Presentazione di: PIERO VASSALLO, Un treno nella notte
filosofante, Solfanelli, 2013, pp. 195, E. 15.
Dando brillante saggio delle sue ampiamente
sospettate capacità letterarie, Piero Vassallo, rinverdendo il nobile genere
letterario del romanzo filosofico, ci offre “un viaggio satirico/nostalgico”
nella confusa visione del mondo dei “perdenti” ossia della destra italiana,
scomparsa nel nulla e, ciò che più conta, in quella distorta e demenziale dei
“vincenti”: del “politicamente corretto” attualmente prevalente. “Nelle sferzanti caricature – recita la
presentazione dell’opera – il lettore attento non avrà difficoltà a riconoscere
i protagonisti italiani del concorde delirio in atto tra il fantasma della
rivoluzione e la parodia della reazione”. Satira, dunque. In forma di “cronaca di un viaggo tra incubo
e teologia”, come da sottotitolo.
[L’incubo del Neopensiero] Il viaggio
“nella notte filosofante” è dunque un viaggio nell’incubo. I protagonisti si incontrano per caso in un
treno notturno, che viene improvvisamente dirottato e bloccato in una
stazioncina fuori mano, in zona rurale e montana. I viaggiatori vengono sequestrati dalle
Entità, che li sottopongono ad un corso di rieducazione-iniziazione alla loro
ideologia, il Neopensiero. Le Entità
avrebbero preso il potere durante la notte, anche se solo in una parte della nazione. Dopo varie peripezie, il gruppetto dei
viaggiatori – uomini e donne – riesce a fuggire dall’incubo, verso la realtà
dove governa “l’Imprenditore d’Affori”, uomo nuovo pieno di buone intenzioni
anche se il suo programma concreto troppo spesso sembra “ispirato alla
canzonetta oggi qui domani là” (p. 175).
Egli rappresenta tuttavia un male sensibilmente minore a petto del
dominio del Neopensiero. In realtà, la
vera salvezza viene solo dalla fede (pp. 193-194). Questa in modo assai succinto la trama
dell’opera. Il protagonista principale,
Simeone, accademico nella piena maturità ma non ancora anziano, prende il treno
per andare a leggere una conferenza su Arnold Geulincx, filosofo fiammingo del
Seicento, cartesiano sfegatato. Ma il
senso vero della conferenza è: “il declino della ragione occidentale”. Alla stazione lo assalgono ricordi e
riflessioni, che preludono a temi essenziali del libro, vertenti
sull’implosione e lo sfarfallamento della cultura della destra (tema sul quale
Vassallo ha dato negli anni un contributo rigoroso, fondamentale) e sulla crisi
della Chiesa cattolica, argomento anch’esso da lui già indagato e qui
approfondito.
[Un naufragio totale] “Lo splendore dei sogni si rovesciava nel
grigiore dei risultati. Ma…si profilava la maturità cioè la disposizione a
contemplare la vita oltre la raggiante illusione” (p. 9). Era tempo di bilanci, ormai, non scevri da
nostalgie. La vecchia stazione
ottocentesca, grigia sotto la pioggia, che celebrava “con esoterica squisitezza
la copula del romanzo gotico con la vertigine babilonese”, con il suo contorno
di mendicanti malati e di “disturbati”, gli appare all’improvviso come una
sinistra allegoria che “svela il soggiacente disastro”. Quale?
“L’eclissi della Cristianità, la diserzione dei chierici, la discesa del
rito nella farsa, lo scisma universale della cosa pensante, il naufragio del
lavoro nella palude bancaria, il fiume del sangue versato dai pacificatori, la
catastrofe antropologica, l’impero dei gabellieri insaziabili. Agli occhi della mente attonita di Simeone
apparve un sacerdote olandese, che saliva, travestito da Batman, all’altare
improvvisato nella pista del Vaticano II….
La sempiterna, molesta vanità, vanitas vanitatum et omnia vanitas,
l’uggia delle cattedre et giacobine et liberali et leniniste et qualunque altra
cosa, riapparve nell’estensione lampante di un corpo di vagabondi alla deriva”
(pp. 10-11).
Il naufragio di tutto, dunque. Una delle cause principali “l’eclissi della
Cristianità” provocata dalla “diserzione dei chierici” conseguita al Vaticano
II, il Concilio “pastorale” che, senza proclamare nuovi dogmi, ha tuttavia
rovesciato come un guanto l’immagine stessa della Chiesa Cattolica, della
Chiesa visibile.
[L’incubo della Nuova Teologia, che fa
rinascere la teosofia, il “Dioniso indiano”] Ma l’incubo della Nuova Teologia,
quella del Neomodernismo che ha invaso la Chiesa visibile dal Concilio sino ad
oggi, riappare continuamente durante il “viaggio”, vero e proprio tema di fondo. Nel vagone ristorante Simeone trova un
vecchio compagno degli ideali di gioventù, ora avvocato professionalmente
realizzato, con il quale si inizia “il
filosofare”. Riandando innanzitutto al
passato, che è quello dell’ambiente culturale e delle aspirazioni della destra
italiana neo e postfascista, ma anche cattolica, nelle sue diverse sfumature,
sottoposte ad impietoso vaglio critico. Non
dal punto di vista “democratico”, si capisce, ma da quello dell’intellettuale di
destra tornato alla religione dei Padri, al Cattolicesimo fedele alla
Tradizione della Chiesa. Per tal motivo,
l’amico avvocato lo accusa di “clericalismo”.
L’avvocato impersona in modo moderato il laicismo di destra. E come risponde Simeone?
““Cattolico […] Cattolico Hyksos, se posso dire
così. Non clericale. I clericali sono opportunisti e
cleptomani. Non tutti, voglio dire. Ma…il mio trasbordo comunque è avvenuto in un
periodo difficile per la Chiesa. Osservatori
esterni […] non potevano valutare la
gravità della crisi cattolica, in atto dopo l’ottobre del 1962 [mese d’inizio
del Vaticano II]. Gli esclusi vedevano
solo la baldoria democristiana. Simeone,
invece, aveva frequentato gli ambienti curiali, dove uomini di sofferta
esperienza parlavano di sfacelo. Simeone
si era legato ad ambienti bersagliati dal sarcasmo di una folla intelligente e
in perenne fregola. La stampa a larga
tiratura li umiliava con tiri feroci. Gli
assedianti replicavano riversando dotte citazioni greche e latine nelle pagine
inarrivabili delle loro riviste […] Vaticanisti,
scolarchi bolognesi, spretati e teologi mittel-europei contestavano
l’esagerazione tradizionalista. Ma la
piena del fiume calamitoso, sul quale il giubilante aspersorio dei progressisti
versava la spumeggiante acqua della banalità, era davanti a tutti” (pp. 25-26). E va
meditato questo fulminante accostamento tra Giuliano l’Apostata e il Vaticano
II: “L’imperatore era un ellenista
intento a ricostruire la sinagoga, in sfida a Gesù Cristo. A modo suo Giuliano ha anticipato
l’ecumenismo del Vaticano II” (p. 46). Il
concetto dardeggia all’interno della discussione nel vagone ristorante (si sono
nel frattempo aggiunte altre persone) che raggiunge il suo punto chiave nella
critica al falso concetto di tradizione di Julius Evola, al suo mefitico e nello
stesso tempo risibile tradizionalismo neopagano, che tanti guasti ha prodotto
nell’ambito della destra, soprattutto tra i giovani (pp. 39-47).
Ma Evola è rimasto nel ghetto culturale della destra mentre del suo
ispiratore, l’ancor più tenebroso Guénon
– un logorroico ciarlatano erudito, uno che arzigogola su simboli ed
“illuminazioni”, che sembra credere nell’esistenza dei teosofici “superiori
occulti” nascosti nel Tibet – si è ora appropriata la sinistra del neopensiero,
che ne pubblica le opere nelle serie pastello di Adelphi (ivi). Sono lontani anni luce – sottolineo – i tempi
nei quali György Lukács, il famoso filosofo
marxista ungherese del secolo scorso, ne La distruzione della ragione
poteva passare al setaccio con sprezzante sicumera l’irrazionalismo nel “pensiero
borghese”, cominciando da Schelling per
concentrare poi il tiro su Nietzsche. Non
è proprio l’opera omnia di Nietzsche che hanno pubblicato gli intellettuali
comunisti fondatori della Adelphi? Una
ben triste parabola discendente, anche se a ben vedere inevitabile, quella che
da Nietzsche porta a Guénon e alla teosofia. Una parabola che ben riflette il dissolversi
della Rivoluzione sociale in quella… sessuale.
[Ricordi d’infanzia e di gioventù, purificatori] Ma il “viaggio” non è solo
“filosofico”. Simeone è assalito anche
dalla “nostalgia” ossia da ricordi d’infanzia, che non scadono nel
sentimentale, come spesso accade in circostanze del genere, e rappresentano una
pausa nel ritmo incalzante della critica e della satira. Nel ricordo, anche l’autocritica di passati
pregiudizi, come nel capitolo intitolato Il ragioniere Brambilla (pp.
115-121). Tra le più belle del libro
sono, a mio parere, le tre paginette e mezzo intitolate Una sognata
ascensione all’infanzia (pp. 57-60).
“Ascensione” di chi nel 1945 aveva sì e no dieci o dodici anni e
proveniva da una famiglia che si era trovata dalla parte “sbagliata” della
guerra civile. “Dopo i lunghi anni dello
sfollamento” in un montuoso retroterra, “Simeone era ritornato alla vita di
città. Contrariamente alla speranza, a
lungo coltivata, non accadde nulla di strabiliante. Le strade urbane erano più larghe, orlate da
marciapiedi lastricati e quasi puliti. Belli
i tram, il verde bottiglia, orlato del tricolore, correvano su rotaie
scintillanti, ma, nell’afa, l’olio da freni emanava l’odore della formica
arrosto. Terminata la prima corsa
nauseante, decise di evitare i tram, per quanto possibile”. Chi non ricorda quei tram, nelle nostre
città, che rinascevano lentamente dopo l’Apocalisse che si era abbattuta
sull’Italia nel biennio tremendo del Castigo, della duplice, crudele invasione
straniera e della guerra civile? Quel verde
bottiglia che ricordava lo sfavillare degli scarabei? E quel terribile ed inspiegabile odore sui
binari, l’estate? La città è il luogo-simbolo
del difficile ritorno alla pace, nella Nuova Era Democratica. “Dopo l’ora della cena la gioventù si agitava
in una danza sguaiata e funambolica, detta bughi-bughi. Garrivano le rosse bandiere e quelle a
strisce e stelle. Gli alfieri della
licenziosità avanzavano intrepidi. Le
malattie specifiche al seguito. Si
intravvedeva già l’inferno musicale di Theodor Wiesengrund Adorno. Direttamente dal salotto iniziatico, entrò
nella storia d’Italia l’umbratile figura di Ferruccio Parri. Trasmesso per radio, il discorso del primo
ministro spaventò la maggioranza degli italiani, ma il nuovo stile non tardò a
diffondersi nella minoranza rivoluzionaria.
La piazza dava infatti segnali inequivacabili di democratica
dignità: quale ringraziamento per gli
aiuti alimentari dall’Argentina, austeri cortei democratici gridarono: “Puttana fascista!”, all’indirizzo di Evita
Peron in visita di cortesia” (pp. 58-59).
Qualche tempo dopo, l’occasione di una partita di
calcio fra ragazzi, in periferia, riporta Simeone in solitaria passeggiata
sulle colline dove era vissuto da sfollato.
“La memoria risaliva con ansia alacre, fra cardi pungenti e erbe
assetate”. Dai ricordi dell’ingrato
lavoro dei contadini “montanari ostinati nella valle a gola di lupo”, balza
improvvisa l’immagine della “maestra giovane” nella scuola di montagna, che li
infiammava raccontando le storie degli eroi italiani: Francesco Ferrucci,
Ettore Fieramosca, Giovanni dalle Bande Nere, Veniero, Montecuccoli, gli
studenti di Curtatone, via via sino al plumbeo presente del 1944. Scomparsa improvvisamente nel nulla, la
maestra. Ma si seppe poi che i partigiani
comunisti l’avevano messa al muro perché “spia fascista”, un mese prima della
fine della guerra. Era questa
l’etichetta infamante che all’epoca si usava per giustificare esecuzioni
sommarie e puri e semplici omicidi. “Improvvisamente
l’immagine della maestra lo raggiunse e gli camminò a fianco, persuadendolo a
rallentare il passo. Nevicava e un
pallore mortale illuminava il viso della ragazza. Al tempo della scuola non poteva misurare la
bellezza maliosa, che adesso gli faceva battere il cuore infantilmente. “L’uomo
non è stato creato per la morte, perciò, in alto, il dolore si estingue. La neve attutisce i colpi della vita. La neve è silenziosa, come la memoria
dell’eterno”. Simeone non poteva
articolare parola. I pensieri e le
lacrime gli gonfiavano il cuore” (pp. 59-60).
[L’Ultrarivoluzione per restaurare la “Cultura
Originale”] Dai ricordi, che si sovrappongono alla discussione sulla
crisi dei valori, di colpo nell’Ultrarivoluzione. Niente sangue e ammazzamenti, almeno
all’inizio. Un sequestro. Un terzetto di rivoluzionari, indossanti un
bracciale con la falce, il martello, la swastika, porta Simeone e i suoi
compagni in certe costruzioni (chiamate Collana d’Armonia) vicino ad un
vecchio paese, dove cominceranno la loro rieducazione. Nel paese, pieno di imposto simbolismo
rivoluzionario, c’è una statua a Pol-Pot, “l’ecologico massacratore asiatico”; una
piazza dedicata a Wilhelm Reich, lo “psichiatra deragliato”, sessuomane morto
pazzo, che farneticava di “energia orgonica”; la Finestra panoramica Gilles
Deleuze, etc. L’insieme dà
un’impressione surreale e dadaista. “Questa notte, prima dello sciopero, c’è
stato un cambiamento radicale. […] È in atto un processo di restaurazione della
Cultura Originale. L’Occidente cristiano
è al tramonto. Lo dice la parola stessa,
occidente-cadente […] La radio, intanto, ha annunciato che la schiavitù
dei consumi è abolita. Le Entità stanno
scrivendo il nuovo codice dei valori.
Per il loro adattamento gli specialisti hanno studiato ogni dettaglio…un
programma virtuoso e piacevole. Oggi
stesso ascolteranno la prima lezione di ecologia dura” (p. 67). Naturalmente Simeone tenta di protestare. Nascono discussioni. Un rappresentante delle Entità, così
apostrofa Simeone. “Lei è un
caratteristico prodotto del kalî-yuga! Perciò rimane sordo al suono del neo
pensiero. Noi propiziamo il ritorno
all’età dell’oro. Noi la correggeremo,
noi la ricreeremo. La faremo uscire
dalla caverna teista, a calci se sarà necessario! Ne parleremo, il tempo per
aggiornarla non ci mancherà. Domani
s’inaugura il corso di educazione metapolitica.
Inizieranno i professori Gamballarghi e Ceneretti, che commenteranno la
grande opera di Gilles Deleuze, Diventare molteplici” (p. 81). La Nuova Età è ormai alle porte. “Le forze reattive saranno eliminate dalla
trasmutazione. L’unione di Dioniso ed
Arianna è prossima. Noi scioglieremo il
crampo di tutte le muscolature genitali.
L’uomo guarirà dalla lue monoteista.
Diventerà un’onda nell’oceano divino.
Anche lei si arrenderà alla nostra arte” (ivi).
Comincia la “rieducazione”. Assistiamo ad un’esposizione in chiave
brillantemente satirica dell’ideologia strampalata che sorregge il
“politicamente corretto” dominante, il cui scopo ultimo tuttavia non fa per
niente ridere, visto che mira a fare degli italiani tanti “scettici illuminati
ed integrati” (p. 74). Tale scopo si può
raggiungere solo sradicando del tutto il Cristianesimo dai cuori e dalle menti. Ma non siamo alla riedizione delle campagne
ateistiche della Rivoluzione Francese o dei regimi comunisti di un tempo. Elemento essenziale della lotta contro la
vera religione è lo scatenamento della superbia dell’uomo, per spingerlo
(alla maniera degli gnostici) alla rivolta contro l’ordine naturale istituito
da Dio. I sequestrati devono indossare
“una tuta color coloniale”, abitare in baracche dal tetto di lamiera, prendere
orribili pasti “biologici” in comune serviti da “inservienti scalzi e vestiti
d’arcobaleno”, sotto lo sguardo delle Entità o comunque di loro rappresentanti,
con le relative “omelie” di “professori” all’uopo designati; sorbirsi
“seminari” che illustrano il neopensiero.
[Apologia della Trasgressione] Il “sovrano della mensa” sta appollaiato
su di un sedile rialzato dal quale, circondato da ospiti d’onore, controlla la
comunistica refezione: un piccolo uomo non
più giovane, dal viso scarno, cupo e distante, coltissimo e celebre intellettuale,
critico letterario e famoso editore. Il
tutto sembra una sinistra parodia dei pasti in comune nei conventi di un tempo. Le letture fatte ad alta voce durante la
refezione non sono tratte dai Vangeli ma dai testi di Nietzsche, mentre
“l’omelia” di un iniziato, che saluta i nuovi ospiti, esalta “le nozze di Nomos
e Adikia” ossia l’incontro degli opposti e contrari: della Norma e della sua Trasgressione, alla
maniera degli gnostici antichi. “Ora
sappiamo che qualsiasi separatezza delle due dimensioni è dia-bolica. Il segreto dei nostri cuori muove verso l’accogliente
donarsi, che accende il fuoco della promessa.
I nostri cuori hanno formato un arcipelago che sovrasta le tempeste
cristiane e naviga verso l’eterno…”(p. 88).
I compagni di mensa già residenti nel centro di rieducazione svelano ai
nuovi arrivati le fonti della filosofia che ispira il centro stesso: le ricette della pessima cucina loro
somministrata sono state scritte nel XVIII secolo dall’abate Deschamps, uno dei
teorici del comunismo utopico, nemico del matrimonio. “Affinché nessuno potesse godere i favori
esclusivi di una bella, concepì un regolamento che rendeva obbligatorio
esercitare al buio il comunismo sessuale e/o bisessuale” (p. 90). E difatti la cerimonia di iniziazione (per
soli volontari, peraltro sempre numerosi) che avrà luogo in forme farsesche e
granguignolesche quale momento clou dell’educazione al nuovo pensiero e stile
di vita, si terrà in modo simile, riproponendo “l’incubo” degli “usi deplorati
dall’Alessandrino negli Stromata”, gli usi del paganesimo più
decadente (p.93; pp. 153-159).
[Fonti del Neopensiero] Al di là delle allegorie e dei simboli, degli eventi
simbolici che popolano con indubbia efficacia descrittiva e polemica l’incubo,
che vive di dottrine e stati d’animo e non di fatti realmente
accaduti (p. 187), è necessario (anche senza poter esaurire i molteplici spunti
presenti nel viaggio) presentare al lettore le principali dottrine che,
in un apparente disordine vengono a
costituire il mosaico del neopensiero. Innanzitutto,
l’utopismo a sfondo materialista e sensista del Settecento illuminista,
con la sua intrinseca, volterriana irreligiosità. Poi, l’immancabile Marcuse, che “ha riciclato
il delirio di Nietzsche coprendolo con un’etichetta di sinistra” (p. 91). Marx, in quanto “posseduto
dall’ebrezza del nulla” (ivi), ovvero il nucleo nichilista e distruttivo del
marxismo, dottrina che esalta l’odio di classe, la violenza come metodo di
lotta e di governo, nemica acerrima del matrimonio, della famiglia, della
religione, di una visione normale della società, che proclama destinata
a dissolversi nell’impossibile società senza classi del futuro; nucleo nascosto
in una filosofia della storia apparentemente positiva, perché auspica il
riscatto delle classi più umili e si mostra ottimista sulla “magnifiche sorti e
progressive” dell’umanità. La teosofia, impersonata dal mito del Tibet
(“la tecnica tibetana trasporta al di là delle regole morali, perfino al di là
della fantasia più accesa”, p. 93), e quindi dal buddismo tantrico, quello
della “magia sessuale”, dal ripescaggio di autori come Guénon, con i suoi
vaneggiamenti sull’uomo che si ricrea liberandosi della fede nel vero Dio con
l’appropriarsi una nascosta sapienza (orientale) originaria, supposta madre di
tutte le religioni positive, sapienza che in realtà non è mai esistita, se non
nelle menti di gnostici, massoni, occultisti, venditori ambulanti di ogni sorta
di esoterismo.
[La ribellione “germanica” contro Dio] Ma
con queste ultime pseudofilosofie e laiche pseudoreligioni siamo già al momento
terminale dell’involuzione che conduce al neopensiero. Il contributo principale sarebbe stato quello
offerto dal “pensiero germanico”. Inteso
come? Come quel pensiero che ha posto,
più di altri, l’esigenza della necessità della libertà dell’uomo di fronte a
Dio (p. 99). Ora, questa “libertà” piena
di superbia e spirito luciferino, viene esposta (nel seminario “psicoattivo”
organizzato dal prof. Gamballarghi, noto “psicopompo” al servizio delle Entità)
in modo solo apparentemente bizzarro,
cioè attraverso l’opera di Wagner. Il quale “fa dire a Wotan che ‘è ridicolo
asservire i servi del destino: divino
sarebbe creare un uomo libero, che solamente compisse quanto io voglio’. Ecco svelati i protagonisti della commedia
teologica messa in scena dagli autori dell’Antico Testamento e dai
metafisici: un dio che vuole obbedienza
e un uomo che può obbedirgli o disobbedirgli […] Avendo intuito la radice dell’inganno,
Marcione [l’eretico padre degli gnostici e dell’antisemitismo] postulava una
divinità silente e abissale, cioè opposta al dio che ha dettato la legge a
Mosé. Solitamente non ci pensiamo, ma la
civiltà cristiana è nata dall’inganno svelato da Marcione e dalla divina diade
Bakunin-Wagner. La finalità dei nostri
seminari è per l’appunto liberarvi dall’inganno teologico […] Le leggi stesse
con le quali un dio afferma la sua sovranità, lo traducono in prigionia della
libertà concessa alla creatura […] Wotan vuole che la creatura libera voglia
liberamente quello che lui, Wotan, vuole tassativamente e infallibilmente […] L’eventuale
rifiuto di obbedire abolirebbe la trascendenza degli dèi” (pp. 99-100). Abolirebbe in realtà gli dèi e la religione
stessa, la sua necessità: “Wotan, gli
dèi e i semidei del Walhalla si dissolvono per l’eternità, schiantati
dall’ignoranza invincibile e santa di Sigfrido” (p. 102). Wagner si incontrerebbe allora con
Spinoza. Continua a spiegare lo
psicopompo: “il cammino della libertà
spirituale comincia quando si coglie l’ispirazione marcionita (dove marcionita
significa anticattolica) della dottrina wagneriana. Il problema dell’umanità contemporanea è
capire che il bene e il male sono destini.
Ovvero che il male consiste nell’essere. In questo senso è decisivo
l’audace accostamento, osato dall’editor mirabilis Rosati, della sensualità
pagana di Wagner all’irenismo etico di Spinoza […] Spinoza aveva dimostrato che è sufficiente un
atto del pensiero per spezzare le catene della dipendenza dal dio. Questa è la grande scoperta dello spinozismo
e del wagnerismo: il fato esclude che la libertà dell’uomo conosca l’ineffabile
volontà divina, dunque postula una libertà ignara, e perciò impossibilitata sia
a obbedire che a disobbedire […] Tramontati gli dèi, l’uomo si ritrova nella
perfetta solitudine e nella gioiosa indifferenza al bene e al male. L’orizzonte decreazionista ultimamente
disegnato da Simone Weil ”, in altro luogo del romanzo definita con rara
efficacia “pitonessa neocatara”(pp. 100-102; p. 85).
[La scomparsa dei “problemi morali” dal nostro
orizzonte] Ma come può l’uomo,
dotato da Dio del ben dell’intelletto, non rendersi conto dell’esistenza di una
volontà divina le cui leggi devono esser comunque rispettate? E il mondo, con tutto il suo meraviglioso
ordine, si è forse creato da solo? Non
esiste una morale naturale, iscritta nei nostri cuori? Il peccato originale ha indebolito la nostra
mente, rendendola succube delle passioni, non l’ha distrutta. Volendo, siamo sempre capaci di
ragionare. Ma i sequestrati cercano
invano di contraddire lo psicopompo, un torrente in piena, che alla fine crede
di metter tutti a tacere sentenziando:
“Ma perché ci perdiamo in sciocchezze?
I problemi morali sono caduti insieme con gli errori della metafisica”
(p. 102). Dalla singolare dottrina del
neopensiero esce comunque una constatazione che risponde al vero, nel senso che
oggi (e da tempo) non si parla più di “problemi morali”. Vassallo coglie qui un punto essenziale. Dalle
nostre università non sono forse di fatto scomparsi i corsi di “filosofia morale”? Erano corsi dignitosi, a volte di altissimo
livello, che fornivano un quadro esauriente dello sviluppo del pensiero etico,
dai Greci in poi. L’etica, quella vera,
è inseparabile dalla religione e dalla metafisica. Scomparse l’una e l’altra, come può
mantenersi un’etica? Non se ne parla
nemmeno più, è evidente. Anche se, a ben
vedere, non si tratta solo di una carenza speculativa e teologica. Il discorso sui “problemi morali” non può più
farsi anche a causa del femminismo, del quale il romanzo (senza prenderlo di
petto) evoca tuttavia i presupposti “culturali”, disseminati nelle “omelie” del
neopensiero: l’esaltazione
dell’androginia, dell’indistinzione erotica tra il maschio e la femmina, di
Apollo e Dioniso in quanto “divinità bisessuate”; il disprezzo della fecondità
e quindi del matrimonio, articolato nell’esegesi di oscure e decadenti mitologie
orientali (pp. 107-114). Il femminismo,
infatti, ha reso trasgressivi (il termine è usato oggi con
compiacimento) i costumi delle donne della nostra epoca, di una parte di loro
talmente ampia da sembrare netta maggioranza.
Riaprire il discorso sui “problemi morali” vorrebbe dire (suscitando
violente reazioni) esser costretti, tra l’altro, a sottolineare la scomparsa di
valori fondamentali della femminilità, intesa (come dev’essere) in senso etico
e non meramente estetico: mi riferisco all’assenza evidente di modestia e pudore
che, ormai da diversi anni, caratterizza il comportamento di molte donne sin
dall’età giovanile. Come dimenticare le
studentesse che nei nutriti cortei invocanti il “diritto” ad abortire o
celebranti la “giornata della donna”, riunivano ritmicamente le mani sopra la
testa a mimare oscenamente la forma della vulva, che gridavano per l’appunto di
voler “gestire” come piaceva a loro? E che dire della singolare ambizione che
spinge oggi tante donne a disprezzare il matrimonio, la famiglia e la
maternità, per poter competere con gli uomini in tutti i campi, al fine di
dominare nelle professioni e nella politica attiva sì da prender un domani
nelle proprie mani il governo degli Stati?
[Padre Sergio, il buon sacerdote] La denuncia del “pensiero germanico”
quale protagonista principale (certo non
il solo, bisogna ricordare) dell’attuale decadenza, viene ripresa, nella parte
finale del libro, nei ragionamenti affidati a Padre Sergio, figura del
sacerdote rimasto fedele alla Tradizione della Chiesa, a cominciare dalla Messa
di rito romano antico, e per questo perseguitato e ridotto allo stato laicale. Sono molto belle le pagine nelle quali viene
ricostruita la sua vocazione sacerdotale, fanno rivivere la Chiesa cattolica
della nostra infanzia, non ancora inquinata dagli “aggiornamenti” alla
modernità (Una vocazione d’altri tempi, pp. 129-135). Padre Sergio vive in semiclandestinità presso
due anziane e distinte sorelle reazionarie, tollerate dalle Entità (pp.
123-127). Le autorità religiose hanno,
infatti, instaurato un “dialogo” anche con le anticristiane Entità. L’Ordinario competente riteneva “Rosati un
non credente aperto al dialogo e alla ricerca della verità. Al funerale della mamma fu visto piangere […] Egli mi confidò che stava addirittura
pensando di creare una speciale cattedra di testimonianza da affidare a
Rosati…la cattedra dei credenti atei” (p. 147).
La parodia della bizzarra e sconclusionata “cattedra dei non credenti”
allestita dal defunto cardinale C.M. Martini è efficacissima. E Padre Sergio non esita a mettere il dito
sulla piaga: “Il malessere ha messo
radici nella nostra Chiesa. Pio XII
aveva indicato il pericolo, nella Humani generis. Troppo tardi.
Intorno a lui molti, e non dico i peggiori, erano già preda delle suggestioni[…]
Sua eccellenza ritiene che criticare esaspera i giovani e tradisce la loro sete
di giustizia. Forse è per questo che mi hanno destituito e confinato qui: irritavo i giovani, frenavo i loro impulsi
generosi. La paura, il fumo di Satana,
fa apparire gli inesistenti lati buoni delle Entità. Questi sono i pastori pigolanti al cospetto
di un mondo che avrebbe bisogno di udire ruggiti” (pp. 147-148). È il pigolare e lo squittire di un
cattolicesimo che sembra sul punto di esalare supinamente l’ultimo respiro, se
non sapessimo che il Capo effettivo della Chiesa è Nostro Signore, il quale
saprà ben Lui come intervenire, al momento opportuno.
[Heidegger
pensatore “germanico”, come Heine] E proprio Heidegger, in una lettera del 1933, riprendendo il tema centrale
della rivoluzione conservatrice, “dichiara di voler condurre la cultura
nazionalsocialista alla lotta contro lo spirito morente del cristianesimo”
(p. 149). Heidegger non è forse la
figura più rappresentativa del “pensiero germanico”? Ma è giusto dire “germanico” invece di
“tedesco”? Il termine sembra in realtà
appropriato poiché indica l’emergere nel pensiero tedesco della componente “germanica”, così come appare ad
esempio nell’invocazione di Heinrich Heine, raffinato poeta e saggista del
primo Ottocento, mirante a togliere gli dèi dei Germani (e dell’antichità
classica) dall’esilio nel quale li aveva cacciati il cristianesimo
trionfante: toglierli per riproporli contro
lo stesso cristianesimo. Nella sua
battaglia contro l’odiata religione, Heine voleva utilizzare in senso
culturalmente rivoluzionario “le potenze nascoste del paganesimo classico e
germanico”(Reimar Klein). L’israelita
Heine incautamente si adoperava ad esorcizzare gli spiriti tenebrosi della
foresta nibelungica. L’ispirazione
“germanica” e quindi irrazionale è evidente in Heidegger, filtrata
attraverso Hölderlin e Nietzsche. “Heidegger – continua Padre Sergio – a chi sa
leggerlo attraverso Hölderlin, si
rivela l’autore di una mistica vaneggiante. Concepito l’essere primordiale come
il Nulla dall’idealismo, immagina la creazione come caduta degli enti
nell’inautentico, dove si squadernano le situazioni dell’inganno e della vanità
[…] L’imperativo vivere per la morte,
significa anzitutto che si deve vivere nel disordine. Di qui la biografia di Heidegger [e di Sartre
e Simone De Beauvoir, aggiungo, la celebre “coppia aperta” che lo considerava
un maestro]. L’ontologia negativa genera il culto degli eroi negativi e dei
popoli viziosi” (pp. 149-150). Ma bisogna
riaffermare la verità: “Dio è l’ipsum esse”. Non è l’indifferenziato divenire. Né il
Tutto. Né può concepirsi la “morte di Dio”, idea a dir poco ridicola. “Importante è uscire – dice nelle pagine
finali un altro personaggio positivo del libro – dal dilemma dell’imbroglione
tedesco in braghe alla zuava: perché
l’essere piuttosto che il nulla”(p. 183).
Alla mortifera spiritualità di Heidegger, orientata verso la morte e il
nulla, bisogna contrapporre, afferma audacemente (ma giustamente) Vassallo, la
cattolica Edith Stein, “il più luminoso spirito della Germania moderna, che
parla di coloro che l’azione santifica [in senso cristiano] strappandoli
dalla comunità degli uomini cosiddetti naturalmente ben pensanti” (p. 184).
[L’irriverenza di Vassallo è giustificata]
Ma non avrà esagerato Vassallo con l’irriverenza della sua satira, che
comunque va sempre a colpire concetti e stili di vita ben precisi, bersagli ben
difesi? Heidegger, considerato ancor
oggi il più grande pensatore del XX secolo, non ha forse analizzato in
profondità i meandri esistenziali dell’uomo contemporaneo, riscrivendo l’impianto
stesso della metafisica, delle “categorie”?
Il fatto è che, nonostante la profondità di certe sue analisi, tutto il
suo discorso sembra viziato da un incredibile paradosso, quello di voler
dimostrare che “il Nulla è qui”, contro il Dio creatore. Pertanto, il suo discorso teoretico si avvita
su se stesso, avendo bisogno di una terminologia che esprima l’inesprimibile e
l’indimostrabile, ossia che “il Nulla è qui”, terminologia fatalmente intrisa
di neologismi, alcuni dei quali del tutto incomprensibili persino per i
tedeschi. Ma la montagna partorisce
l’inevitabile topolino poiché la dimostrazione dell’esistenza del Nulla viene
alla fine trovata nella sensazione del timor panico, dell’incontrollabile
smarrimento esistenziale; nel timore, nell’angoscia che spesso senza causa affliggono
gli uomini nella loro “cura” quotidiana: tutti stati d’animo che presuppongono
per l’appunto l’essere, dimostrando essi con la loro stessa esistenza dentro
l’animo nostro che il Nulla non esiste.
Non esagera quindi Vassallo, a parte (a volte)
qualche sberleffo di troppo. E nemmeno
quando sembra mancare di irriverenza nei confronti della scienza
contemporanea. “La prossima lezione si
terrà domani alle ore sei in punto. Alla
luce della nuova fisica, che osserva il pallone entrare in porta prima che il
calcio sia sferrato, il chiarissimo prof. Idro Lapo Ceneretti confuterà il
principio di causalità” (p.104). In
effetti, non mancano di certo tra scienziati e filosofi della scienza le
elucubrazioni sull’inversione del principio di causalità nell’ambito degli
eventi fisici o sull’inesistenza del tempo.
Si tratta di speculazioni che riflettono, in modo a volte per l’appunto
bislacco, la crisi nella quale è caduta la fisica da quando, penetrando nel
mondo subatomico è giunta a scoperchiare il sostrato della materia, non
riuscendo più ad applicarvi le categorie della scienza classica (di Galileo, di
Newton) fondate sul senso comune e quindi sul principio di causalità.
[Leopardi però non c’entra con il neopensiero]
Nell’includere anche Leopardi nella
filosofia dello “odio gnostico contro la vita” a causa del suo desolato
pessimismo (p. 150), mi sembra, invece, che Vassallo abbia esagerato. Non direi proprio che il pessimismo di
Leopardi esprima lo spirito di ribellione contro Dio e il desiderio di
rovesciare tutti i valori che si riscontra nel Nichilismo contemporaneo, del
quale il Neopensiero è l’ultima incarnazione. In Leopardi, come sappiamo, v’è una
nota del tutto personale: l’infelicità di un individuo piccolo, storto, gobbo,
malaticcio, che le donne non degnavano di uno sguardo. Leopardi soffriva anche
del clima opprimente dell’Italia della Restaurazione. Non bisogna certamente lasciarsi
sedurre dal pessimismo leopardiano che, nella sua radicalità, è del tutto
negativo, e inclina a far perdere la fede.
Ma è vissuto dal poeta come uno stato d’animo provocato dalla natura
matrigna, che si deve subire, e non si muta in ribellione verso Dio. Anzi gli
ispira profonde e poetiche riflessioni sulla caducità delle passioni e delle vicende
umane; sulla vanità e falsità delle religioni secolari: gli ispira insomma la condanna anticipata di
tutto ciò che al neopensiero sembra positivo.
La mia è comunque una critica su di un aspetto
minore dell’opera. Che resta
validissima, nella sua coraggiosa e più che fondata polemica, per di più
letterariamente pregevole, contro il “politicamente corretto” che ci opprime.
Paolo Pasqualucci
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