuta, in vario modo essenzialmente, dal magistero a partire da Giovanni XXIII e dal Concilio sino al Catechismo oggi in vigore. E fa specie che i dotti difensori dell'ortodossia, coraggiosi - benché filiali - accusatori di Bergoglio, soltanto adesso e soltanto a lui contestino errori presenti e palesi da molto tempo nell'ammaestramento e nel governo esercitati dagli occupanti le mura della Chiesa.
  Infine, come possono i circa 60 firmatari della Correctio filialis addossare l'eresia a qualcuno, a Bergoglio, quando essa è stata abolita da lunga pezza? Essa non figura più nel Catechismo e non può essere contemplata né li né altrove dalla psuedo-chiesa, dal momento che questa ha tolto agli eretici il loro nome e il loro essere, prestando alle loro chiese un'idoneità dottrinale, attribuendo loro l'assistenza dello Spirito Santo, considerandole vie di salvezza grate al Signore. Perciò questo enorme tradimento di Cristo, dovrebbe essere anzitutto denunciato.



Piero Nicola