lunedì 30 gennaio 2017
giovedì 26 gennaio 2017
Tutti, tutti, migrammo un giorno nero (di Pucci Cipriani)
Nella mia famiglia - finché famiglia c'è stata, prima ancora dell'ultimo doloroso evento, per cui posso ben dire, parafrasando il Pascoli: "Tutti, tutti, migrammo un giorno nero" - usava annunziare qualche importante ricorrenza con il ricordare un altro evento, o festa, antecedente e così la nonna diceva : "Siamo ai morti, tra poco arriva Ceppo", ovvero il S. Natale e poi, il mercoledì delle Ceneri - al mio paese, nella piazza antistante alla chiesa, fanno una "polentata antigiacobina" che distribuiscono a tutti, condita con i porri e il baccalà, per ricordare la liberazione di Borgo dalle truppe rivoluzionarie, quando fu bruciato l'albero delle false libertà in mezzo alla piazza e innalzata, al suo posto, la colonna con sopra la Madonna del Conforto - si diceva : "Ci vuole un fiat ad arrivare a Pasqua".... e così via...
Da oltre quarant'anni io mi reco a Civitella del Tronto e da una trentina organizzo, insieme agli amici storici, il Convegno della Tradizione della "Fedelissima" Civitella del Tronto che si tiene nella seconda settimana di marzo, dal venerdì alla domenica...e così, arrivati a febbraio in casa si diceva :"Vai..tra poco c'è Civitella..." e, infatti, già a fine febbraio, si preparavano borse e scatoloni con libri "alternativi", calendarietti, bandiere....e, poi, via, in partenza...e per arrivare ci voleva una giornata...allora...
Già, ma io nel Settanta, nulla sapevo della "Fedelissima" Civitella del Tronto, nonostante avessi iniziato a leggere alcuni libri di Carlo Alianello tra cui "La Conquista del Sud" - Ricordo la copertina tricolorata della Rusconi libro con in mezzo una litografia di un plotone di bersaglieri che fucila un "brigante", ovvero un patriota, combattente per Re Francesco (Dio guardi!) e poi , sempre di Alianello, una vecchia edizione de "L'Eredità della Priora" delle edizioni Feltrinelli - me la regalò il mio amico Paolo Caucci - e, infine "L'Alfiere" che ti fa un quadro di quella infame guerra coloniale contro il popolo del Sud con le parole del Capitano Franco, morente, dopo aver eroicamente combattuto sugli spalti di Gaeta:
"Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento magari o un ideale, ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza.
Qui non c'è vanità , non c'è successo, non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora. Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono la fedeltà, l'onore, la bandiera e la Monarchia, perché son padroni di sé e servitori di Dio.
Ieri forse poteva sembrar più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con noi c'è la sventura, e questa è la parte più bella. Perché sopra noi ci possano scrivere senza speranza"
Andavamo dunque i primi anni il sabato ad Ascoli ed eravamo ospiti, per la cena, nella casa di campagna di Caucci e, poi, la mattina, a Civitella, sulla Rocca, che ancora non era sistemata e, mi ricordo, accedevamo alla fortezza mediante una scala a pioli (mah...e mi sembra impossibile, ora) che due ragazzi, i quali si erano inerpicati precedentemente, tenevano avevano gettato e tenevano ferma...ma prima ancora del discorso commemorativo sulla Rocca (non siamo mai stati, allora, più di una quindicina) presso la chiesetta di San Giuseppe c'era la S. Messa, quella in rito romano antico, la Messa di sempre... e di tutti. E siccome allora in Italia non c'era il Priorato della FSSPX, e trovare un sacerdote che celebrasse la Messa cattolica( si diceva la Messa in latino) era non dico difficile ma perfino impossibile, Paolo Caucci era ricorso a un Canonico del Duomo di Ascoli buona persona ma che poco sapeva della Tradizione (che probabilmente confondeva con il Ventennio) che riassumeva così la sua posizione "Mah! Saprei io che fare alli giacubine: arza o' cappello e dacce 'o manganello"... Ma questo Canonico coraggioso celebrava la Messa di San Pio V..la Messa dei Santi e dei Martiri.
Ed è stata una "grazia", una grande grazia, quella di aver potuto assistere alla Messa cattolica prima celebrata da questo canonico e,dopo qualche anno, dai sacerdoti della Fraternità San Pio X; quindi, per venti, anni grazie al nostro "eroico" cappellano don Giorgio Maffei che era sacerdote diocesano a Ferrara, Cappellano della Certosa e che, in seguito, anche lui entrò, con il consenso del suo vescovo, nella Fraternità San Pio X.
Ma io li ricordo tutti i sacerdoti che, in anni, si sono succeduti a guidare la Via Crucis del venerdì e a celebrare la S. Messa della domenica nella chiesa di Sant'Iacopo alla Rocca e, nonostante alcuni abbiano scelto strade diverse dalla nostra, io non posso fare a meno di ricordare la loro grande sollecitudine pastorale, una grande spiritualità e umanità : don Francesco Ricossa, don Ugo Carandino (ora è, oltre che un caro amico, uno dei miei preziosi fornitori di libri), don Piero Cantoni ,rigido difensore di Mons. Lefebvre, e duro demolitore del Concilio vaticano II, il caro don Emanuele du Chalard - lo conobbi, e sembrava un ragazzino, quando - primo prete in Italia ad Albano - accompagnò Mons. Lefebvre dalla Principessa Pallavicini in un'epica conferenza che scombussolò il Vaticano - e poi anche i sacerdoti dell'ICRSS, don Mauro Tranquillo, don Pierpaolo Petrucci, p. Wodzach che ci illuminava con le sue lezioni di storia, infine i due penultimi Superiori della Fraternità Sacerdotale San Pio X, persone eccezionali, don Michele Simoulin e don Marco Nelly, che, oltre a celebrare la S. Messa, furono tra i relatori e le loro belle conferenze sono poi state pubblicate su Controrivoluzione (www.controrivoluzione.it) e don Stefano Carusi,grande Docente e conferenziere e, ahimè, anche polemista di classe, l'amico fraterno che con Manlio Tonfoni mi invito' - dopo che mi aveva invitato il caro Fabrizio Di Stefano nel 1999 nel bicentenario delle Insorgenze antigiacobine... e che, da allora, è sempre stato al nostro fianco -, all'Università di Camerino per una serie di conferenze tra cui quella insieme ai figli di Guareschi Alberto e Carlotta - e i cui scritti il buon don Stefano, nonostante le mie ripetute richieste per la pubblicazione, preferisce tenerseli nel cassetto....
Ma perché questa scelta di Civitella del Tronto, questa Roccaforte che non si arrese nonostante gli ordini del Re e, poi, addirittura contro gli ordini del Re, continuando a combattere per il partito della Regina Sofia, che aveva inviato ai difensori, dopo la caduta di Gaeta, una bandiera Biancogliata, ricamata con le sue mani con la scritta "Non mi arrendo" ?
Già, erano gli anni grigi della contestazione sessantottarda che ha forgiato queste nuove generazioni venute su - l'eccezione conferma la regola - a televisione, nutella e scuola "a tempo pieno", frasi fatte e supponenza; erano i tempi in cui per la strada si gridava "a morte" e "l'utero è mio e lo gestisco io" e "Padroni porci, domani prosciutti"; era l'epoca in cui anche la Destra che, pur con i suoi limiti, si era ispirata, prima, al trinomio Dio - Patria e Famiglia, verrà aggredita dalla sifilide della "Nuova Destra Francese" animalista, abortista, filonazista, ambientalista (prima ancora che venisse fuori quella sublime enciclica di Bergoglio su "La raccolta differenziata della spazzatura"); erano i tempi delle pulci, delle zecche e dei pidocchi, ritornati alla ribalta, insieme ai capelluti arruffapopoli della contestazione pilifera contro l'acqua e il sapone;ma erano anche i tempi che precorsero e ispirarono gli "Anni di Piombo" e delle "Liste di Proscrizione", gli agguati, le sprangate, i colpi della P38 e chi militava nella Destra, o comunque nelle file della Tradizione - ricordo la battaglia del 1974 contro il divorzio e le prime conferenze a Firenze, con padre Centi contro don Milani e la marmaglia cattocomunista, contro il Comunismo,nel 1976, al Centro "Branzi", con il Prof. Roberto de Mattei - additato come un "provocatore fascista" o addirittura un "terrorista"...e poi la difesa del Commissario Calabresi e i manifesti appesi sui muri del mio paese con la foto del Commissario Calabresi e sotto la scritta "Dopo Calabresi, Puccio fascista sei il primo della lista"...e non era tanta la paura per se stessi (ma c'era anche quella) quanto la tristezza di aver lasciato sole, a casa, nell'angoscia, le persone che ti volevano bene e che avevano smesso perfino di comprare il giornale perché avevano paura di trovarci il tuo nome....non eravamo, grazie a Dio, tutti come quel mio ex amico fiorentino E.N.(che per paura giunse anche a boicottare un suo libro, fatto con altri, in cui c'erano cinque righe di critica al risorgimento italiano) che si nascondeva da mane a sera e che quando andò a parlare all'Università, per il FUAN, fu ritrovato nascosto nel cesso...
Insomma a Civitella in quei giorni si respirava (e si respira tuttavia) un'altra aria...lontani dalla contestazione, ai piedi del Gran Sasso, in qull'atmosfera, in quel silenzio, facevi i conti - dopo la confessione - con te stesso; e poi la Via Crucis della sera, per le vie del paese, commuovente e suggestiva, guidata dal nostro cappellano don Giorgio Maffei che, a fine, ci benediva, sulla scalinata davanti alla chiesa; le conferenze - ormai a Civietlla si riunisce il Gotha della Tradizione - avvincenti per tutto il giorno del sabato...e i ragazzi che hanno studiato il prof. de Leonardis e, dall'espressione del suo volto, capiscono quanto valga l'oratore che sta parlando...poi l'alzabandiera, dopo la S. Messa per i nostri defunti e per i Martiri della Tradizione, per quegli eroi che si batterono contro quella :
"Unita' d'Italia (che si inquadrava per sempre in un'ottica nazionalista che rappresentava la negazione dell'antico e sacro concetto di Cristianità e preparava i grandi conflitti del XX Secolo . Inoltre con il pretesto di una liberazione astratta e menzognera da presunte tirannidi straniere, il progetto restava in ogni caso quello di spogliare i villaggi e le città delle loro millenarie libertà e autonomie accentrando tutti i poteri, in nome di una pretesa razionalizzazione, nelle mani di una burocrazia manovrata dall'alto"
(Cfr. Carlo Alberto Agnoli in "Atti del XXI Convegno della "Fedelissima" Civitella del Tronto "Dalla Malaunità alla Rovina attuale" 8 - 9 - 10 marzo 1991)
E dagli spalti di Civitella dai quali, quando c'è sereno, vedi il mare, in quella atmosfera di intenso cameratismo, in mezzo a quelle guarnigioni sbrecciate, tu rivedi i soldati che "spes contra spem" resistettero, pur senza umana speranza, alle forze preponderanti della Rivoluzione italiana.
Pucci Cipriani
mercoledì 25 gennaio 2017
TERREMOTI DI IERI E DI OGGI (di Piero Nicola)
Notizie da il Secolo d'Italia del 25 agosto 2016 (giorno successivo al terremoto
con epicentro ad Amatrice).
Il
giornale lancia una sfida al presidente del consiglio Renzi, il quale "polemizza con la ricostruzione dell’Aquila
anziché concentrarsi esclusivamente sul sisma che ha colpito la zona di
Amatrice. Vedremo cosa saprà fare lui. Ed è bene, in questo momento, ricordare
altri terremoti".
Dopodiché si riportano i dati del terremoto che colpì il Vulture il 23
luglio 1930. Fu di magnitudo 6,7 (10 della scala Mercalli), dunque superiore a
quello di Amatrice, e fece 1404 vittime, mentre quello del 24 agosto 2016 ne
fece 300. Ma il sisma del Vulture interessò 50 comuni di 7 provincie di
Basilicata, Campania e Puglia, con distruzioni molto più estese, e fece
relativamente pochi morti perché avvenne durante la mietitura e trebbiatura del
grano.
I
lavori di ricostruzione cominciarono subito (RDL del 3 agosto 1930) erigendo
casette in muratura e cemento armato antisismiche, che ressero al terremoto
dell'Irpinia avvenuto 50 anni dopo (1980). Contemporaneamente si ripararono gli
edifici che potevano essere ricuperati. Le casette costruite furono 3.746, le
case restaurate 5.190.
La voce
di Wikipedia sul terremoto del Vulture conferma i dati suddetti, e dice che il
28 ottobre 1930 (tre mesi dopo il disastro) furono consegnate 961 nuove
abitazioni antisismiche.
I
commenti: ai lettori.
Piero Nicola
martedì 24 gennaio 2017
Ombre garibaldine: Il giallo della morte di Anita Garibaldi
Studioso instancabile, scrittore di polso e
demistificatore puntuale e implacabile, lo storico napoletano Luciano Salera è
autore di un avvincente ed esauriente saggio revisionistico, La fuga di
Garibaldi e il giallo della morte di Anita, edito in Chieti
dall'anticonformista Marco Solfanelli.
Il robusto saggio in questione fa scendere
l'impertinente e impietosa luce della verità su uno dei più strombazzati e
incensati episodi della rivoluzione massonica, la morte di Anita Garibaldi,
avvenuta nell'agosto del 1849, durante l'ultima fase della fuga precipitosa,
attuata degli eversori, dall'effimera, scellerata e iniziatica
repubblica romana.
Un monumento, in mostra squillante sul
Gianicolo, rappresenta Anita nella veste inverosimile di una cavallerizza
furente e implacabile, che ha sguainato l'eroica sciabola, scagliandosi contro
i nemici clericali.
In realtà la statuaria leggenda di Anita
sciabolatrice a cavallo rovescia la verità, che contempla una donna stremata
dalla febbre e dall'irragionevole sequela dell'avventuriero nizzardo, lo
strombazzato Giuseppe Garibaldi.
Al proposito Salera rammenta che gli storici
di scuola risorgimentista, squillanti e veneranti autori della leggenda intorno
alla monumentata cavallerizza, hanno nascosto e censurato le deprimenti
notizie sull'inferma salute di Anita: “nessun accenno alle condizioni
estreme di questa povera donna, che viene trascinata, morente, in stato di
drammatico disagio e massima precarietà, in una fuga che lasciava pochissimo
spazio alla speranza di riuscita; anzi ne lasciava talmente poca, stante la
necessità di dover trasportare quel corpo in fin di vita, da rendere ancora più
complesse le operazioni di fuga”.
L'ufficiale, lacrimosa narrazione della morte di
Anita, stremata dalle fatiche della fuga patriottica da Roma, fa parte delle
pagine apologetiche intorno al c. d. risorgimento ed è usata per censurare e
nascondere la verità, messa in luce dall'ispettore Giuseppe Radicchi, autore di
una relazione sul ritrovamento del cadavere dell'infelice sposa di Garibaldi.
Al proposito Salera scrive: “premesse le
note circostante in cui il cadavere di Anita è stato rinvenuto, il Radicchi
assicurava che questo appariva come quello di una donna strozzata … con la
lingua fuori, con gli occhi tumefatti e stravolti e con i lividi in
corrispondenza della trachea”.
Salera cita una testimonianza inconfutabile
sulla fine violenta di Anita, omicidio definito terribile misfatto, compiuto
dai garibaldini nell'agosto del 1849. Per far sloggiare (scappare) Garibaldi
dalla casa in cui si era nascosto, “si era tenuto un congresso in casa
Moreschi e alla sera era seguito lo strangolamento dell'infelice donna e la sua
sepoltura alle cosiddette motte”. La morte di Anita fu un caso di
eutanasia, delicatamente taciuto dalla storiografia di stampo massonico
e pseudo patriottico.
Gli storici propriamente detti, quelli che non
ignorano e sopra tutto non nascondono la spietatezza e il cinismo dell'eversore
nizzardo, sono fermamente convinti dell'esistenza di un'ombra scellerata
sull'avventura del Garibaldi.
L'opera di Luciano Salera, storico erudito ed
onesto e fervido patriota rinnova e accresce le ragioni della fondata
diffidenza negli ideali dei garibaldesi, falsi italiani, attivi
sul fronte massonico costituito dalla rabbiosa, laida avversione alla
Cristianità e all'ordine civile.
La memoria storica degli italiani dovrà,
pertanto, superare e liquidare l'umiliante e intossicante dipendenza dalle
pagine della storia, che sono infettate dalla lue massonica e dal furore
anticristiano.
Piero Vassallo
RITORNO IN A. O. (di Piero Nicola)
La guerra è il dramma che è. Al fronte e
nelle retrovie avvengono le uccisioni, alcune assai penose. Le prove da
sopportare sono spesso gravi, a volte estreme a causa d'un nemico criminale. I
civili soffrono e talvolta muoiono a causa del conflitto. La guerra può essere necessaria
e giustificata oppure no. Il soldato degno del suo servizio non la giudica, non
giudica la Patria, che essa abbia dichiarato guerra oppure no, che abbia fatto
bene o meno. Egli potrà dire la sua, a torto o a ragione, tornando civile,
sperando che sia capace di sagge valutazioni e che sia in buona fede.
Così ci sono due specie di militari. Quelli
che vivono male la guerra e in fondo non sono soldati, perché la ritengono
intollerabile, e quelli che l'accettano e possono trarne profitto morale e
spirituale. Ai numerosi casi di personaggi stimati nel mondo ma ingiusti, come
un Heminway (che si permise di giustificare la diserzione), un Remarque, un
Barbusse, fa felice risconto una schiera di combattenti e di eroi indiscutibili,
che testimoniarono il valore e l'accettazione del sacrificio proprio e altrui
(D'annunzio, Giosuè Borsi, Arturo Marpicati, Filippo Corridoni, Paolo
Caccia Dominioni e tanti altri, tra i quali Nino Badano).
Di quest'ultimo, di cui ho parlato in questa
rubrica a proposito della sua attiva fedeltà al Deposito della Fede e contro il
Concilio Vaticano II, sono riuscito a leggere le sue memorie Ritorno in A.O. pubblicate nel 1938, in una edizione del
1994. Si tratta di un ritorno nella memoria, che ripercorre le tappe dell'esperienza
di tenente nella Campagna di Abissinia del 1935-36.
Qualcuno avrà da criticarmi per aver
impostato un articolo con delle conclusioni apodittiche, che avrebbero dovuto
figurare alla fine. Ma ho voluto premettere tali affermazioni, purtroppo
oggetto di contestazione o di dubbi, in quanto superiori ad una individuale,
per quanto eccellente, loro conferma.
Il giornalista Nino Badano era stato
incarcerato e inviato al confino per aver mosso una severa critica al Duce.
Giova riportare un suo breve curriculum da lui stesso redatto: "Avevo 23
anni quando ho cominciato. Dirigevo il settimanale della Gioventù Cattolica
delle diciassette diocesi piemontesi. La prova direttoriale non è durata molto
perché una mia telefonata da casa ad un amico, telefonata nella quale
commentavo troppo vivacemente un'esortazione di Mussolini a 'odiare', mi ha
portato prima in carcere; poi, dopo una traversata in manette dell'Italia tra
due carabinieri, al confino in Calabria. Ero da poco tornato a casa dal confino
quando sono stato richiamato, con tutta la mia classe, come ufficiale per la
guerra di Etiopia. Al ritorno, radiato dall'albo dei giornalisti, non potevo
scrivere che nelle terze pagine di qualche giornale coraggioso, come l'Avvenire d'Italia di Manzini, e sulle
riviste letterarie più tolleranti, a cominciare dal glorioso Frontespizio, dove ho incontrato amici
indimenticabili. come Bargellini, Lisi, Betocchi, Giordani, Fallacara, Bugiani,
La Pira, Occhini, dell'Era, Soffici e altri, a Vita e Pensiero, a Maestrale
di Adriano Grande, a Incontro di
Vallecchi, a Meridiano di Roma, a Gioventù italica, a Pro-Familia, ecc. Poi è venuta l'altra guerra, che ho cominciato da
richiamato sul fronte greco e ho finito nelle baracche di prigionia dei lager
tedeschi. Il giornalismo vero e proprio ho potuto riprenderlo soltanto dopo:
prima a Torino al Popolo Nuovo, poi a
Roma al Quotidiano, che ho diretto
per 14 anni, al Giornale d'Italia che
ho diretto per tre e poi sul Tempo
dove sono stato per oltre venti anni fondista".
In una sua prefazione a Ritorno in A.O., Giano Accame osserva che "il ventisettenne Badano
(1911-1990)" era stato "fondatore e direttore di un fortunato
settimanale cattolico per bambini, Il
Vittorioso, e nel 1935 aveva pubblicato già un libro su Giosué Borsi nella collana dell'A.V.E.
dedicata a figure di cattolici segnalatisi per meriti patriottici: scritto in
Eritrea sotto la tenda, uscì mentre lui entrava ad Adua con il suo reparto di
esploratori". "Scopo della collana era rivendicare i titoli nazionali
dei cattolici in un periodo di rapporti difficili tra la Giac e il regine.
Titoli a cui Badano [...] contribuì di persona guadagnandosi in Africa
Orientale una proposta di medaglia di bronzo al valor militare".
Il diario di soste, esplorazioni, battaglie,
attraverso traversie d'ogni sorta e pause quasi idilliache dall'Eritrea al
cuore dell'Etiopia, ha un'intonazione nostalgica da capo a fondo, c'è un
rimpianto d'una vita felice, mai venata
di amarezze e recriminazioni. Per giunta egli usa sovente il "noi",
accennando all'armonia che regnava nel reparto, specie tra gli ufficiali; né degli
altri corpi dell'esercito risultano colpe e deficienze, anzi troviamo diversi
apprezzamenti. Soltanto verso i traffici mercantili incontrati durante le
operazioni belliche si nota un certo distacco del narratore.
"Giornate di marcia faticosa, di
avanguardia rischiosa, di combattimento, non sembrano più nostre tanto sono
lontane, e paiono impossibili tanto sono belle!" (pag.25-26). "Prima
notte solenne della nostra avventura; ancora non sapevamo quanto fosse bella:
bisognava vederla finita, passata, come oggi. Allora non avevamo che gioia e
impazienza di vedere, di consumare il tempo" (pag. 32). "Banchetto di
Pasqua! Primo giorno d'Africa e di marcia, indimenticabile giorno della nostra
giocondità!" (pag. 40). I commilitoni: "Sono una folla: una grande folla,
di anonimi, di cari compagni, senza difetti, senza scortesie. Ce me sono in
tutti i paesi visti, in tutti gli ambienti toccati, in tutte le circostanze
vissute" (pag. 42). "Ma ciò che si è dimenticato non importa; è bello
anche così. Bello anzi aver smarrito qualcosa: anche tanto, anche il più. È ciò
che è rimasto soltanto nostro, e sempre per noi!" (pag. 44). "Bastava
un cenno per intendersi, un'occhiata per spiegarsi, perché la nostra vita era
una sola, comune, ed era bella proprio per quella unità" (pag. 55). "Dopo
averla spiata per mesi dalle alture della vecchia Eritrea, dietro il baluardo
pauroso di queste montagne valicate; dopo averla nominata per mezz'anno con il
desiderio nel cuore e con un'ansia lieve nella voce, ecco ora in tre giorni
l'avevamo raggiunta; potevamo uscire dalla tenda a contemplarla. Adua era
nostra e l'avevamo presa noi" (pag, 81). "Non pareva vero di tornare
al fronte. E s'arrivava col volto mascherato di polvere, e cogli abiti coperti
di terra: non si riconosceva né grado, né reggimento. Presentarsi al colonnello
così, per dirgli 'tutto bene' era una soddisfazione; poi a vederlo contento e
compassionevole, si filava via allegri" (pag. 89). "Che cosa importa
aver lo zaino pesante, se la terra che si marcia è tutta conquistata, se le
valli che si percorrono mai nessuno le ha finora vedute, e le bellezze che i
nostri occhi godono, sono vergini e incontaminate dal giorno che il pensiero di
Dio le ha formate?" (pag. 129). "Verso sera quelli del genio
captavano il giornale radio e le lo portavano su a mensa; alla nostra mensa di
pietre, sotto l'acacia grande delle mitraglie nemiche [...] Dall'altra parte
andavano avanti, avanti e nessuno li poteva fermare: noi sempre fermi; si era
metà contenti e metà invidiosi: ma non c'era nulla da fare" (pag. 141). Il
ritorno a guerra finita: "Ripassavamo in un giorno le tappe fatte in
lunghe settimane di marcia. Era la nostra prima delusione, sentire meno vasta
quella terra conquistata" (pag. 151). "Si tornava ad essere soldati
con le giberne vuote, con la canna del fucile da tener lucida, con le scarpe da
tener pulite, con il posto da mantenere in ordine. Eravamo di nuovo soldati del
tempo di pace. Ecco ciò che avevamo perduto in quel furioso ritorno, tutto d'un
colpo, precipitosamente: la nostra bella vita di guerra" (pag. 153).
Piero
Nicola
domenica 22 gennaio 2017
A CHI GIOVA IL COMUNISMO? (di Emilio Biagini)
La rivista di propaganda “alleata” del tempo di guerra Il Mese
(n. 21, settembre 1945, pp. 310-319) riportava, condensato da The Saturday Evening Post di Filadelfia,
un importante articolo dell’economista
americano P.F. Drucker, dal titolo “Stipendi e paghe nell’URSS”, che contiene informazioni interessanti e
attendibili, dato che l’indirizzo
della rivista era ovviamente quello di elevare peana ai paesi vincitori, oltre
che di insultare quelli sconfitti e imbottirli di menzogne.
Nel “paradiso dei lavoratori” il divario di paghe e stipendi fra dirigenti e
operai era molto più forte che
negli USA, e addirittura ancora più forte di quanto non fosse nella Russia zarista. Negli anni
antecedenti alla seconda guerra mondiale un operaio sovietico “lavorante a catena” [di
montaggio, si spera] era pagato 125 rubli al mese (circa 50 dollari), ossia
1500 rubli all’anno, ma i
dirigenti sovietici dell’azienda
(direttore, ingegnere capo, amministratore generale, direttore di produzione)
ricevevano fra i 24.000 e i 36.000 rubli annui se la produzione dell’officina era buona.
[Ossia se aveva raggiunto o superato le quote stabilite dal piano; se
poi la merce prodotta serviva davvero, quella era un’altra questione. Una barzelletta corrente era
che un’azienda era
stata premiata per aver superato di gran lunga le quote di produzione ma, andando
a vedere cosa produceva, veniva fuori che fabbricava cartelli con la scritta “Non funziona”.]
Nello stesso periodo di tempo
un operaio americano non qualificato riceveva in media 1200 dollari l’anno e il suo direttore d’officina o ingegnere capo era pagato fra i
10.000 e i 15.000 dollari. Ciò significa
che i tecnici dirigenti nelle industrie guadagnavano nell’URSS da quindici a venti volte quanto era pagato
a un lavoratore non qualificato e negli Stati Uniti da otto a dieci volte
tanto. La differenza di salario tra un dirigente tecnico e un operaio era il
doppio nell’URSS rispetto agli USA. In tale paese le imposte sul reddito gravavano
assai sul bilancio di un dirigente industriale: su un introito di 15.000
dollari l’imposta
poteva essere del 30%.
Nell’URSS i dirigenti di officine o erano esenti da
tasse o ne erano colpiti assai leggermente: l’aliquota più alta era del 10% e la maggior parte dei direttori e degli ingegneri
industriali non la pagava; infatti era raro che un cittadino sovietico potesse
occupare un incarico direttivo se non aveva meritato almeno una delle molte
decorazioni e onorificenze esistenti, ognuna delle quali comportava esenzione
parziale o totale dalle tasse.
Si aggiunga che, più ancora dello stipendio, contava il fatto che i
proventi di un dirigente industriale sovietico consisteva in premi in denaro e
ricompense in beni e servizi, spesso di tale valore che nessuna somma in denaro
avrebbe potuto procurarli in un paese di così scarse disponibilità; poteva ad
esempio ricevere una casa appositamente costruita, e i sui figli godevano di un
monopolio pressoché totale
dell’accesso all’istruzione superiore.
Privilegi analoghi e talora
ancora maggiori potevano toccare ai dirigenti statali, ai più eminenti professionisti e agli artisti. Già nel 1938 oltre metà degli studenti universitari era composta da
figli di dirigenti industriali o statali e meno del 10% proveniva da aziende
agricole, benché gli
agricoltori costituissero ancora oltre il 50% della popolazione sovietica. Nel
1940 erano state introdotte tasse scolastiche per le università, allo scopo dichiarato di sbarrare la strada ai
ceti operai perché i loro
figli non accedano a professioni da “colletti bianchi”.
Dopo l’attacco tedesco all’URSS il divario si accrebbe ulteriormente: un
dirigente industriale che nel 1938 guadagnava 1.500 rubli al mese, nel 1945 ne
guadagnava 10.000 o più, e
riceveva premi in denaro ancora più sostanziosi, i “Premi
Stalin” di 50.000,
100.000, 150.000 rubli. Al contrario, i divari salariali negli USA si erano
ridotti per i forti aumenti agli operai. Sebbene il denaro in URSS contasse
poco, essendovi poco o nulla da comprare, questi confronti sono altamente
significativi.
Essi infatti svelano la vera
natura dell’ideologia
comunista. Ecco perché la cosiddetta
“rivoluzione di ottobre” non fu affatto un movimento operaio, ma un
colpo di stato militare; ecco perché, durante la guerra civile, come testimonia anche Boris Pasternak ne Il dottor Zivago, gli operai
parteggiarono per i bianchi o addirittura si arruolarono negli eserciti
bianchi, mentre i proprietari di aziende sostennero i rossi: per loro si
prospettava infatti la possibilità di scambiare il rischio imprenditoriale con la più tranquilla posizione di funzionari statali
aventi l’unica
preoccupazione di consegnare le quantità di prodotto richieste dai piani.
I privilegi
della Nomenklatura, così
efficacemente descritti da M.S. Voslensky
(1984, Nomenklatura: la classe dominante
in Unione Sovietica, Milano, Longanesi, 2ª ed., trad. d. tedesco) nei paesi afflitti dal comunismo iniziano
dunque fin dai primordi del dominio degli sciagurati rivoluzionari di
professione. Questo dunque è sempre
stato il comunismo: un comodo sistema di occupazione di posti privilegiati e di
sfruttamento ai danni dei più deboli da
parte di una scaltra e spietata banda di parassiti di regime.
A questo
precisamente aspiravano anche i rivoluzionari nostrani, gli striscianti
blateratori dei salotti buoni e delle televisioni okkupate e avvelenate, i kani
da guardia delle kase editrici blindate, i mirakolati improvvisamente
konvertiti dal fascismo al verbo komunista, i kapò della kontestazione sessantottarda, tutti
quelli che hanno intossikato l’Italia e
continuano a intossikarla. È sempre la
stessa identica storia, perché il diavolo
è monotono.
EMILIO BIAGINI
Lo stato contro natura: Sodomia democratica e progressiva
Due persone dello stesso sesso
costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale
di stato civile.
Monica Cirinnà
Esaltato e incensato dal pensiero esclusivo,
in circolazione instancabile nel raffinato, profumato e sontuoso salotto radical
chic, il vizio contro natura irrompe nella società gongolando e squillando
in forza della legge che ha il nome, venerato dagli urologi, di Monica Cirinnà.
La legale promozione dei vizi del basso
ventre ha recente, virtuosa e gloriosa origine dalla resistenza all'etica
tradizionale e dal rifiuto della normalità, giudicata quale bieca
espressione di un oscuro passato medievale, ultimamente compromesso con la
sotterranea, vergognosa criminalità clerico - fascista.
Rovesciata (dalla defezione degli impauriti
benpensanti) nella minoranza impavida, ostinatamente refrattaria all'estrema pratica
democratica e progressiva, il silenziato e ghettizzata popolo della
resistenza alla sodomia, non può far altro che indossare mutande di robusta,
sospetta e quasi reazionaria latta. E tentare di sottrarre i bambini a una
scuola inquinata dal viscido delirio dei sodomiti politicanti.
Uscito dal ghetto il capovolto piacere, è
incensato e onorato da una democrazia delirante e truffaldina. La legislazione
viziosa ha lontano principio dalla rassegnazione di un personaggio del teatro aristofaneo,
il quale, atterrito dall'estensione minacciosa della folla pederastica gridò -
“tenete il mio mantello, gente di culo rotto, che io fra voi diserto”.
Il disperato delirio di un antico
commediografo greco diventa la parola d'ordine del
partito regressista, in corsa festosa tra le righe crepuscolari di una
democrazia vaselinosa, che il compianto, preveggente professore Gianni Collu
definiva aperta in tutte le direzioni del vizio.
L'Europa neopagana è percossa da crisi e
tormentata da sciagure variamente colorate. Naturalmente nessuno osa parlare di
castighi di Dio. La modernità ha censurato la religione. La democrazia è una
macchina che premia le minoranze festanti nel salotto dei pervertiti.
D'altra parte la lingua del santo clero è
impastata dal perdonismo e dal buonismo. In altre parole: la teologia è sotto
lo schiaffo dei nichilisti filosofanti. Le lettere di Santa Caterina al papa
sono aggiornate dagli applauditi appelli di Emma Bonino all'ecumenico papa
argentino.
La memoria degli insulti piovuti sul cardinale
Giuseppe Siri, che aveva osato affermarne l'esistenza dei castighi di Dio,
d'altra parte, impone al santo clero un cauto e pavido silenzio. Di conseguenza
la funzione di prevenire le sciagure è sottratta alla preghiera dei fedeli e
affidata alle esercitazioni della protezione civile.
Se non che si diffonde l'ostinato, invincibile
sospetto che la sciagure che affliggono la gongolante allegria nazionale (ed
europea) siano conseguenze del disordine promosso da poteri scesi in guerra
contro il pudore del pensiero e contro l'onestà della vita.
Piero Vassallo
venerdì 20 gennaio 2017
Il pianeta sull’orlo di una crisi di nervi (recensione di Francesco Maj)
La recente fatica letteraria della coppia Emilio e
Maria Antonietta Biagini (Gaia. Il pianeta
sull’orlo di una crisi di nervi, Tabula fati, Chieti, 2016) si aggiunge alle numerose pubblicazioni già
prodotte controcorrente e che hanno come bersaglio evidentissimo tanti idoli
del nostro tempo e i loro devotissimi adoratori.
Come non ricordare, per limitarci alle
pubblicazioni più recenti, le gustosissime “Satire Clericali” con tante ombre
vagamente ecclesiastiche che recitano “pezzi di giornali”, ripetono slogan
molto buonisti… dove manca qualsiasi rispetto della verità e non v’è cenno
della propria identità? Degni di molta attenzione restano anche libri come
“Saccenti ed altri serpenti”, “La pioggia di fuoco”, “Labirinto oscuro”, ecc.,
che da vari anni fanno la loro periodica
comparsa, incuranti della reticenza e del silenzio di chi dovrebbe difendere i
valori fondamentali e invece… lascia correre o, peggio, rema contro.
Sono testi in cui l’autore entra a spada tratta
con grande libertà di denuncia, e senza sottintesi fa emergere vigliaccherie e
chiari tradimenti…
Bisognerebbe
proprio che venissero messi in scena!
Divertirebbero anche un largo pubblico di
indifferenti, irriterebbero alcuni saccenti e forse farebbero riflettere… anche
tante mosche cocchiere”!
L’ultimo prodotto di cui
sono a conoscenza della dinamica coppia è GAIA… Il titolo promette un po’ tutto
quello che la madre-terra può dire e soprattutto quanto ne dicono gli
inquilini… chiamati sul palco ad accusare, a difendersi dai tentativi e dalle
molte chiacchiere dell’“homo sapiens”. Si tratta di creature inanimate come il
Vulcano, il Cielo stellato, gli Asteroidi, il Mare, le Nuvole che commentano le
varie idiozie con cui l’uomo li accosta e li utilizza e talvolta li idolatra.
Soprattutto però il
dialogo a più voci si fa contemporaneamente divertente, ironico e amaro quando
parlano le ranocchie, i topi, i panda, gli aironi, le poiane, gli squali, le
iene, gli avvoltoi, pinguini e zanzare…
Davanti al lettore si
snodano quadretti più o meno lunghi, talora brevissimi, sovente accompagnati da
un Io-vociante.
Troveranno un regista coraggioso che li presenta in
qualche scena televisiva?
Se però si dovesse
scegliere un “pezzo” da rappresentare veramente con tanto di apparato non si
potrebbe assolutamente escludere le pagine dove sono di scena la Scimmie dai
pittoreschi nome come Orango, Gibbone, De Gorillis… con vari altri animali
chiamati in causa: il Picchio, la Bertuccia… Ci si trova nell’aula di un vero
tribunale con tanto di apparato giudiziario dove le scene si succedono
solennemente secondo le procedure canoniche… I vari personaggi si avvicendano
con accuse e precisazioni, e le “dimostrazioni” dell’area evoluzionista vengono
in definitiva vagliate e sottoposte a un duro esame da parte degli animali
chiamati in causa…
“Indiscussi” venerati
personaggi come Darwin e il suo mastino Huxley… sono sottoposti a domande
imbarazzanti e all’implacabile logica del pubblico ministero Orango. Ne emerge
una conclusione ben martellata dall’autore: ci possono essere state modifiche lentamente verificatesi, adattamenti dentro la stessa specie… ma
la derivazione di una specie
dall’altra resta indimostrata…
Soprattutto il “mistero
umano” con la conoscenza del bene del male, con le doti artistiche che lo
caratterizzano… non si lascia minimamente dedurre da una organizzazione sia
pure complessa di molecole. Nel dibattito fa capolino anche una parola famosa:
il caso… Nonostante i mirabolanti
tentativi escogitati per farne il protagonista adatto a spiegare certe
trasformazioni e il funzionamento dei vari organi… resta un puro vocabolo di
origine molto chiara: non sapendo come un fatto sia avvenuto o avvenga, ci si abbandona
a uno sbalorditivo atto di fede mascherato da una parola!
Interessanti spunti di
ricerca storica sono offerti dagli accenni:
-
alle relazioni fra Darwin e Huxley e i progetti del Club
X (a cui lo scienziato non partecipava, anche perché non invitato!),
-
al passaggio dal Darwin credente al suo finale
agnosticismo,
-
alla utilizzazione che vari atei hanno tentato di fare
delle idee di Darwin, ecc.
Che dire in definitiva
sulla questione dibattuta?
I vari colpi d scena che
si succedono negli interventi portano lo spettatore non del tutto digiuno ad
alcune conclusioni più volte e in molte forme proposte:
-
lo scienziato si muove sul piano del dove, del quando, del quanto e del come e le sue conclusioni… non sono mai definitive. Quante
“scoperte” che parevano definitive sono state smentite!
-
lo scienziato nulla può dire sul perché di quanto avviene,
-
lo scienziato non decide del bene e del male…
La tecnologia offre
all’uomo mezzi, ma non gli insegna come usarli…
Sempre sulla questione
calorosamente dibattuta nel tribunale… non sembra inutile precisare (e l’autore
certamente lo sa!) che molti credenti pur seguendo Darwin lo correggono su un
punto decisivo: parlano di Dio che guida
l’evoluzione…
Se si assiste, pensano,
alla disposizione di varie lettere dell’alfabeto in parole, che a loro volta
compongono una proposizione e questa si inserisce in un discorso, è troppo
evidente che è all’opera un Autore! A questa conclusione si è avvicinato lo
stesso Darwin…
Io
confesso che mi pare il più alto assurdo possibile supporre che l’occhio sia
stato formato, per mezzo di selezione
naturale, con tutte le sue inimitabili disposizioni ad aggiustare il suo
fuoco alle varie distanze, ad ammettere diverse quantità di luce e a correggere
l’aberrazione sferica e cromatica.
(Prima
edizione italiana de L’origine delle
specie, 1864)
E la sua perplessità è
del tutto ragionevole… Mentre sconcertante è quanto scrive in un secondo tempo…
L’occhio
mi fa venire ancora oggi un brivido freddo ma… la ragione mi dice che dovrei
superare questo brivido.
(in una
lettera di qualche anno dopo…)
A quale tipo di
“ragione” si appellava questo secondo Darwin?
Concludendo…
Non si sfugge al
desiderio di augurare alla coppia che ci ha offerto GAIA di procedere perché il
dibattito resta sempre aperto e il tentativo di ridurre tutto il reale a una
organizzazione di particelle dai nomi sempre più strani… certamente continuerà
finché dura l’uomo. E occorre chi smaschera camuffamenti e conclusioni
ingiustificate anche se presentate in paludamenti scientifici e con cipiglio
accademico e… ironizzando e calpestando la famosissima “ragione”!
FRANCESCO MAJ
Istituto Salesiano “Valsalice”, Torino
martedì 17 gennaio 2017
La scienza laica in viaggio nel sottosuolo esoterico (di Giovanni Badiali)
La dottrina democratica, eiettata
della squillante fanfara esoterica, orchestrata e ultimamente abbagliata (flesciata)
e stordita dalle contraddizioni, in furente corsa nelle grotte in cui è caduta
la modernità - antri scavati dal vaneggiamento iniziatico per indirizzare alla
dissoluzione il cammino di un vasto popolo costituito da sapienti illuminati
(allucinati), politici decerebrati, plebi plagiate e rassegnate e iniziati ai
gridati misteri del
sottosuolo & del vespasiano - sta ottenendo l'ambito
risultato: sostituire la giustizia cristiana con il truffaldino gioco delle
carte stampate dalla banca babilonese.
Come il vomito fa girare i tormentosi dubbi
dell'affamato cane, i tamburi della destra democratica attirano i candidati al
godimento della soggiacente - nascosta e venerata – truffa delle tre carte
moderne: liberté, égalité, fraternité.
Iniziata dai saccheggi e dai massacri
giacobini, l'eredità della commedia rivoluzionaria di stampo demo-babilonese
riposa. infine (Marcello Guidasci dixit), nelle capienti, auree tasche dello
speculatore & finanziere ungherese Georges Soros.
Di qui l'avviamento di una macchina
devastante, un tritacarne sodomitico concepito per indurre i popoli a
rassegnarsi alle povertà nascoste sotto le vaste e sontuose ali dei poteri di
servizio, e per avviarli all'immoralità, allo sfascio delle famiglie, agli
estenuanti giochi d'azzardo, alle deliziose macchinette progettate,
propagandate e promosse dalla beffarda società degli usurai d'alto profilo e
dai loro filosofanti buffoni.
La povertà dei popoli cristiani è il preambolo
a un piano magico inteso alla semina di una fatale, velenosa discordia
tra gli accecati europei e gli immigrati islamici, avanzanti sotto la
protezione della dottrina globalista, elaborata al sapiente tavolino
degli usurai e avallata dallo sconcerto vaticanista.
Contemporaneamente, la sistematica
diffamazione e la pilotata insorgenza di ebbri teologi e di utili preti
ha aggredito, debilitato e stordito la fede del basso clero e dei fedeli,
aprendo ampi varchi al falso ecumenismo e al sincretismo e avviando, infine,
surreali e grottesche manfrine.
Di qui l'obbligo incombente sui testimoni
della cultura italiana: riscoprire e promuovere risolutamente la resistenza
cattolica alla torbida ideologia culocratica, in arrivo dall'America.
Capire, infine, che il fallimento della destra
berlusconiana dipende dalla inadeguatezza e dalla fragilità del pensiero
liberale e dall'assurdità della simpatia per l'America, reperti fossili di un
mondo che si è naturalmente rovesciato nel porcile sinistrorso, nel quale
stanno sguazzando i miseri resti della rivoluzione liberal-illuminista.
Edito dall'infaticabile Marco Solfanelli,
editore in Chieti, “Corti pensieri nella notte lunga”, raccoglie alcuni
articoli e saggi intesi a spezzare la soffocante corda, legame irrealistico che
permette il trasbordo della confusione illuministica sulla nave dei cattolici
frastornati e turbati dalle grida squillanti sul palcoscenico di un mondo
agonizzante.
Giovanni Badiali
domenica 15 gennaio 2017
PER ORA INCOLUMI, MA INVASI (di Piero Nicola)
Ci si sarà chiesti come mai in Francia, in
Belgio, in Germania sono avvenuti gravissimi attentati commessi da terroristi
islamici e, alcuni anni or sono, anche Inghilterra e Spagna hanno pianto per
questo i loro morti, mentre in Italia siamo andati esenti da simili stragi. Una
spiegazione deve pur esserci. Ma non ci si venga a raccontare, con la solita
propaganda governativa, che la nostra polizia è più in gamba e previene gli
attentatori.
Deve essere vero che da noi sono state
scoperte pericolose cellule dinamitarde, ed anche isolati aspiranti terroristi.
Ma è impossibile che nessuno abbia potuto portare a termine il crimine
prefissato. Anche i cosiddetti cani
sciolti devono sapere come regolarsi, ovvero perché bisogna che si
astengano dall'ucciderci. Tra parentesi, va notato che tali soggetti, sciolti o
legati, non vengono messi al sicuro in carcere e non vanno sotto processo.
Invece li riportiamo a casa loro. Ed è strano come ciò possa farsi
regolarmente, se per il rimpatrio (già decretato di rado) dei clandestini
sorgono problemi sia di individuazione della provenienza, sia per le difficoltà
opposte dai paesi d'origine, tanto è vero che il nostro governo ora deve
prendere accordi, per cominciare con la Libia, onde assicurare tale operazione
(ma dal dire al fare...). Ancora più strano il fatto che si rimpatrino i nostri
nemici più pericolosi, che avranno ampie possibilità di fare ritorno, p.e. con
i barconi e gommoni dei migranti, con la benedizione del finto papa Bergoglio.
Tornando alla spiegazione dell'attuale nostrana
immunità da bombe, mitragliamenti e camion lanciati sulla folla, la logica
vuole che ciò sia evitato perché il Bel Paese tiene aperte le porte agli extracomunitari,
i quali qui stanno accumulandosi a milioni. È chiaro che anche ai musulmani
presunti moderati e lavoratori conviene accrescere il loro numero, converrebbe loro
essere così tanti da aver diritto o modo di comandare in Italia. A maggior
ragione gli islamici più islamici non vorranno interrompere questa, per ora,
pacifica invasione. Se anche qui perpetrassero stragi, la gente autoctona,
sebbene impecorita, comincerebbe a prendersela con l'immigrazione e anche con
gli immigrati. Di già Renzino ed ora il gentile, anzi gentilone, capo del
governo, hanno parlato di organizzare centri di identificazione degli
irregolari e rimpatri sostanziosi. Quand'anche fosse un intento reale, sarebbe
assai difficile che si sia in grado di portarlo a termine. Tuttavia tali
progetti governativi per tener buona la massa, che comincia ad essere allergica
allo straniero dannoso, sono un ulteriore motivo per non agitare le acque
usando armi proprie e improprie contro gli italiani.
Piero
Nicola
sabato 14 gennaio 2017
Cinque milioni di immigrati alla tavola degli italiani poveri
Restituita l'Africa
agli africani, il delirio progressista contempla infine
la metamorfosi sincretista dell'Occidente, un devastante progetto, che contempla
la metamorfosi terzomondiale della civiltà cristiana”.
Don Miche Rosati
Afflitti
da una crisi economica, che produce mortificanti disoccupazioni giovanili e
diffonde sconforto e malessere nelle famiglie, gli italiani (specialmente i
giovani) subiscono anche la soffocante pressione esercitata da una congrega
buonista e masochista, agitata dalla ridicola convinzione che alla tavola
dell'esausto benessere ci siano posti e cibi abbondanti (succulenti e gratuiti)
per gli avventizi mangiatori terzomondiali.
Naturalmente
al buonismo gastronomico e alberghiero sono associati lauti guadagni per gli ecumenici
cuochi e albergatori e per i loro autorevoli e pii protettori, attivi nei
partiti consacrati allo scialo impropriamente detto misericordioso.
A
monte delle allegre ed ecumeniche mense, allestite dalla untuosa e scialante
bontà del governo costituito dalla distrazione irrealistica, il segnale più
allarmante è costituito dalla presenza di circa un milione di islamici,
avanguardie di una rivoluzione antropologica, che è progettata e finanziata
dalle nazioni petrolifere del Medio Oriente, entità seminatrici dell'impostura
maomettana e della generazione aggressiva.
Il
rovente sadismo e la conclamata idiozia degli iniziati (anglo americani ed
europei) ai demenziali e criminogeni misteri della massoneria e del vespasiano,
non vede e se vede pavidamente tollera l'aggressione dell'islam selvaggio
contro il mondo cattolico, che ha sempre rigettato sia il delirio maomettano che
la frusciante musica della moneta americana.
E' in corso imperterrito la radunata dei
cialtroni e degli allucinati, che si incontrano nelle sedi delle sette
iniziatiche, nei salotti d'alto indirizzo pederastico e lesbico, negli
ambulacri delle banche ladrone, nelle scuole del delirio filosofante, e nei
bassi vespasiani. Solo la Russia di Vladimir Putin pone freno alla tracotanza
islamica.
Mentre l'aristocrazia del vizio occidentale
gongola negli indisturbati salotti progressivi, gli islamici mettono in scena
la loro manfrina.
Avanguardie islamiche, in sonno tattico,
costituiscono, sotto la pioggia del delirio sedicente ecumenico, robuste
comunità (criminogene e potenzialmente eversive) nei grandi centri, ad esempio
a Roma (dove sono presenti 365 mila credenti nel falso profeta Maometto) e a
Milano (dove i residenti islamici sono 254 mila).
L'obbligo
di rifiutare le ottuse generalizzazioni, e il dovuto rispetto dei princìpi neo
ecumenici, continuamente gridarti da Giorgio Bergoglio, non sono sufficienti a
nascondere l'allarmante presenza di numerosi fanatici islamici, intesi a
sostituire la religione di N. S. Gesù Cristo con la delirante ferocia in corsa
tra le righe lugubri e laide del Corano.
Fleshato
dal galoppante buonismo. il volontariato cattolico nuota nelle acque torbide e
agitate, nelle quali gorgogliano le parole del disordine mentale e della
capitolazione.
Di
qui la delusione dei fedeli refrattari all'eresia circolante sotto la cappa
pseudo ecumenica della tolleranza ad ogni costo. Tolleranza che contempla
l'allestimento di tavole culinarie al servizio degli islamici, a costi che
aggravano il disagio degli italiani impoveriti dalla sanguisuga europea.
Secondo
ragionate previsioni entro mezzo secolo gli immigrati islamici diventeranno padroni
(ossia devastatori) della cultura italiana e avvieranno l'estromissione della
Chiesa cattolica e il declassamento dei credenti in Gesù Cristo.
Riconosciuta
la veridicità di tale desolante previsione si afferma la necessità di porre un
freno all'immigrazione islamica, anche se un tale atto contrasta duramente con
l'allegro buonismo circolante, senza freni e ripugnanze di fede e di ragione,
nella chiesa ecumenica di Bergoglio.
Si
tratta, in ultima analisi, di riconoscere la distanza enorme che corre tra la
carità (che incomincia dai benefici dovuti al prossimo ovvero ai propri
connazionali) e il buonismo pseudo ecumenico, in corsa incontrollata nella
direzione imperiosamente indicata dai poteri inziatici, che gestiscono il delirio
unico.
Piero Vassallo
venerdì 13 gennaio 2017
Il Bello secondo san Tommaso d’Aquino (di Paolo Pasqualucci)
Sommario: a. La nostra epoca ha smarrito la vera
nozione del bello. b. L’origine divina della bellezza. c. Il bello come “debita proporzione” e “consonantia”
delle parti nel tutto e dell’ente con Dio.
d. La bellezza come “clarificatio” ossia splendore, luminosità, luce
nella quale la “proportio” delle creature si perfeziona secondo il fine loro
proprio. e. La bellezza come
“integrità” e “perfezione”. f. Il bello
come “delectatio” individuale del bello in sé. g. Il
bello in senso trascendentale.
Un tema oggi inconsueto: la nozione del bello secondo san Tommaso
d’Aquino. L’arcigna Scolastica, apogeo
del Medio Evo nella speculazione, si è dunque occupata del senso del bello, ha elaborato
un’estetica? Certo che se n’è occupata
ed esiste ovviamente una letteratura specialistica al riguardo, debitamente
citata ed egregiamente discussa nel libro che andiamo a recensire. Dal punto di vista dell’uomo della strada può,
tuttavia, sembrar buffo andare a ritrovare l’idea del bello proprio nel
pensiero medievale, noto per il suo dogmatismo e la sua tendenza al misticismo,
e in fama di aridità per quanto riguarda la considerazione dei sentimenti e
delle passioni degli uomini. La rivalutazione
della bellezza nella nostra vita non è apparsa soprattutto con l’Umanesimo
e il Rinascimento, per l’appunto dopo le
eccessive chiusure medievali alla dimensione sensibile-sensuale della nostra
esistenza? Certamente, però con una impostazione antropocentrica
che ha finito con il separare il bello dal divino, innescando in tal modo un
processo involutivo, che sembra giunto (si spera) al suo ultimo stadio proprio
nelle aberrazioni della nostra epoca, affogata nella carnalità.
a. La nostra epoca ha smarrito la vera
nozione del bello
Credo
che poche epoche della storia abbiano, come la nostra, necessità di
riacquistare un’autentica nozione del bello. Il nostro tempo è purtroppo caratterizzato
dai cattivi costumi presentati come se fossero virtù, dalla volgarità, dal
pessimo gusto, da una bruttezza manifesta e ovunque diffusa. Basti pensare alle forme sbilenche, storte,
contorte che dominano nelle arti figurative e persino nell’architettura, ove ci
si compiace di costruire edifizi senza capo né coda, rannicchiati in volumi
enormi e sfuggenti da tutte le parti o storti, obliqui, pencolanti, come se
dovessero crollare da un momento all’altro o disperdersi in un’onda di
vetro-cemento. C’è il culto della forma
impura: anche certi famosi
grattacieli altissimi e sottili sembrano contorcersi; e quando no, appaiono
comunque fuor di proporzione nei loro segmenti, che rinviano all’immagine di
pezzi di materia, di schegge, di frammenti, non si sa perché rivolti in alto. L’architettura contemporanea, nelle sue ultime
forme, sembra inseguire l’idea del disordine, del caos, come se le costruzioni
dovessero rappresentare elementi in rivolta.
Ma la bellezza dei corpi umani, che mai come
oggi sarebbe vicina alla perfezione delle forme, della quale tanto si vanta il
Secolo ipernutrito e iperpalestrato, quella non conta? Il fatto è che tutta questa “perfezione”,
oltre ad apparire fredda, asettica, muscolare ed esibita in modi non conformi
al decoro e alla pudicizia, troppo spesso è frutto di artificio, di
sapienti e meno sapienti chirurgie estetiche.
Ciò si nota soprattutto in molte donne di oggi.
Per non dir nulla della bruttezza
addirittura allucinante nella quale è caduta l’architettura religiosa,
che, nella migliore delle ipotesi, appare seplicemente insignificante. Chiese cattoliche con facciate da
cinematografo o grandi magazzini, o inespressive; chiese circolari, come
grandi torte schiacciate e con campanili ridotti ad inespressivi simboli
filiformi. Un esempio forse inarrivabile
di questi orrori è la nuova chiesa costruita a Fatima, sul luogo delle celebri
apparizioni mariane di un secolo fa.
Difficile negare che il nostro
gusto si è corrotto di pari passo con i nostri costumi. Anzi, si potrebbe dire che la depravazione
della nostra sensibilità estetica è cominciata già con la musica atonale, il
surrealismo, l’astrattismo, ben prima dell’esplodere del consumismo di
massa, della Rivoluzione Sessuale, della
ribellione della gioventù nel 1968, della pornografia, e, per quanto riguarda l’Italia, delle oscene
volgarità disseminate nei vergognosi film della c.d. “commedia all’italiana”,
imperversanti negli anni Settanta del secolo scorso. A nulla potevano servire le critiche e le denunce
avanzate da isolati osservatori anticonformisti sulla decadenza e in pratica
l’estinzione delle arti figurative (per non parlar della musica e della
letteratura) possedute da uno spirito sempre più deviato e tenebroso[1]. L’imbarbarimento dell’arte “ufficiale” continua
oggi all’insegna di una vera e propria “estetica del disgusto”, cioè di una produzione
(in genere priva di vero talento) che vuole scandalizzare e addirittura suscitare
disgusto e repulsione: tipico prodotto di quello che si può definire un vero e proprio “inverno
della cultura”[2].
Recuperare l’autentico senso del
bello sembra pertanto di vitale importanza per il futuro della nostra civiltà. Ben venga, allora, l’eccellente studio di
Miriam Savarese, tesi di dottorato così intitolata: La nozione trascendentale di bello in
Tommaso D’Aquino[3].
b. L’origine divina della bellezza
Preceduta da una breve Introduzione
e seguita da una brevissima Conclusione, l’opera si divide in cinque
capitoli. Un breve Quadro storico
delle concezioni medievali del pulchrum anteriore all’Aquinate precede
l’analisi approfondita del suo pensiero, così suddivisa: Gli elementi del bello
(cap. II), la visio e il piacere (cap. III), i trascendentali (cap. IV),
il trascendentale pulchrum (cap. V).
Dati i limiti di una recensione,
l’ampiezza e la complessità dei temi trattati, mi concentrerò in prevalenza su
“gli elementi costitutivi del bello”, ovvero sul fondamento metafisico
dell’estetica dell’Angelico, senza ovviamente trascurare la parte più
impegnativa del libro, dedicata alla “nozione trascendentale” del bello. Infatti, il concetto trascendentale
del bello (che non è ovviamente quello kantiano) non compare esplicitamente in
san Tommaso e va ricostruito all’interno della sua complessa dialettica di bonum-verum-pulchrum,
impresa a mio avviso realizzata dall’Autrice con pieno successo (vedi infra,
§ g), a conclusione di una ricerca che sviluppa e approfondisce in modo
originale anche gli spunti offerti dalla letteratura specialistica più recente.
La riflessione estetica di san
Tommaso non nasce come un fiore nel deserto ma si inserisce in una problematica
già presente nel pensiero cristiano a lui anteriore e nella stessa tradizione
patristica, come dimostrano i riferimenti a sant’Agostino e a Dionigi l’Areopagita
(Pseudo-Dionigi), riportati nel Quadro storico.
Il pensiero medievale, immerso
nella visione cristiana della vita, non separava il mondo sensibile dall’intelligibile,
il materiale dallo spirituale, intendendo sempre tutto all’insegna dell’unità
del creato, opera di Dio onnipotente.
A rivalutare questa sua prospettiva, ci sono stati nel passato importanti
contributi, tra i quali gli studi di Umberto Eco (sulla sensibilità estetica
medievale e sul pensiero estetico di san Tommaso), ripubblicati di recente da
Bompiani (certo, di un Eco ben diverso dal posteriore autore di quel feuilleton anticattolico che è il suo
noto romanzo Nel nome della rosa), studi ai quali l’Autrice di frequente
si riferisce, a volte in garbato e motivato dissenso[4].
In sant’Agostino e nei filosofi
cristiani la bellezza viene colta come “species” (aspetto, bellezza, forma),
attribuita soprattutto al Figlio, Seconda Persona della Santissima
Trinità. Fattori di bellezza sono
“armonia e soavità di colore”. Ma il
bello, originandosi da Dio, ha anche i caratteri del bene (modus, species,
ordo) e vi è una tendenza costante a contrapporre una superiore bellezza interiore
a quella esteriore[5].
Questa tendenza a concepire la bellezza in modo spirituale e in sostanza
mistico, si basava anche sulle nozioni filosofico-scientifiche dell’epoca. La
Scuola di Chartres, ispirandosi al
Timeo platonico e a Boezio interpretava il cosmo come ordine dotato di
un’interiore armonia mentre si sviluppava un’estetica della luce,
fondata anche sugli studi scientifici sulla luce ad opera dei Francescani.
“La luce è sorgente di bellezza,
perché costituisce la sostanza stessa del colore e, nello stesso tempo, la
condizione esteriore della sua visibilità; di volta in volta, essa viene presa
in considerazione con un’ottica mistica, metafisica o scientifica, ma la sua
importanza rimane sempre confermata”[6].
Fioriva anche una estetica della proporzione (consonantia),
che autori come Eco vorrebbero in contrasto con quella della luce, tesi assai dubbia
secondo Savarese. In ogni caso, il modo
di intendere la bellezza era sempre metafisico. “Il problema principale
che si trovarono di fronte coloro che affrontavano la sistemazione teorica del
bello fu proprio la sua integrazione con i trascendentali, in particolare con
il verum e il bonum: per difendere la dignità del pulchrum
era necessario, da un lato, mostrare che non era in opposizione ad essi, anzi
per certi versi vi si identificava (e fu questa, soprattutto prima di Tommaso,
la principale preoccupazione), ma dall’altro divenne poi necessario garantirne
la distinzione, altrimenti l’identità e la consistenza propria della bellezza
sarebbe scomparsa. Si tratta del filo
rosso che percorre tutta la riflessione di Tommaso d’Aquino in merito”[7].
Nella Summa Theologiae si
trova una sua notoria definizione del bello come “ciò che piace alla nostra
vista”, che evidentemente lo trova bello:
“Pulchra dicuntur quae visa placent”. Prima di analizzarla nel
III capitolo del suo libro, Savarese, con procedimento metodologicamente ineccepibile,
ci illustra “gli elementi del bello” risultanti dalla riflessione teoretica
dell’Aquinate. Elementi che potremmo
definire oggettivi, nel nostro modo di esprimerci, se non fosse che tale
modo mal si adatterebbe al pensiero dell’Angelico. Savarese preferisce, pertanto, parlare qui di
“elementi costitutivi”, lasciando da parte la distinzione di oggettivo-soggettivo,
tipicamente moderna[8].
Il testo nel quale compaiono al
meglio i tre “elementi costitutivi” di questo concetto si trova nella Summa
Theologiae, I, q. 39, a .
8 co.:
“Infatti per la bellezza sono richieste
tre cose. Per primo, l’integrità
o perfezione, infatti le cose che sono menomate per ciò stesso sono
brutte. E la debita proporzione o
consonanza. E per secondo lo splendore,
da cui le cose che hanno un colore brillante sono dette belle”[9].
Una prima formulazione del
concetto del bello si ha nel commento tommasiano ai Nomi Divini
dell’Areopagita.
“Perciò, anche se nelle creature
il bello [pulchrum] e la bellezza [pulchritudo] differiscono,
tuttavia Dio li comprende entrambi in Sé, secondo l’uno e l’identico”. Pertanto:
“Bello si dice “ciò che
partecipa della bellezza”; si dice bellezza, invece, la partecipazione alla
Causa Prima che fa “belle” tutte le cose:
la bellezza della creatura, infatti, non è altro che la somiglianza alla
bellezza divina partecipata nelle cose”[10]. Il bello, riferito all’ens, partecipa
di una bellezza che rinvia di per sé alla bellezza “che è Dio”. Il pulchrum è dunque il bello
concreto, la cosa bella, si potrebbe dire, che appartiene al regno di
questo mondo pur non essendo scissa dalla realtà di Dio, senza la quale, oltre
a non esistere, non sarebbe nemmeno bella.
Mi viene in mente il famoso
verso di Keats:
A thing of beauty is a joy for ever;
Its loveliness increases; it will never
Non voglio certamente attribuire
al sensuale e sontuoso classicismo di Keats una concezione cristiana del bello
e tuttavia si vede come il suo verso voglia esprimere, con felice intuizione,
il significato eterno della bellezza della cosa bella, anche se tal cosa
possa sembrar bella solo esteriormente. Da
qui la domanda: l’eternità del bello come può concepirsi senza credere che essa
partecipi, anche solo come un’ombra, dell’eterna bellezza di Dio?
Ma come può effettivamente il
bello terreno, la “cosa bella” partecipare alla bellezza “che è Dio”,
costituente uno degli attributi della sua assoluta perfezione? Tale possibilità è giustificata in base
all’articolato concetto di partecipazione, uno dei pilastri della metafisica
dell’Aquinate, tratto da Platone ma da lui originalmente rielaborato[12].
Dio è lo Ens subsistens o Esse per essentiam mentre “le
creature sono l’essere partecipato, composto di essenza e atto di essere”,
composto cioè non solo di ciò che lo fa essere ciò che è (la sua essenza o
sostanza) ma anche (necessariamente) dell’esistenza in atto, in quanto ente
creato appartenente alla realtà. L’actus
essendi è il risultato della creazione che Dio fa dell’ente, ex
nihilo. Le “partecipazioni” sono “le
formalità secondo le quali i doni di Dio sono divisi nelle creature, che ne
partecipano in quanto li ricevono in modo parziale”. Pertanto, il pulchrum e la pulchritudo
sono in Dio per essentiam
mentre nelle creature lo sono per partecipationem[13].
Con questo nesso, essenza-partecipazione dell’essenza all’ente creato,
si spiega l’origine della bellezza nella creatura: Dio ne è la “causa prima”[14].
All’interno di questo nesso
teoretico fondamentale vanno situati gli “elementi costitutivi” del bello
secondo san Tommaso. Essi sono: “integrità o perfezione (integritas sive perfectio),
dovuta proporzione o consonanza/armonia (debita proportio sive consonantia)
e luminosità/splendore (claritas)”[15].
Sulla base di questi concetti,
anche se non sempre impiegati tutt’insieme, l’Angelico propone alcune
definizioni del bello. Commentando
l’Areopagita, scrive che egli mostra “la ragione della bellezza
soggiungendo che Dio “trasmette bellezza in quanto è ‘causa dell’armonia
e dello splendore’ in tutte le cose”. Ne consegue, prosegue san Tommaso, “che
bisogna intendere proporzionalmente il bello in tutte le altre cose, perché
ogni cosa si dice bella in quanto ha lo splendore del suo genere, o
spirituale o corporale, e in quanto è costituita secondo la proporzione dovuta
(In De Div. Nom., c. IV, 1.5, 339)”[16].
c. Il bello come “debita proporzione” o
“consonantia” delle parti nel tutto e dell’ente con Dio
L’idea di intendere
“proporzionalmente” il bello è dell’Aquinate, così come quella di una
proporzione dovuta o debita proportio.
Riprendendo questi concetti nella Summa Theologiae, egli distingue
tra bellezza corporea e spirituale: “la bellezza del corpo consiste nel
fatto che l’uomo ha le membra del corpo ben proporzionate, con una certa
chiarezza del debito colore. E
similmente la bellezza spirituale consiste nel fatto che il genere di
vita dell’uomo, o la sua azione, sia ben proporzionata secondo la chiarezza
spirituale della ragione. Ciò, infatti,
appartiene alla ragione dell’onesto, che diciamo sia identico alla virtù, che
regola tutte le cose umane secondo ragione.
E perciò l’onesto è identico al bello spirituale”[17].
Ques’idea della consonanza o “
proporzione debita”, cioè dovuta, giusta, mi sembra particolarmente interessante,
meritevole di esser riproposta alla nostra riflessione, proprio perché la
mentalità oggi predominante sembra compiacersi di ogni mancanza di proporzione,
di ogni disarmonia, di ogni “trasgressione”, accettando che l’arte (ma anche la
stessa natura) siano svilite a banco di prova di ogni possibile esperimento.
Cercherò di riassumere i
complessi e profondi concetti dell’Angelico, interpretati con sagacia e grande acribia filologica da Savarese.
L’idea di proporzione
“attraversa, per così dire, tutta la riflessione di Tommaso d’Aquino”,
assumendo “molteplici accezioni”. Fondamentalmente,
tale idea si presenta in due modi: “un
determinato rapporto [habitudo] di una quantità ad un’altra”; “un
qualsiasi rapporto [habitudo] di una cosa ad un’altra”. Il primo è quantitativo, misurabile, come il
rapporto di due a uno in musica poiché l’intervallo di 8a è maggiore del doppio della nota base. La “proporzione” investe tutta la realtà, sia
dal punto di vista quantitativo (esprimibile matematicamente) che
qualitativo. E questo perché tutta la
realtà è strutturata secondo un ordine (ordo) stabilito da Dio. “E così
ci può essere proporzione della creatura a Dio, in quanto essa la ha a Lui come
l’effetto alla causa e come la potenza all’atto. Secondo ciò, l’intelletto delle creature può
essere proporzionato a conoscere Dio”[18].
Allora il bello (pulchrum),
in quanto “debita proportio”, si ritrova in tutti gli aspetti della
realtà. La “proportio” coinvolge il
nesso, di origine aristotelica, potenza-atto: “è la proporzione dell’atto in se stesso e
quella della potenza all’atto”, esprimente un rapporto che va oltre la semplice
“armonia di parti”[19].
Va oltre perché “è in essa e grazie ad essa che la realtà finita trova
compimento e manifesta valore estetico”[20].
Sono concetti difficili,
soprattutto per la nostra mentalità, abituatasi a navigare a vista, a
galleggiare nell’indeterminato, nel sentimentale, nel puramente soggettivo,
amorevolmente intenta a coltivare l’informe rappresentato dai propri
istinti, quali che siano.
In ogni ente creato (uomo,
animale, pianta) esiste questa “proporzione”, che possiamo definire, con
l’Autrice, “ontologica”. È la
proporzione vigente tra l’essenza e l’ipsum esse o actus essendi
(atto dell’essere), che è anche, in generale, proporzione fra materia e forma[21].
Questa proporzione,
osservo, muove da una distinzione che successivamente essa stessa unifica. La distinzione è tra l’essenza (o sostanza)
dell’ente (aristotelicamente: ciò per
cui esso è ciò che è e non è altro da sé – principio di identità) e il
suo essere, vale a dire il suo esistere in atto, concretamente, e non
semplicemente in potenza, come mera possibilità di esistere. Perciò, “quella
tra un’essenza e il suo atto di essere è la prima essenziale proportio
che costituisce l’ente (escluso Dio, sia chiaro)”; ragion per cui, “senza di
essa, essentia e actus essendi non potrebbero comporsi e nessun
ente si darebbe”[22].
Il rapporto tra la potenza e
l’atto è quello che “fonda la cosa [l’ente creato-NdR] in quanto esistente e,
di conseguenza, anche la sua bellezza e la possibilità della sua fruizione”[23]. Pertanto, nella proporzione che regola il
rapporto tra potenza e atto, atto e potenza, proporzione che viene da Dio, si
ha già la proporzione che costituisce la bellezza degli enti, nel loro
grado e ordine. Questa proporzione
è nella realtà delle cose, in quanto ordo creato e stabilito da Dio, e
quindi si ha non solo nell’atto
intellettivo, l’atto del soggetto che conosce la realtà (il vero è consonantia
tra l’intelletto e la cosa conosciuta) ma anche “tra il senso e il sentito”[24].
Qualitativamente, la proportio è quindi
diversa a seconda della natura degli enti nei quali ha luogo e in questo senso
è debita: “è debita perché
è quella che appartiene a ciascun ente in quanto tale: la proportio di un ente corporeo è
diversa da quella di una realtà spirituale”[25].
È quella che gli spetta per natura, potremmo dire. Allora la rappresentazione artistica
dell’ente – mi chiedo – non dovrebbe comunque cogliere questa proportio? Si tratta di una relazione il cui fondamento
è metafisico: cogliere, allora, il fondamento metafisico della bellezza. Metafisico e, in ultima analisi, divino.
Esistono vari tipi di proportio: “la proportio di ciascun ente, che
sarà differente a seconda dell’ente in questione” e “la differenza che passa
tra proporzione delle realtà corporee e di quelle spirituali”. In quest’ultime è ricompresa “la proportio
morale degli atti umani, che ha come termine di riferimento la ragione”[26].
La proportio estetica
è quella che “fonda la bellezza tra gli enti”.
In essa si esprime la proporzione degli enti a Dio. Infatti, “è perché Dio è causa di ogni
bellezza che gli enti sono belli”[27].
Ma, dirà il figlio del Secolo,
non è astratta tutta questa costruzione, se riferita al concetto del
bello? Non ne dà una rappresentazione
troppo spirituale, troppo elevata? La
bellezza sensuale, che attira vicendevolmente l’uomo e la donna, e dà, in
generale, concreto significato estetico ai rapporti tra i sessi e con la
natura, vi trova posto? E se lo trova,
non è esso relegato ad un ruolo ingiustamente secondario, contro ciò che ci
mostra l’esperienza? Qui cadiamo nel
platonismo più deteriore, nella retorica delle anime belle: gli amanti si trovano belli perché trovano
belli i loro reciproci corpi, e questi vogliono godere!
Rispondo: esiste anche la retorica dell’eros, nata dal
giusto desiderio di abbellire poeticamente il sostrato puramente sensuale dell’attrazione
dei sessi. Non si può negare che nella
bellezza sensuale è all’opera il desiderio dei rapporti carnali, provocato a
sua volta dall’impulso alla riproduzione, per il mantenimento della specie. Il
desiderio dipende dal fòmite della concupiscenza, che ci spinge al
piacere. Ammesso da Dio, è ovvio, ai
fini del mantenimento della specie umana mediante la riproduzione dall’unione
del maschio e della femmina. Ma questa
bellezza è caduca perché legata alla sensualità della giovinezza (“Nulla
cosa è sì fallace/ Quanto il tempo giovinile”), all’eros che seduce
e inganna, tendendo quindi di per sé al disordine sentimentale e di vita. La caducità ingannevole dell’eros si dimostra
nel fatto che, se abbiamo senno, da vecchi, dopo esser stati feriti dalle tante
spine nascoste nella rosa delle nostre passioni, ci appare transeunte, falso e
persino volgare ciò che ci affascinava da giovani, spinti com’eravamo dalla
molla della concupiscenza. E quanti errori vorremmo non aver fatto, in
quell’epoca della nostra vita, ormai irreparabilmente trascorsa.
Per annullare il suo potenziale
distruttivo, la bellezza sensuale, che non può certamente esser tolta dalla
nostra vita, deve tuttavia esser sublimata nella disciplina della procreazione
nel matrimonio e nella famiglia, come li ha stabiliti Dio stesso: trascendersi
in valori più alti, che aiutino a goderne con la necessaria moderazione e
temperanza. Ciò dimostra che nella
bellezza va cercata una ratio che va al di là del dato immediato della
bellezza puramente sensuale, che non sarebbe d’altronde tale, per noi, senza il
desiderio, soggiacente in chi la percepisce.
E questa ratio conduce alla fine a vedere in Dio la causa di ogni
vera bellezza.
Il concetto del b e l l o
non può quindi esaurirsi in quello della bellezza dei sensi, esso deve
necessariamente trascenderlo, se vuol darsi un fondamento autentico. Il “pulchrum” non può essere limitato ai
corpi[28].
Questo carattere trascendente della vera bellezza, lo si desume
anche dall’importanza che l’Angelico attribuisce alla claritas ossia
alla luminosità.
d. La bellezza come “clarificatio” ossia
splendore, luminosità, luce nella quale la “proportio” delle creature si
perfeziona secondo il fine loro proprio
Questo secondo elemento del bello,
considerato ratio pulchri già da
Alberto Magno suo maestro, risulta in modo meno diretto della proportio. E tuttavia Savarese dimostra che lo si può rintracciare
chiaramente nell’Aquinate. Quest’aspetto è di particolare interesse poiché esso
tratta il tema, a mio avviso essenziale, del rapporto tra la luce e il bello,
dando fondamento teoretico all’idea della luce che deve rischiarare oltre ai
corpi anche le menti, in modo che la rappresentazione del bello sia conforme
alla verità dell’essere, come stabilita
da Dio.
Anche il termine claritas,
che si può rendere con “chiarezza, splendore, luminosità”, possiede per san
Tommaso diversi significati. Di questi,
ci interessa in particolare quello che illustra il rapporto tra claritas e
lux.
La luce viene considerata nella
sua capacità di manifestare le cose, vale a dire di permettere la visione e la
conoscenza[29].
C’è quindi un nesso tra le due distinte realtà della luce solare e della
luce interiore, proveniente dall’intelletto. Nella sua “capacità di mostrare,
la luce appartiene più propriamente alle realtà spirituali. Tutto ciò che è manifesto è clarum”. La ratio della claritas è,
allora, la sua “manifestatività”, sia sensibile che intelligibile[30].
L’Aquinate ha anche riflettuto a fondo, nella quaestio 67 della I
parte della Summa, sulla natura della luce naturale,
giungendo alla conclusione che essa non deve considerarsi “corpo”. Non ha natura corporea e non è la “forma sostanziale” del sole: è una “qualità attiva “ del sole[31].
La “forma sostanziale”, lo
ricordo, è quella che costituisce la sostanza stessa dell’ente, ciò per cui
esso è in sé ciò che è e non è altro; sostanza che, dal punto di vista del
significato, è la sua stessa essenza (come abbiamo visto, i due termini sono
usati anche come sinonimi). La luce sta
a parte, è una “qualità”, che all’epoca di san Tommaso si riteneva si
propagasse istantaneamente. Grazie alle scoperte e ai calcoli della scienza
moderna, oggi sappiamo che la luce saetta all’altissima velocita’ di quasi 300.000
km/s, costituita di pura energia viaggiante sia come corpuscolo (fotone) che
come onda. Essa si propaga sempre in
linea retta nel vuoto. Cosa sia
l’energia tuttavia non sappiamo. Va notato
che san Tommaso, che si basava anche sugli studi della scienza del tempo, aveva
visto giusto nel separare la luce dal sole, in quanto fenomeni fisici: dire che la luce non era la “forma
sostanziale” del sole significava affermare che luce e sole erano, come tali,
fenomeni diversi e che il sole non era fatto di luce, cosa a quei tempi forse non
così ovvia come oggi[32].
La luce ha dunque caratteristiche
e qualità proprie. Deriva dai corpi luminosi (sole, stelle) manifestandone la
forma sostanziale (con la quale non coincide) e produce nei corpi, anche negli
esseri umani, un “colorem nitidum”, cioè brillante, “che in quanto tale
è segno di bellezza”, oltre che di “sanità in senso fisiologico”, secondo la
concezione aristotelica dell’esser sani[33].
Nella claritas si ha dunque “il risplendere della forma”, sia in
senso fisico che spirituale. Come essa
manifesta la forma sostanziale dei corpi celesti, così la manifesta nell’uomo. Ma nell’uomo tale forma è costituita
dalla sua anima, onde la claritas di uomini e donne sarà costituita
dalla “radiosità” della loro anima[34].
Accanto allo “splendore sensibile” che proviene dalla luce sui corpi
abbiamo allora uno “splendore
intelligibile”, costituito in noi dalla “resplendentia animae”, forma
sostanziale del nostro corpo. Dall’anima
proviene anche lo splendore del “corpo glorioso” del Signore Risorto e quello
che avranno i corpi dei risorti in Cristo.
La “luminosità del corpo” non ha una causa solo fisica, essa è sempre
connessa alla claritas intelligibilis, che ha anche un significato morale. Recita, infatti, la Summa: “la luminosità del corpo rappresenterà la
qualità della mente, quanto alla quantità di grazia e di gloria”[35]. Ovvero:
“dopo la resurrezione, la claritas del corpo esprimerà, renderà
visibile, la mente di ciascuno”. In tal
modo essa dimostrerà il suo collegamento con “il vero” e “il bene”[36].
Può sembrare singolare – osservo
– il nesso sistematico che l’Angelico istituisce tra la realtà fisica e quella
spirituale e proprio in relazione ad un modo di essere o stato rappresentato
dalla claritas, condizione che può sembrare anche evanescente o comunque
solo temporanea. Ma, a ben vedere,
questo nesso, oltre ad esser giustificato di per sé, se non si vogliono
separare arbitrariamente corpo e spirito (anima e corpo), lo ritroviamo
affermato anche nella Sacra Scrittura. Le
acute riflessioni di san Tommaso, ci rimandano a un celebre versetto del Vangelo
di san Matteo, là ove riporta il Discorso della Montagna, quando il Signore
disse:
“L’occhio è lume del corpo. Se dunque l’occhio tuo è sano, il tuo corpo
sarà illuminato. Ma se l’occhio tuo è
torbido, tutta la tua persona sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebre,
quanto grandi saranno queste tenebre?”[37].
La luminosità la vediamo
nell’occhio, nostro e altrui. L’occhio
nostro è illuminato dalla luce che lo riempie dall’esterno allo stesso modo per
tutti ma non ogni sguardo è uguale
all’altro poiché l’occhio appare limpido o torbido a seconda della claritas o
delle tenebrae prevalenti dall’interno.
La luce di un occhio moralmente sano, come di chi vive
sforzandosi sinceramente di fare in tutto la volontà di Dio, ci spiega il
Signore, farà sì che “tutto il tuo corpo sia illuminato”. Come a dire:
la claritas dell’occhio, specchio dell’anima, investirà tutto il
tuo essere, il tuo corpo. L’estensione
potrebbe sembrare arbitraria o solo simbolica.
Eppure, chi non ha avuto, di fronte a giovani o a giovanette
dall’aspetto semplice e virtuoso, ben educati e modesti, impressioni come
queste: che bello sguardo limpido, che
impressione di semplicità, di pulizia morale, di purezza, in tutta la sua
persona? E lo sguardo limpido non è
forse bello? E la claritas
che emana dalla persona che abbia l’occhio sano e bello, non è tale anche dal
punto di vista estetico, oltre che etico? L’occhio torbido è quello senza luminosità,
che rende opaco ed anzi tenebroso anche il corpo, poiché il suo sguardo si è
guastato in séguito ai peccati di una vita che trasgredisce la volontà divina.
La claritas dell’occhio sano
risplende di una luce che è la stessa luce di Dio? Possiamo affermarlo, purché si rammenti che
tale luce nella creatura non è diretta bensì partecipata. La bellezza-splendore di quest’occhio deve
esser intesa come ogni bellezza di questo mondo: come “partecipazione alla luminosità divina”[38], secondo la gerarchia dei vari
gradi dell’essere.
La metafisica cristiana della
luce, che, al contrario di quanto ritengono alcuni eruditi, non ha dovuto certo
attendere gli influssi delle correnti mistiche mussulmane per costruirsi, ha
sempre visto nella luce uno degli attributi di Dio. E Dio, nella sua bontà, ne
rende partecipi in vari modi le creature, in senso sia corporeo che spirituale,
nella bellezza esteriore e interiore: si veda il cap. IV dei Nomi Divini
di Dionigi l’Areopagita, autore datato dalla critica moderna tra il V e il VI
secolo. San Paolo ci rivela che
Dio “inabita una luce inaccessibile, che nessun uomo mai ha veduto né può
vedere”[39].
Ma appunto la divina bontà ci ha reso “accessibile” la luce: non quella “che Egli inabita” ma la radiazione
che costituisce la luce in senso fisico, visibile, disponendo che sia emanata a
beneficio della terra e nostro da stelle come il sole. E in senso etico-estetico, nello
splendore dell’anima gradita a Dio, quando si riflette nello sguardo limpido,
nel quale l’interiore pulchritudo morale diventa bellezza esteriore.
e. La bellezza come “integrità” e
“perfezione”
Nella bellezza appaiono anche integrità
e perfezione. L’idea della perfezione,
come intesa dall’Aquinate, confluisce spontaneamente in quella del bello. Esistono due tipi di perfezione, strettamente
connessi.
“La prima perfezione è
appunto secondo il fatto che la cosa è perfetta nella sua sostanza. Questa perfezione è appunto la forma del
tutto, che deriva dall’integrità delle parti. Invece la seconda perfezione è il fine. Invece il fine o è l’operazione, come
il fine del suonatore di cetra è suonare la cetra, o è qualcosa al quale si
giunge per mezzo dell’operazione, come il fine del costruttore è la casa,
che realizza costruendo. Ma la prima
perfezione è la causa della seconda perché la forma è il principio
dell’operazione” (S. Th. I, q. 73, a . 1, co.)”[40].
La prima, sottolinea Savarese, “è
perfezione sostanziale e consiste (necessariamente) nella forma della cosa, che
viene spiegata in riferimento all’integrità delle parti”. Che vuol dire, qui, integrità delle parti? Vuol dire “che la forma consta di tutte le
parti che la res deve avere per natura”.
Infatti la forma “non è mai mutilata”. Essa rimane perfetta anche se la res è
mutilata, a meno che la parte mancante non sia tale da determinare un
cambiamento sostanziale”[41].
Dunque, rilevo, l’integrità
riguarda la forma e la cosa che la realizza in atto; tuttavia l’eventuale
mutilazione della cosa non ne comporta una della forma, a meno che non si
produca un cambiamento “nella sostanza” della cosa stessa. Così un uomo non perde la sua forma-uomo se
per disgrazia perde un arto; se però perde la testa, la conserva la
forma-uomo? Un uomo senza una gamba è
ancora un uomo, un uomo decapitato diventa invece un cadavere. Dire che la cosa, ossia ogni ente, è
perfetta nella sua sostanza, significa affermare che essa è compiuta secondo la
forma nella quale esiste. Nel caso
dell’uomo, quello di esser stato creato per essere ciò che è, un uomo e non
qualcos’altro, completo di tutte le parti che organicamente costituiscono il
tutto (individualmente determinato) dell’esser-uomo in atto.
La perfezione seconda,
invece, riguarda non l’essere dell’ente ma il suo agire, che è sempre un
agire per un fine. Perciò concerne
“un’operazione o il risultato dell’operazione stessa”. Qui il fine non è costituito dal venire in
essere stesso dell’ente, come entità perfettamente compiuta (integra) nella
forma che deve avere; è costituito dallo scopo cui mira l’azione concreta
dell’ente o soggetto consapevolmente agente, nel caso dell’uomo. “La perfectio secunda consiste sempre
nell’operazione ma a seconda del tipo di operazione di cui si tratta essa sarà
compiuta in se stessa oppure produrrà (o
tenderà a) qualcosa al di fuori di sé, che in tal caso ne costituirà il
fine. Si può anche dire che la perfectio
secunda consiste sempre nel fine, che è a sua volta sempre il fine
dell’operazione”[42].
La “seconda perfezione” è dunque
strettamente connessa al fine dell’azione, “è però la prima perfectio
che è causa della seconda, perché la forma è principio dell’operazione e, in
quanto tale, è da essa che si “sprigiona” l’automovimento che porta ad es. un
bambino a diventare un adulto”[43]. La “forma” principio dell’operazione è la forma
sostanziale, che costituisce la sostanza della cosa e in definitiva il suo
stesso essere. Essa si realizza nel movimento
della crescita che, nel caso di specie, fa sì che il bambino diventi alla fine
adulto. La perfezione secunda
completa il perfezionamento di cui è capace l’ente “ed è al vertice di tutta la
perfezione possibile”, che non può mai esser “piena” per nessun ente finito,
onde l’integritas che caratterizza la perfezione, nel senso pieno del
termine, la si può attribuire solo a Dio, che è lo Ens Perfectissimum. La perfezione limitata
della quale è capace ciascun ente, è quella comunque “a lui propria”[44].
Nel passaggio dalla prima alla
seconda perfezione opera sempre la proportio o convenientia: esso non avviene casualmente, è ovvio. Nel compimento (consummatio) dell’ente
quando si realizza la seconda perfezione, si attua anche il massimo della
bellezza. Ciò si deduce dalle riflessioni di san Tommaso sul significato
del settimo giorno nel processo della creazione.
“Il sesto giorno la creazione è
compiuta. Il settimo giorno Dio si
riposa e ne fruisce: questo fatto, se
poi ci darà preziose indicazioni sul bello, già ora indica che la compiutezza
della perfectio secunda non fa altro che esprimere appieno le
potenzialità della prima e porta con sé il “riposo”: essa è legata con la Pax in cui si
manifesta la proportio del cosmo.
Tra perfectio prima e secunda
c’è convenienza, l’una corrisponde all’altra, l’una non è compiuta senza
l’altra, l’altra la completa”[45].
La perfezione finale dell’universo
deve tuttavia esser intesa in chiave escatologica e sarà rappresentata
dal realizzarsi della Visione Beatifica:
“Invece l’ultima perfezione, che
è il fine di tutto l’universo, è la perfetta beatitudine dei santi; questa ci
sarà nel compimento ultimo dei tempi [quae erit in ultima consummatione
saeculi]. La prima perfezione,
d’altra parte, che consiste nell’integrità dell’universo, ci fu nella prima
formazione delle cose. E questa è
assegnata al settimo giorno. (S. Th., I, q. 73, a . 1. Co)”[46].
La prima perfezione fu sanzionata
da Dio creatore quando, riposandosi il settimo giorno, benedisse dal suo riposo
ciò che aveva creato, poiché, alla fine del sesto giorno, lo aveva trovato molto
buono: “Viditque Deus cuncta quae fecerat,
et erant valde bona” (Gn 1, 31). E se
erano “molto buone” le sue opere, osservo, non erano anche molto belle? Non risplendevano della claritas che
Dio stesso, creandole, si era degnato di partecipar loro?
La perfezione che si compie nel
settimo giorno della creazione, che è la perfezione di una realtà finita, come
lo è quella dell’uomo e del mondo creati, verrà superata da un’ultima
perfectio, costituita dalla “beatitudine dei santi”, dalla Visione
Beatifica offerta alle anime degli Eletti.
Quella sarà la suprema bellezza, suprema felicità, nel trionfo della
luce, come l’ha poi cantata Dante, che alla morte dell’Angelico (AD 1274) aveva
nove anni, negli ultimi suoi Canti del Paradiso. E nel viso dei Beati, come in quello di
Beatrice, penultima guida del Poeta nel suo viaggio, apparirà una bellezza che
non si può descrivere in termini umani e
solo Dio, “suo Fattor”, può perfettamente comprendere:
“La bellezza ch’io vidi si
trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io
credo
I vari gradi nei quali san
Tommaso vede l’attuarsi della perfezione, culminanti nella perfezione “ultima”,
alla fine dei tempi, permettono a Savarese di affermare, a pieno titolo, che “che
la perfectio estetica ha anch’essa due “livelli” e che anche il pulchrum
da un lato e in primis è legato all’ente in se stesso, ma dall’altro
si compie solo in un secondo momento”. C’è
quindi uno sviluppo, che non ha a che vedere con la moderna idea di progresso,
totalmente antropocentrica ed immanente all’ordine che l’uomo stesso vuol dare
al mondo, ma piuttosto con il rapporto tra la potenza e l’atto, tra
l’essere che si realizza come ente finito e l’essere (il medesimo) che si
realizza in Dio come realtà infinita ed eterna, nella quale l’ordine
creato da Dio come ordine della natura e del cosmo viene sostituito per sempre
da un ordine del tutto sovrannaturale. Perciò,
“se per Tommaso il cosmo è già ora ordine, è già ora bello, tuttavia questa
bellezza non è ancora compiuta e lo sarà, escatologicamente, solo alla fine dei
tempi: la cosiddetta pancalía medievale, che non si può certo sostenere
Tommaso abbandoni, non va vista come un ottimismo cieco nei confronti dello
stato di fatto delle cose […] ma piuttosto come un già e non ancora che
aspetta, intrinsecamente, il suo completamento.
‘Ne deriva che, dal punto di vista metafisico, il bello supremo presuppone
che l’essere abbia raggiunto il suo pieno sboccio’”[48].
Ciò che crea alla fine l’unità di
tutti questi “elementi costitutivi” del bello in san Tommaso, è il concetto della f o r m a, elemento portante della sua metafisica,
prevalentemente nel senso della entelécheia aristotelica, cioè quale
“principio strutturante la res”, che ne realizza “l’attualità” e la
“perfeziona”. Al concetto della forma
nell’Angelico, Savarese dedica alcune finissime pagine in chiusura di questo
capitolo[49].
f. Il bello come “delectatio”
individuale del bello in sé
Il piacere puramente estetico,
quando troviamo diletto in determinate realtà del mondo a noi esteriore,
provocandoci per l’appunto la sensazione del godimento estetico, che
rilievo ha nella concezione tomistica del Bello? Il realismo di san Tommaso sembra concederle
il giusto spazio, pur senza cancellarne il nesso con gli “elementi costitutivi”della
bellezza in quanto tale.
“Perché si ha bellezza, solo
perché l’uomo ne gode o viceversa, l’uomo gode perché si dà bellezza?”[50].
Questa l’antica domanda. Nella visione del mondo del Medio Evo anche
il bene era considerato “bello”. Si
manteneva sempre uno stretto rapporto fra il bonum e il pulchrum. Al fine di enucleare il concetto del Bello
relativamente al soggetto percipiente – il Bello in senso soggettivo –
l’Aquinate deve mettere inizialmente in rilievo la loro distinzione.
Il bene riguarda
l’appetito poiché “l’appetito è in un certo qual modo un moto verso la cosa”,
essendo la cosa (il bene) “ciò che tutti desiderano”. La nozione del bene è da vedersi soprattutto
in relazione al fine per il quale il soggetto agisce, quello appunto di
conseguire il bene, nelle varie gradazioni:
da un bene particolare, al bene terreno, al bene comune, al bene sommo,
l’unico che conti veramente, costituito dalla vita eterna nella Visione
Beatifica.
Il bello, al contrario,
non concerne l’appetito o desiderio (dato che qui ci piace qualcosa unicamente
per il fatto in sé di esser bella) ma la facoltà conoscitiva: “Il bello concerne invece la facoltà
conoscitiva, infatti si dicono belle le cose che viste piacciono. Perciò il bello consiste in una debita
proporzione, poiché il senso si diletta delle cose debitamente proporzionate,
come delle cose simili a sé; infatti anche il senso e ogni facoltà conoscitiva
sono strutture razionali”(S. Th., I, q. 5, a . 4, ad 1)”[51].
La vista fa parte della “facoltà
conoscitiva”, come gli altri sensi. Essa ci permette di cogliere la “debita
proporzione” (vedi supra) e le “similitudini” di una cosa che a noi,
proprio per questo, par bella. “Donde concernono il bello principalmente quei
sensi che sono conoscitivi al massimo grado, cioè la vista e l’udito che
servono con premura la ragione, infatti diciamo belle le cose visibili e belli
i suoni. Invece non usiamo il nome di
bellezza per i sensibili degli altri sensi, infatti non diciamo belli i sapori
o gli odori. E così è chiaro ciò che il
bello aggiunge sopra il bene, cioè un certo ordine alla facoltà conoscitiva;
così che si dice bene ciò che semplicemente compiace l’appetito; invece si
dice bello ciò la cui apprensione stessa piace (S. Th., I-II, q. 27, a .1, ad 3)”[52].
Il bene cui aspiriamo è
l’oggetto del nostro desiderio; il bello risulta invece dal semplice
piacere che ci procura la sua percezione o “apprensione” (apprehensio)
sensibile: un magnifico paesaggio ci
piace per il solo fatto di vederlo non perché costituisca l’oggetto di un
nostro precedente desiderio, come nel caso di un bene cui aspiriamo. È pertanto giusto dire che il nostro
sentimento del bello è costituito dalla semplice “apprensione” sensoriale della
cosa bella, essendo esso il piacere datoci da questa stessa “apprensione”, da
questa particolare conoscenza. Nello
stesso tempo possiamo dire, aggiungo, che il bel paesaggio naturale è di per sé
un bene, da mantenere e conservare proprio come si mantiene una cosa
utile e benefica. Nella bellezza della
natura si riflette quella del divino Artefice che l’ha creata e noi la
conserviamo come un bene, anche riproducendola nell’opera d’arte. E difatti non ricomprendiamo oggi opere
d’arte e bellezze naturali all’interno dell’ampio concetto di beni culturali? Ciò dimostra che c’è anche per noi oggi un
nesso fra l’idea del bello e quella del bene, nesso sul quale ha giustamente
insistito in modo approfondito la speculazione medievale.
Che il piacere (delectatio)
provato dal soggetto di fronte alla cosa bella sia per l’Aquinate da intendersi
in senso del tutto soggettivo (e quindi sostanzialmente edonistico), ciò è
comunque da escludersi, sottolinea l’Autrice: per san Tommaso, “il bello non si identifica tout court con il
piacere, tantomeno con quello dei singoli soggetti”. E difatti, “il piacere
sopravviene solo dopo la conoscenza e nasce da quest’ultima: non per niente, quel che differenzia il pulchrum
dal bonum è essenzialmente l’attività conoscitiva, come risulta dal
fatto che la proportio, elemento costitutivo del bello, comprende in sé
anche la proportio gnoseologica, sia sensibile che intellettuale,
dell’oggetto al soggetto e viceversa (per usare una terminologia moderna)”[53].
Ciò dimostra come, per san Tommaso, la dimensione soggettiva della
fruizione estetica sia sempre strettamente collegata a quella oggettiva.
Il termine “apprensione” (apprehensio)
usato dall’Aquinate ha offerto lo spunto ad un’interpretazione (sostenuta anche
da Maritain e che Savarese respinge in toto, con argomenti a mio avviso
validissimi), secondo la quale san Tommaso professerebbe in realtà una concezione
intuitiva (“intuizione intellettuale”) del bello, del bello come concretamente
percepito dal soggeto, del bello appunto in senso soggettivo, per
esprimersi alla maniera dei moderni. Devo
limitarmi qui alla conclusione cui giungono le sottili analisi di Savarese e
cioè che la tesi è insostenibile: nel Nostro non si riscontra alcuna forma intuitiva
del conoscere. Anche la conoscenza
estetica viene da lui concepita attraverso la mediazione degli “universali”
ossia del concetto, che si forma mediante un giudizio sulla cosa conosciuta: anche la “conoscenza estetica” è sempre
concepita come “unione di senso ed intelletto”, allo stesso modo della “conoscenza
in generale”[54].
Il piacere estetico è di tipo
particolare ma non è comunque meramente sensibile, è anche intellettuale. In esso opera sempre la volontà del soggetto
di raggiungere la propria “perfezione naturale”, ragion per cui c’è un nesso
tra il piacere e la ricerca della felicità, da intendersi però non nel senso
della semplice felicità materiale bensì in quello più elevato di una beatitudo
che si realizzerà in forma perfetta unicamente nella vita eterna degli
Eletti. Una delle caratteristiche
dell’essere umano, preclusa all’animale, è proprio quella di poter apprezzare
la bellezza delle cose sensibili in sé e per sé , quale valore a loro
intrinseco: il bello in sé, che ci
piace perché è bello. “I sensi sono stati dati all’uomo – scrive l’Angelico
– non solo per procurarsi le cose necessarie alla vita, come agli altri
animali: ma anche per conoscere. Perciò, mentre gli altri animali non provano
piacere delle cose sensibili se non in ordine ai cibi e al sesso, solo
l’uomo gode nella bellezza delle cose sensibili per se stessa (S.Th.,
I, q. 91, a .
3, ad 3)”[55].
Come si vede, san Tommaso coglie
nitidamente il carattere del tutto disinteressato, libero da ogni altro fine si
vorrebbe dire, che è proprio del vero godimento estetico, sciolto come tale da
ogni ricerca del piacere, dell’utile o del bene. In questo compiacersi della cosa in sé, per
la sua intrinseca bellezza, còlta nella sua immediatezza, si registra una delle
differenze fondamentali ed incolmabili tra l’uomo e l’animale.
È quindi possibile concepire un
“piacere estetico puro” ovvero disinteressato, privo di legame
“con i bisogni vitali” del soggetto, piacere nei confronti del quale non
occorre esercitare la virtù della temperanza, necessaria invece per i piaceri
della carne, a cominciare da quello sessuale[56].
Tuttavia il piacere estetico, per quanto puro, non è secondo san Tommaso
distaccato dalla vita concreta, come sembrano ritenere alcuni suoi interpreti. Anche il piacere estetico, che coglie la
bellezza sensibile nella vita, viene inserito nella gerarchia o scala di valori
che l’intelletto deve riconoscere nella realtà; scala di valori concepita
finalisticamente, ovvero in funzione del fine ultimo della nostra vita,
stabilito da Dio.
“San Tommaso non avrebbe mai
accettato la riduzione della vita al biologico – come invece si tende a fare
nel pensiero moderno – ma piuttosto vede la vita dell’uomo in tutta la pienezza
di tutte le sue dimensioni. Ciò si
riflette nel fatto che anche il piacere estetico è inserito nel più generale
fine ultimo della vita umana, la beatitudo cioè la felicità, che è
questione assai più intellettuale e spirituale che corporale”[57]. In effetti, mi chiedo, in cosa
può consistere la vera e ultima felicità per un cristiano e filosofo, se non
nel conseguimento del Sommo Bene, che è Dio?
La nostra vera patria è il Cielo, qui siamo solo di passaggio, sottoposti
ad un periodo di dure prove da superare (con l’aiuto imprescindibile della
Grazia) per esser considerati degni di entrare alla fine dei tempi nel Regno di
Dio, che dura in eterno. Anche il
godimento estetico non può sfuggire a questa prospettiva sovrannaturale, che si
integra alla prospettiva teoretica intrinseca ad ogni vera speculazione: dopo averlo definito nel suo concetto, inquadrare
il particolare (qui la percezione e il giudizio estetici) nell’universale,
rappresentato dal concetto di una gerarchia di valori retti dall’idea del fine,
ricomprendente cielo e terra. Anche il
piacere estetico appare pertanto ordinato, ordinato al fine proprio
dell’uomo, altrimenti si potrebbe cadere nell’estetismo: dal culto del
bello che riflette il divino nella natura e nell’uomo, al culto del bello
per il bello, facendone erroneamente lo scopo della propria vita, cosa che
comporta la caduta dell’individuo nel narcisismo e non raramente nei
peggiori vizi.
“Il piacere estetico, dunque,
deve essere anch’esso ordinato. Questo
significa che per Tommaso anche il bello è finalizzato all’uomo e non a sé
stesso: il bello per l’uomo e non il
bello per il bello. L’arte per l’uomo e
non l’arte per l’arte […] Però, sebbene
il piacere non costituisca il fine ultimo della vita umana, esso si accompagna
comunque alla felicità, la beatitudo, che nel pensiero tommasiano è il
fine ultimo […] Infatti, per l’Angelico ‘il piacere [delectatio] che
segue operazioni buone e da desiderare, è buono e va desiderato; invece quello che
segue le cattive, è cattivo e va fuggito.
Dunque ha il fatto di essere buono e da desiderarsi da un’altra cosa. Dunque
non è esso stesso l’ultimo fine, che è la felicità” (C. G., III, c. 26,
n. 13)’”[58].
Ciò significa, continua Savarese, che “nessuna delectatio,
nemmeno quella estetica, può esser completamente lasciata a se stessa; o,
meglio, che per Tommaso essa non esaurisce la totalità del vivere dell’uomo e
deve quindi essere inserita all’interno dell’ordine dei fini”[59].
Non desideriamo il piacere
per se stesso ma per conseguire un determinato oggetto del nostro desiderio,
cosa che, a seconda della qualità dell’oggetto, provoca piaceri buoni e piaceri
cattivi, che vanno evitati. Il piacere
estetico è senz’altro buono poiché il suo oggetto è il bello, còlto nei suoi
elementi costitutivi indipendentemente da ogni altra determinazione o fine. L’oggetto
del desiderio, il bene, è qui il bello stesso, che non è tuttavia il bene più
alto cui possa aspirare l’uomo.
“Infatti, il piacere è causato
dal fatto che il desiderio riposa nel bene raggiunto. Perciò, poiché la beatitudine non è altro che
il raggiungimento del sommo bene, non può esserci beatitudine senza piacere
concomitante (S. Th., I-II, q. 4, a . 1, co)”[60].
In conclusione, “la visione e il
piacere del pulchrum si trovano sia a livello sensibile che a livello
intelligibile; piacere e visione sono del soggetto ma sono strettamente
dipendenti dagli elementi costitutivi del bello, dalla struttura stessa della
realtà. Non è quindi che il ruolo del
soggetto sia assente: tale ruolo è
strutturale – il pulchrum non è pensabile senza di esso – ma esso non è
soggettivo, è il soggetto che è determinato dalla sua struttura e dalla
struttura del reale. Data l’importanza di integritas, proportio e
claritas, bisogna dire che il “consenso”, il piacere personale, fa sì
parte della ratio pulchri, ma solo in quanto è la cosa, in quanto bella,
a dover piacere. Non bisogna separare soggettivo
e oggettivo: essi sono, anzi,
strettamente intrecciati, inseparabili l’uno dall’altro”[61].
g. Il bello in senso
trascendentale
Il discorso sul bello in san
Tommaso non è ancora finito. Bisogna
vedere se egli l’abbia “sufficientemente distinto da bonum e verum”
sì da conferirigli una sua ragion d’essere, una ratio propria. Il che significa, nella metafisica tomistica,
avere una natura trascendentale, come l’hanno appunto i concetti del bene
e del vero, ai quali va aggiunto quello dell’uno. La questione è tuttora aperta e su di essa
Savarese (vedi supra) prende posizione in senso affermativo, anche se con
cautela, trattandosi di una verità ricostruita
su testi che mostrano, almeno in apparenza, oscillazioni in opposte
direzioni[62].
Il cap. IV esamina brevemente la
dottrina dei trascendentali, il V e ultimo il bello “in senso trascendentale”
in san Tommaso. Preliminarmente,
l’Autrice sgombra il campo da possibili equivoci per i non specialisti,
ricordando che la concezione scolastica dei trascendentali non ha nulla a che
vedere con il concetto di conoscenza trascendentale elaborato da Kant. Molto opportunamente, essa ne riporta un
famoso passaggio in proposito, tratto dalla Critica della ragion pura: “Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si
occupa non di oggetti ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto
questa deve esser possibile a priori”[63]. Per Kant, il Trascendentale non è una
proprietà delle cose fuori di noi ma un modo di essere della nostra mente, se
così posso dire: una categoria a priori
del nostro intelletto, che ci permette di conoscere la realtà esterna, a
cominciare dallo spazio e dal tempo. Kant
non può negare l’esistenza dello spazio (si difese esplicitamente da
quest’accusa, nei Prolegomena ad ogni futura metafisica, 1783) ma
afferma che ne abbiamo conoscenza solo grazie alla “forma” trascendentale,
ossia anteriore ad ogni esperienza, che ne possediamo in interiore homine. In quest’ottica, “lo spazio e il tempo altro
non sono che forme dell’intuizione sensibile, e quindi semplicemente condizioni
dell’esistenza delle cose in quanto fenomeni”[64].
Condizioni, si intende, per noi, in quanto soggetti
conoscenti: “Il termine trascendentale
non significa mai per me un rapporto della nostra conoscenza con le cose [Dinge]
ma solamente con la nostra capacità di conoscere [Erkenntnisvermögen]”[65].
Savarese riporta in nota un altro
passo della Critica nel quale Kant attacca esplicitamente il concetto
scolastico del Trascendentale come “predicato” che stabilisce “proprietà delle
cose in se stesse”; il che per Kant è un grave errore, restando a suo dire la cosa-in-sé
a noi del tutto sconosciuta; non conosciuta
ma conoscibile, invece, solo in quanto fenomeno percepito e organizzato
da noi secondo le nostre categorie a priori[66].
Ciò premesso, vediamo il concetto
di Trascendentale degli autori medievali. Con esso “si intendono le determinazioni che
sono proprie di ogni ente in quanto ente e che, in quanto tali, oltrepassano, trascendono
appunto, le determinazioni categoriali (che sono invece modi parziali
dell’essere); per quanto non necessariamente legati a Dio nel loro sviluppo
filosofico, essi sono attribuibili anche a Lui (con tutte le precauzioni del
caso), tanto da costituire dei nomi divini non metaforici [degli effettivi
attributi divini-NdR]. I trascendentali
sono dunque proprietà coestensive all’essere (che cioè con esso coincidono), ma
dall’essere si distinguono concettualmente, ratione, per usare il
linguaggio medievale”[67].
I “trascendentali” sono dunque
“proprietà dell’essere” (“predicati” o “modi di essere”) che non si
identificano all’essere e nemmeno alle categorie, che essi appunto trascendono.
Il concetto non va confuso con quello di trascendente, cosa che nel
parlar comune può accadere. La
concezione medievale, precisa Savarese, “ingloba, almeno in parte, il
significato di trascendente”, termine con il quale si indica in genere
“ciò che è al di là, usato per indicare Dio, la vita ultraterrena etc.”; in
sostanza, una realtà del tutto spirituale, anche ultraterrena[68].
I trascendentali integrano le categorie. Ma cosa sono le categorie? In senso metafisico, si intende, trattandosi
di nozione usata nel parlar comune per indicare un complesso ordinato di
individui o di cose o come sinonimo del vocabolo qualità (il salto alla
Seria A come passaggio alla categoria superiore; impiegati di prima,
seconda categoria; merci di prima categoria; uno scrittore di ben
altra categoria, etc.). La
domanda è legittima anche in relazione al fatto che il pensiero filosofico
sembra aver oggi rinunciato al concetto stesso di categoria, sostituito
(più o meno) da quello abbastanza oscuro di esistenziale, proposto da
Heidegger nel § 9 di Sein und Zeit (1927).
Le categorie furono, come si sa,
enucleate da Aristotele in numero di dieci. Nonostante le critiche e i rifacimenti cui
sono state sottoposte (Kant le rielaborò secondo la sua prospettiva
trascendentale), le dieci categorie aristoteliche rappresentano ancora il
fondamento di ogni discorso sulle categorie mediante le quali
inquadriamo l’essere, il pensare, l’agire dell’uomo. L’esposizione più chiara e completa
Aristotele la fa nel breve scritto intitolato appunto Categorie.
“I termini che si dicono senza
alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o
una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una
situazione, o un avere, o un agire, o un patire. Orbene, per esprimerci concretamente, sostanza
è, ad esempio, uomo, cavallo; quantità è lunghezza di due cubiti,
lunghezza di tre cubiti; qualità è bianco, grammatico; relazione è
doppio, maggiore; luogo è nel Liceo, in piazza; tempo è ieri,
l’anno scorso; essere in una situazione è si trova disteso, sta seduto; avere
è porta le scarpe, si è armato; agire è tagliare, bruciare; patire
è venir tagliato, venir bruciato”[69].
Le dieci categorie sono dunque:
la sostanza, il quanto, il quale, la relazione, lo spazio,
il tempo, lo stare, l’avere, l’agire, il patire. Quest’ultimo termine va inteso nel senso
dell’esser oggetto passivo di un’azione, di doverla subire; è il contrario
dell’agire che noi facciamo verso gli altri o l’esterno in generale. Quasi a a
commento del suo elenco, Aristotele aggiunge subito dopo:
“Ciascuno dei suddetti termini,
in sé e per sé, non rientra in alcuna affermazione; un’affermazione si presenta
invece, quando tali termini si connettono tra di loro. Pare, infatti, che ogni
affermazione debba essere vera o falsa; per altro, nessuno dei termini, che si
dicono senza alcuna connessione, ad esempio uomo, bianco, corre, vince, è vero
oppure falso”[70].
Cosa vuol dire qui Aristotele? Che i termini indicanti le categorie
esprimono il loro significato indipendentemente dall’esser impiegati in una
“connessione” (symploké) cioè in una proposizione, un discorso
articolato. Le categorie non risultano
dalla logica interna di un discorso, esse ne sono invece il presupposto. Una “affermazione” (katáphasis) è in
genere costituita da una frase, da una proposizione dotata di senso. Essa
risulterà dalla connessione dei termini indicanti le categorie: se si preferisce, dai concetti fondamentali
che chiamiamo categorie, logicamente preliminari ad ogni discorso razionale. Concetti fondamentali che indicano un “modo
di essere” (modus essendi) della realtà, (per usare la terminologia
dell’Angelico, richiamata da Savarese), cui non si possono applicare le qualificazioni
del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto[71].
Hegel disse che il logos, cioè il
pensiero come intelletto che ragiona sulle cose, è il medesimo in tutti, nella
testa del filosofo come nella mente della madre di famiglia che fa il calcolo
della spesa. Ciò significa che le
categorie sono le stesse per tutti, ossia che tutti le usiamo nel nostro
ragionar quotidiano, anche senza averne contezza.
“Oggi sono andata a fare la spesa
al mercato coperto, qua vicino, un posto umido e freddo però vi si trova roba
fresca e di buona qualità. Mi sono messa il cappotto pesante. Per quello che
spendi e che compri, ti potrebbero dare piu’ roba, comunque. Domani, ci
ritorno, anche se alcuni dei venditori sono un po’ bruschi. Di fronte a modi
bruschi ti senti come indifesa. Magari
cerchero’ di spendere un po’ meno, devo stare attenta ai conti…”. Se analizziamo una periodo come questo, quale
tipo di una riflessione o di un dialogo del tutto comuni, riscontriamo la
presenza delle seguenti categorie, indispensabili al venir in essere stesso del
discorso, in quanto discorso fornito di senso: tempo (oggi e domani), spazio
(il luogo costituito dal mercato coperto), la qualità delle merci di contro
alla quantità, la relazione (spender meno o di più, andar al mercato di meno o
di più), lo stare nel senso di esser in quella determinata situazione (di
acquirente, di donna di casa che fa la spesa), l’avere (il vestito pesante, il
denaro), il fare (il camminare, l’acquistare), il patire (il subire le brusche
maniere di certi negozianti o i loro prezzi).
La sostanza è costituita dal soggetto stesso che pensa, con la
sua humanitas che lo fa essere quello che è e non altro (principio
d’identità), espressa nei pensieri della madre di famiglia e non di altri, di
quella irripetibile individualità che è la sua. E dalla sostanza costituita
dagli altri enti contenuti nel ragionamento, con i quali il soggetto si è messo
in rapporto. Ma nel parlar comune, le
categorie vengono usate anche come concetti generali, il cui significato è
perfettamente noto, anche solo intuitivamente.
Ad esempio, il gioco di identità e differenza nel rapporto tra sostanza
e apparenza (contenuto e forma), tra quantità e qualità,
tra spazio come luogo e tempo, tra il più e il meno, tra
l’essere come essere in una determinata condizione e l’avere o non
avere, tra l’agire e all’opposto il subire l’azione degli altri.
Ci si è sempre chiesti se le
categorie aristoteliche costituiscano un tutto perfettamente omogeneo. Limitiamoci
a constatare che noi pensiamo effettivamente servendoci delle categorie. Per san Tommaso, le categorie, come si è
visto, esprimono un “modo di essere”, senza per questo esaurire tutti i predicati
dell’essere (dell’ente). A proposito
della sostanza, egli afferma: “la
sostanza non aggiunge all’ente alcuna differenza, che designi una qualche
natura aggiunta all’ente, ma col nome “sostanza” si esprime un qualche speciale
modo di essere, cioè ciò che è “per sé”, e così anche per gli altri generi”,
che vengono ricompresi nelle categorie[72]. Con l’espressione specialis
modus essendi, l’Aquinate non indica qui qualcosa di eccezionale ma semplicemente
quel modo di essere che individua l’ens per se, ovvero l’essere in
quanto determinato nell’ente specifico, che è ciò che è e non può esser simultaneamente
altro. Indica, pertanto, l’ente nella
sua intrinseca natura, non una qualche “natura aggiunta” (naturam
superadditam). Tale modus essendi
non potrà quindi attribuirsi ad ogni ente ma solo a quel determinato ente
particolare: se la sostanza è l’uomo (humanitas)
non potrà essere il cavallo (cavallinitas), e così via.
Ma vi sono anche “modi di essere” di carattere generale,
esprimenti “un modo generale che consegue a ogni ente [modus generalis consequens omne ens]”. E
questi altri “modi di essere” sarebbero i trascendentali, modi di
essere per l’appunto generali, “che cioè si accompagnano ad ogni ente (è
proprio qui che passa la differenza con le categorie)”[73].
Le categorie non esauriscono tutti i predicati
dell’essere, come era chiaro allo stesso Aristotele. Non per nulla, nell’accennare all’evoluzione
storico-filosofica del concetto di trascendentale, Savarese inizia con
Aristotele, nel quale il concetto sarebbe già adombrato nonostante manchi un
termine equivalente; assente, del resto, anche nell’Angelico e frutto – il termine
– di elaborazioni della tarda Scolastica[74].
Le “proprietà trascendentali”
sono tradizionalmente: ens, unum, verum, bonum. L’uno, come realtà transcategoriale in
stretto rapporto con l’ente, si ritrova già in Aristotele. Successivamente furono aggiunti: res, aliquid. Non però il bello. I trascendentali o comunissima canonici,
pertinenti a tutti gli enti, rimarranno, sino al XIII secolo, i quattro
seguenti: “ente, uno, vero, buono”[75].
I trascendentali sembrano
riposare sul concetto dell’ente.
“L’ente, invece, è ciò che per
prima cosa l’intelletto concepisce come il più noto, e nel quale risolve tutti
i concetti, come dice Avicenna all’inizio della sua Metafisica. Perciò è necessario che tutti gli altri
concetti dell’intelletto siano appresi per aggiunta all’ente (De Ver., q.
1, a . 1,
co.)”[76].
Spiega Savarese: oltre ai “primi principi del ragionamento che
non richiedono dimostrazioni in quanto noti all’intelletto di per sé”,
occorrono anche “delle prime nozioni che riguardano la conoscenza delle cose”[77].
Ora, quali potranno essere queste “prime nozioni”? La prima in assoluto riguarda l’ente ossia
l’essere. Il “primum cognitum”, in un
certo senso addirittura notissimo, è l’essere in quanto essere, la cui
esistenza non abbisogna di dimostrazione.
(Al contrario, il pensiero moderno, annoto, con il dubbio metodico
cartesiano ha preteso una dimostrazione
anche di questa esistenza, facendo così erroneamente dipendere l’essere dal
pensiero, spingendosi ben al di là dell’identità parmenidea di essere e pensare).
Tornando a San Tommaso. Egli rinvia esplicitamente ad Avicenna. La citazione non è letterale. Credo che il
passo cui si riferisce sia il seguente: “Perciò,
il soggetto primo di questa scienza [la filosofia] è l’essere in quanto essere
[ens inquantum est ens] mentre le cose che in essa vanno ricercate sono
quelle che lo accompagnano in quanto è essere, senza condizione”[78].
Il termine ens, ente, come sappiamo traduce letteralmente il
greco on , lett.: essente, participio presente del verbo einai
(essere). Con esso si indica l’essere,
l’essere in quanto tale. Nell’uso, anche
da parte dell’Aquinate, il termine ente sembra indicare sia l’essere in
generale che il singolo ente, costituente una parte dell’essere; riferirsi
quindi sia al tutto che alla parte.
L’ente è dunque il primo
oggetto di conoscenza, l’ente in atto, evidentemente, non quello in potenza;
l’ente che si configura come atto di essere (actus essendi) e non
semplicemente come stato[79].
Però la conoscenza di questo primum non è di per sé
sufficiente. Continua Savarese:
“Ora, il primum cognitum è
l’ente, ma la sua nozione non include certo in sé tutte le altre nature; è
necessario quindi che qualcosa venga aggiunto all’ente, ma […] all’ente non può
essere aggiunto nulla di reale: si tratta
quindi di aggiunte di ragione, che esprimono dei modi dell’ente che non sono
inclusi nella sua nozione. Ecco quindi
le categorie da un lato e i trascendentali dall’altro”[80].
Questi ultimi riguardano sia “l’ente in se stesso” che “la relazione di
un ente con un altro”. Ai trascendentali
tradizionali, l’Angelico aggiunge la nozione di res, che riguarda l’ente
in se stesso, in quanto “abbia un’essenza” (mentre l’unum concerne la
sua unità di ente indiviso) e quella di aliquid (o moltitudo,
pluralità), che “aggiunge all’ente la nozione della relazione ad un altro ente,
in quanto sono divisi”[81].
Non dobbiamo addentrarci nelle
“varie tipologie di additio” accennate nel testo. Basti rilevare che in esse non compare il pulchrum. Per esso, dunque, “non vi sarebbe spazio
alcuno”[82].
Il problema è affrontato con mano maestra nell’ultimo capitolo
dell’opera, il più difficile, dovendo esso, come ormai sappiamo, ricostruire un
concetto che si presenta in modo elusivo.
Dopo aver brevemente ricordato le posizioni pro
o contro degli studiosi recenti più importanti sul tema, Savarese sviluppa il
“confronto con il bonum”, vale a dire il raffronto tra il bene inteso
come effettivo trascendentale e il pulchrum quale possibile trascendentale[83]. Il criterio del raffronto, che
ad un certo momento si occupa anche del rapporto tra il pulchrum e il verum,
e che riassumo in alcuni suoi tratti essenziali, è il seguente: “come emergerà dall’analisi dei testi, la
trascendentalità del pulchrum acquista consistenza soprattutto se la sua
ratio non è totalmente ricompresa nel bonum”[84].
Se, in altre parole, quale predicato trascendentale dell’essere in atto,
il pulchrum dimostra una ragion d’essere sua autonoma ed
indipendente, anche se solo parzialmente autonoma, in quanto sempre connessa al
bonum.
Nei testi si nota “la frequenza
con cui, sulla scia della tradizione, pulchrum e bonum compaiono
insieme”, fin dall’opera giovanile di Commento alle Sentenze di Pietro
Lombardo: “Così, secondo Dionigi, bello
e bene conseguono l’uno all’altro [se consequuntur]. Perciò sembra che tutte le cose desiderano il
bello e il bene [omnia pulchrum et bonum appetunt]…(Super Sent., I,
d. 31, q. 2, a .
1 arg. 4)”. Per cui: “la bellezza non ha natura di appetibile se
non in quanto riveste natura di bene: così, infatti, anche il vero è anche appetibile…(Super
Sent., I, d. 31, q. 2, a .
1, ad 4)”[85].
Il bene e il bello “si
conseguono”, dunque. Essi sembrano
implicarsi a vicenda, caratteristica dei trascendentali, i quali sono anche,
per così dire, intercambiabili, sottolinea Savarese: “dicendo che un ente è in realtà si
sta già dicendo che è uno, vero, etc.”[86].
Del resto, chi tende al bene, tende anche ipso facto al bello e chi
tende al bello, come può prescindere dal bene?
Nel De Veritate, l’Angelico insegna: “per il fatto stesso che qualcosa tende al
bene, tende insieme anche al bello e alla pace:
senza dubbio al bello, in quanto è modificato e specificato in se
stesso, cosa che è inclusa nella nozione di bene; ma il bene aggiunge l’ordine
di ciò che perfeziona verso le altre cose [sed bonum addit ordinem
perfectivi ad alia]. Perciò,
chiunque tende al bene, tende per ciò
stesso al bello (De Ver., q. 22, a . 1, ad 12)”[87]. Qui, osserva Savarese, “il bonum è
logicamente più esteso del pulchrum”, il bene e iI bello hanno una ratio
diversa, pur non essendo nello stesso tempo diversi: ciò implica che la ratio del pulchrum
“è inclusa in quella del bonum”.
Difatti, “è il bene che aggiunge al bello l’ordine (l’ordo: il riferimento, l’esser finalizzato a) proprio
di ciò che perfeziona (perfectivi) verso altre cose (alia): il bene è infatti ciò che porta a perfezione,
a compimento, ciò che si riferisce ad esso; non altrettanto si può dire del bello”[88].
Il bene possiede dunque la
capacità di “perfezionare” ciò cui si riferisce, portandolo a compimento in
senso positivo, buono. Questa capacità
fa vedere l’esistenza di un ordine (umano-divino) e dell’esser ordinato a un
fine, che non può esser quello meramente individuale (siamo, in quanto
individui, anche inclini al male) ma deve esser quello stabilito da Dio
creatore, le cui leggi reggono sia il mondo fisico che quello morale.
Nella fase iniziale della sua
speculazione, l’Aquinate concepisce dunque il pulchrum quale realtà (valore, diremmo noi)
subordinata al bene: esso è desiderato
solo in quanto buono, cosa che vale anche per il vero. La ratio del bello appare pertanto inclusa in quella
del bene. In effetti, mi chiedo: potrebbe la ratio del bello esser
inclusa in quella del male? Non
potrebbe. Ma non esiste, forse, la
bellezza che seduce e rovina? Esiste,
bisogna però chiedersi che tipo di bello essa rappresenti, visto che
opera soprattutto come fascino esteriore, il quale, depurato delle
trasfigurazioni che lo ingentiliscono (“Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore/ ne
gli occhi miei sí subito apparisti…), fa leva sul fòmite della concupiscenza o comunque
sulle nostre passioni. Il bello della bellezza
cattiva è quello che trasluce in un gioco di essere e parere che affligge
mortalmente l’anima di chi lo subisce, invano sperando che sia vera la promessa di felicità, e quindi di bene, adombrata da
quella bellezza. La connessione
ricercata sia dalla metafisica classica (Platone) che da quella cristiana tra
il bello e il bene, può sembrarci oggi astratta e utopistica. Tuttavia, non lo è affatto se solo riflettiamo
a quanto sia decaduto il nostro gusto e il nostro costume, una volta separata
l’idea del bello dall’idea del bene e da ogni trascendenza. E in Italia ma anche in assoluto, la poesia
non ha raggiunto uno dei livelli più alti
proprio con un poeta come Dante, che ha trasfuso in queste categorie
dello spirito il soffio potente della sua arte, posseduto com’era da una
visione trascendente, per non dire trascendentale, dei valori estetici?
Ma torniamo a san Tommaso. Nel Commento ai Nomi Divini e nella Summa, cioè nella fase più
matura del suo pensiero, la sua prospettiva in parte muta. Ora è il bello che
sembra aggiungere qualcosa al bene. Il
concetto del bello acquista una sua autonomia[89].
Dall’analisi condotta sempre con
assoluta padronanza dei difficili testi dell’Aquinate, che non posso seguire
qui nei dettagli, risulta che, in relazione all’idea della perfezione,
coinvolgente sia il bene che il bello, sembra che “quest’ultimo abbia un rapporto
diretto con essa”, senza cioè aver bisogno della mediazione del bonum[90].
Infatti, spiega l’Angelico, “il bello e il buono sono certamente
identici nel soggetto, poiché si fondano sulla stessa cosa, cioè sulla forma, e
perciò il bene si loda come bello. Ma sono diversi quanto alla nozione [ratione]”. E perché sono diversi? Questo testo l’abbiamo già visto
nell’analisi del bello come delectatio
individuale (vedi supra) ma ora ci interessa da un altro punto di
vista. Sono diversi perché “il bene
riguarda propriamente l’appetito”, essendo costituito dall’oggetto del nostro
desiderio. Esso ha quindi “natura di
fine”. Invece il bello “riguarda la
facoltà conoscitiva” dato che, come sappiamo, “si dicono belle le cose che
viste piacciono”. Perciò il bello consta
di una “debita proporzione”, ossia delle “cose debitamente proporzionate come
delle cose simili a sé”. E siccome: “la conoscenza avviene per assimilazione
mentre la somiglianza riguarda la forma, il bello pertiene propriamente alla
nozione di causa formale (S. Th., I, q. 5, a . 4, ad 1)[91].
Dunque, è l’idea della forma che
fa “coincidere” il bene e il bello nel medesimo soggetto. Forma, in che senso? Penso si debba intendere nel senso della sua
“attualità”, dell’attuarsi dell’essere secondo la “perfezione della cosa” (entelécheia),
giusta la “proporzione” intrinseca ad essa[92].
La “proportio” intrinseca al bello non si ritrova anche nel bene e nella
verità? Dove allora la differenza? Nell’applicazione del principio di
causalità. Il bene, essendo oggetto
dell’appetito, viene a costituire il fine delle nostre azioni, a
disporsi quindi per noi come causa finale delle stesse (il fine cui
aspiriamo – respice finem – provoca come suo effetto la nostra azione,
volta a conseguirlo). Invece al bello va
applicata la nozione di causa formale.
“Inoltre, la causa formale, che è una causa intrinseca, a differenza
della causa finale che è estrinseca [perché esterna al soggetto agente-NdR],
indica non più la meta verso la quale tende l’agente (causa finale), ma la
forma stessa che (nel caso degli enti sensibili) attualizza la materia e le dà
il suo proprio grado di perfezione”. Infatti,
“L’appropriazione [dell’oggetto-NdR] che si ha nel bello è solo di carattere intellettuale”,
come sappiamo, consistendo in un disinteressato godimento della sua intrinseca
bellezza, armonia[93].
Non così quella che si ha nell’apprendere il bonum, tripartito
dall’Aquinate nelle tre specie tradizionali dello honestum, utile,
delectabile (S. Th., I, q. 5, a . 6), tutte modalità di ciò che da diversi
punti di vista consideriamo un bene. Esse
implicano un’azione diretta per esser conseguite, non la semplice visio.
Anche il bello conferisce un
ordine alla facoltà conoscitiva, che non è lo stesso attribuitole dal
bene. Nel passo di S. Th., I-II,
q. 27, a .
1, ad 3 già visto, l’Angelico afferma che a sua volta il pulchrum
“aggiunge sopra il bene, cioè è un certo ordine alla facoltà conoscitiva”, che
è l’ordine della conoscenza delle cose sensibili, quali “le cose visibili” e “i
suoni”. Pertanto, mentre nel caso del
bene diciamo “bene ciò che semplicemente
compiace l’appetito”, nel caso del bello, diciamo bello “ciò la cui apprensione
stessa piace”. Questa è per l’appunto l’aggiunta
alla nostra “facoltà conoscitiva”,
provocata dalla percezione del pulchrum:
esso ci piace per il solo fatto di “apprenderlo” non perché sia per noi
quel bene che il nostro desiderio stava cercando. Si potrebbe dire, osservo, che l’aggiunta
apportata al nostro modo di conoscere – messa ottimamente in rilievo da
Savarese – consista proprio nel permetterci il godimento estetico nella sua
purezza, fondando quindi il nostro giudizio estetico: esso riposa su di
una diversa relazione con l’idea della causa, nel senso di esser improntato all’idea
della causa formale.
Pertanto, se la forma fa
coincidere il bene e il bello, la causalità li separa, nel senso che viene a
costituire una ratio o ragion d’essere diversa per entrambi. Ciò tuttavia non altera la loro reciproca
correlazione. In conclusione: pur nella loro ontologica complementarità, sono
due diversi modi d’essere dell’essere, per l’appunto due diversi trascendentali.
Paolo Pasqualucci
[1] Ricordo, tra gli altri: Hans Sedlmayr, La
morte della luce. L’arte nell’epoca della secolarizzazione, tr. it. di
Marola Guarducci, Introduzione di Quirino Principe, Rusconi, Milano, 1970. Nell’Ottocento ad un certo punto la luce
scomparve dal colore: “a cominciare dall’epoca di Cézanne, la luce viene inghiottita
dal colore, al quale ora passano la dignità, la forza e la potenza della luce
[…] Il colore diviene ora il surrogato
della luce , anzi della luce interiore” (op. cit., pp. 26-27). Si veda anche tutto il capitolo dedicato alla
“secolarizzazione dell’Inferno” nelle arti figurative (ivi, pp. 33-58). Sulla decadenza dei costumi dell’Occidente
nell’ambito di un vero e proprio “tramonto dei valori tradizionali”, dovuto
anche al diffondersi dell’irreligiosità di massa, resta esemplare l’analisi di
Augusto Del Noce, in contrapposizione al filosofo Ugo Spirito: Tramonto o
eclissi dei valori tradizionali? In:
Ugo Spirito-Augusto Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori
tradizionali?, Rusconi, Milano, 19725, pp. 61-313.
[2] La terminologia è del critico francese Jean Clair, L’hiver de la culture,
Flammarion, Skira 2011, che ho trovato citato sul Corriere della Sera di
qualche anno fa. L’autorevole
trimestrale francese Catholica, a quanto ne so, è l’unico che si sia
occupato in modo sistematico (con numerosi e puntuali articoli) della presente
decadenza delle arti, dalla letteratura alle arti figurative alla musica, anche
in relazione allo scadimento impressionante della Liturgia cattolica.
[3] Miriam Savarese, La nozione trascendentale di bello in Tommaso D’Aquino,
con Presentazione di Alberto Strumia e Prefazione di Giovanni Ventimiglia,
Studi e Strumenti SISRI, EDUSC, Roma, 2014, pp. 240.
[4] Miriam Savarese, op. cit., pp. 18-19.
[5] Op. cit., pp. 21-24. Superiorità già teorizzata, ricordo, dal
pensiero greco e in particolare da Platone, quando scriveva che Socrate, basso
di statura e dall’espressione plebea, era reso comunque bello dalla sua
bellezza interiore, dallo splendore della sua anima (sul punto: Max Pohlenz, L’uomo
greco, 1947, 1974, tr. it. B. Proto, La Nuova Italia, rist. nella collana Il
Pensiero occidentale di Bompiani, con un saggio introduttivo di G. Reale, bibliografia
e indici di G. Girgenti, Milano, 2006/2014, pp. 500-502).
[6] Op. cit., p. 26.
[7] Op. cit., pp. 27-28.
[8] Op. cit., pp. 42-57; p. 54.
[9] Op. cit., pp. 57-58. Corsivi di Savarese. L’Autrice
riporta quasi sempre in nota il testo originale latino dei passi tomistici
citati e tradotti. “Nam ad
pulchritudinem tria requiruntur.
Primo quidem, integritas sive perfectio, quae enim diminuta sunt,
hoc ipso turpia sunt. Et debita
proportio sive consonantia. Et iterum claritas, unde quae habent colorem nitidum, pulchra
esse dicuntur”.
[10] Op. cit., p. 49.
[11] Endymion, in: The
Works of John Keats, with an Introduction and Bibliography, The Wordsworth
Poetry Library, Ware, 1994, p. 57. Keats, nato nel 1795, morì di tubercolosi a Roma,
nel 1821, nella casa ora sede della Fondazione Keats-Shelley, a fianco della
scalinata di Piazza di Spagna. Libera mia versione di questi intraducibili
versi: “Una cosa bella è gioia
sempiterna/ Il suo incanto s’accresce/ Giammai
svanirà nel nulla….”.
[12] Sul tema vale sempre il classico lavoro di P. Cornelio Fabro, La nozione
metafisica di Partecipazione, secondo San Tommaso d’Aquino, in: ID., Opere Complete, 3, a cura di Christian
Ferraro, EDIVI, Segni, 2005, specialmente la Parte Terza, pp. 261-324.
[13] Savarese, op. cit., p. 51, per tutte quest’ultime
citazioni.
[14] Op. cit., p. 54.
[15] Op. cit., p. 53.
[16] Op. cit., pp. 56-57. Corsivi nel testo. I corsivi sono sempre del
traduttore.
[17] Op. cit., p. 59.
Il passo della Summa è: IIa-IIae,
q. 145, a .
2, co. Corsivi nel testo. Ho leggermente
modificato la traduzione italiana in un punto.
[19] Op. cit., p. 64.
[20] Op. cit., ivi.
[21] Op. cit., ivi.
[22] Op. cit., ivi.
[23] Op. cit., p. 65.
[24] Op. cit., pp. 66-67.
[26] Op. cit., pp. 68-69.
[27] Op. cit., p. 70.
[28] Op.cit., p. 81.
[29] Op. cit., p. 72.
[30] Op. cit., pp. 72-73.
[31] Op. cit., pp. 73-74.
[32] Il sole è un globo di materia fluida, molto calda, ionizzata e
magnetizzata. Si ritiene che sia composto
di idrogeno (92%), elio (8%), elementi pesanti (0,1%). Vedi: Ester Antoniucci, Dentro
il sole, il Mulino, Bologna, 2014, p. 16.
[33] Op. cit., p. 75.
[34] Op. cit., p. 76.
[36] Op. cit., pp. 76-81.
[37] Mt 6, 22.
Traduz. it. in La Sacra Bibbia, a cura della CEI, Edizioni
Paoline, 1963; e in: La Sacra Bibbia,
annotata da Giuseppe Ricciotti, Salani, Firenze, 1954. Vulgata-Clementina, ediz. BAC, 1965: “Lucerna corporis tui est oculus tuus. Si oculus tuus fuerit
simplex: totum corpus tuum lucidum
erit. Si autem oculus tuus fuerit
nequam: totum corpus tuum tenebrosum
erit. Si ergo lumen, quod in te est, tenebrae sunt: ipsae tenebrae quantae erunt?”.
[38] Savarese, op. cit., p. 81.
[39] 1 Tm 6, 15-16.
Vulgata-Clementina: “Rex regum,
et Dominus dominantium: qui solus habet immortalitatem et lucem inhabitat
inaccessibilem: quem nullus hominum
vidit, sed nec videre potest”. La luce
al di là della quale o nella quale “inabita” Dio Altissimo, lo nasconde (Deus
absconditus) al creato, ma non gli nasconde di certo il creato. L’inaccessibilità
di Dio nella sua luce, viene resa poeticamente da Dante nel XXVIII canto del Paradiso,
allorché rappresenta Dio da lontano circondato dai nove cori angelici: “un punto vidi che raggiava lume/acuto sì,
che ‘l viso ch’elli affoca/chiuder conviensi per lo forte lume” (vv. 16-18, La
Divina Commedia, ediz. commentata da G. L. Passerini, Sansoni, 1922, rist.
anast. Sansoni, Firenze, 1988).
[40] Savarese, op. cit., p. 84. Corsivi nel testo.
[41] Op. cit., p. 85.
[42] Op. cit., ivi.
[43] Op. cit., p. 86.
[44] Op. cit., p. 87.
[46] Op.cit., ivi.
[48] Savarese, op. cit., pp. 89-90. La citazione nella citazione è di E. De
Bruyne, eminente studioso novecentesco dell’estetica medievale, più volte
richiamato da Savarese. Pancalía: la bellezza del tutto, nel senso che tutto
ciò che Dio ha creato è bello.
[63] Op. cit., p. 150. È la traduzione di Gentile e Lombardo-Radice, sez. VII
dell’Introduzione. In nota Savarese riporta anche l’ottima spiegazione del triplice significato del
termine data a suo tempo da Sofia Vanni Rovighi (op. cit., pp. 151-152).
[64] I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET,
Torino, 1967, p. 50. Si noti: non dell’esistenza delle cose in sé ma “in
quanto fenomeni”cioè come appaiono a noi che le inquadriamo nelle nostre
categorie mentali. Uno dei passi che
sembrava negare la realtà dello spazio era il seguente: “lo spazio è
semplicemente la forma dell’intuizione esterna, non quindi un oggetto reale, suscettibile
di esser intuito esternamente; come non è un termine correlativo ai fenomeni,
bensì la forma dei fenomeni stessi” (Kant, op. cit., p. 371). Per una recente critica del concetto kantiano
dello spazio e dell’impianto trascendentale della sua teoria della conoscenza,
mi sia consentito rinviare a: Paolo Pasqualucci,
Metafisica del Soggetto II - “Il concetto dello spazio”, Giuffré, Milano,
2015, capp. 2-4, pp. 103-193.
[65] I. Kant, Prolegomena zu einer künftigen Metaphysik die als Wissenschaft
wird auftreten können, hrsg. von K. Vorländer, 1905, rist. Meiner, Hamburg,
1970, p. 47.
[66] Savarese, op. cit., p. 150 nota n. 2, per la critica kantiana alla
concezione della Scolastica.
[68] Op. cit.,
ivi. Anche qui, ci ricorda l’Autrice, Kant ha scavato il solco della sua
concezione dualistica del conoscere e del vero, concependo il trascendente,
e in sostanza Dio, in quanto realtà sottratta all’esperienza, in modo tale da
non consentire alla ragione di poter dir nulla su di Lui (op. cit., ivi). Nel
parlar corrente si usa l’espressione “difficoltà trascendentale” ossia del più
alto grado e Franz Liszt compose i suoi famosi dodici Studi trascendentali o
di esecuzione trascendentale, per indicare le difficoltà vertiginose che
attendevano il pianista.
[69] Aristotele, Categorie, in ID., Organon, a cura di Giorgio
Colli, Einaudi 1955, rist. Adelphi, Milano, 2001, pp. 5-53; p. 7. Corsivi miei.
Per l’originale: Aristotelis
categoriae et liber de interpretatione, rec. L. Minio-Paluello, Oxford,
1949, rist. 1989, 1b, 4.
[71] Savarese, op. cit., p. 152, per il tomistico modus
essendi.
[78] Avicenna, Metafisica, con testo arabo e latino, a cura di Olga
Lizzini e Pasquale Porro, Bompiani, Il pensiero occidentale, 2002, p. 37
(Trattato Primo, sezione seconda, [13]).
[79] Sul punto, e sul complesso concetto tomista
dell’essere come essere in atto, atto di essere, sempre valido mi
semba: Étienne Gilson, Le thomisme. Introduction
à la philosophie de Saint Thomas d’Aquin, Paris,
Vrin, 1944, pp. 50-52.
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