La rivista di propaganda “alleata” del tempo di guerra Il Mese
(n. 21, settembre 1945, pp. 310-319) riportava, condensato da The Saturday Evening Post di Filadelfia,
un importante articolo dell’economista
americano P.F. Drucker, dal titolo “Stipendi e paghe nell’URSS”, che contiene informazioni interessanti e
attendibili, dato che l’indirizzo
della rivista era ovviamente quello di elevare peana ai paesi vincitori, oltre
che di insultare quelli sconfitti e imbottirli di menzogne.
Nel “paradiso dei lavoratori” il divario di paghe e stipendi fra dirigenti e
operai era molto più forte che
negli USA, e addirittura ancora più forte di quanto non fosse nella Russia zarista. Negli anni
antecedenti alla seconda guerra mondiale un operaio sovietico “lavorante a catena” [di
montaggio, si spera] era pagato 125 rubli al mese (circa 50 dollari), ossia
1500 rubli all’anno, ma i
dirigenti sovietici dell’azienda
(direttore, ingegnere capo, amministratore generale, direttore di produzione)
ricevevano fra i 24.000 e i 36.000 rubli annui se la produzione dell’officina era buona.
[Ossia se aveva raggiunto o superato le quote stabilite dal piano; se
poi la merce prodotta serviva davvero, quella era un’altra questione. Una barzelletta corrente era
che un’azienda era
stata premiata per aver superato di gran lunga le quote di produzione ma, andando
a vedere cosa produceva, veniva fuori che fabbricava cartelli con la scritta “Non funziona”.]
Nello stesso periodo di tempo
un operaio americano non qualificato riceveva in media 1200 dollari l’anno e il suo direttore d’officina o ingegnere capo era pagato fra i
10.000 e i 15.000 dollari. Ciò significa
che i tecnici dirigenti nelle industrie guadagnavano nell’URSS da quindici a venti volte quanto era pagato
a un lavoratore non qualificato e negli Stati Uniti da otto a dieci volte
tanto. La differenza di salario tra un dirigente tecnico e un operaio era il
doppio nell’URSS rispetto agli USA. In tale paese le imposte sul reddito gravavano
assai sul bilancio di un dirigente industriale: su un introito di 15.000
dollari l’imposta
poteva essere del 30%.
Nell’URSS i dirigenti di officine o erano esenti da
tasse o ne erano colpiti assai leggermente: l’aliquota più alta era del 10% e la maggior parte dei direttori e degli ingegneri
industriali non la pagava; infatti era raro che un cittadino sovietico potesse
occupare un incarico direttivo se non aveva meritato almeno una delle molte
decorazioni e onorificenze esistenti, ognuna delle quali comportava esenzione
parziale o totale dalle tasse.
Si aggiunga che, più ancora dello stipendio, contava il fatto che i
proventi di un dirigente industriale sovietico consisteva in premi in denaro e
ricompense in beni e servizi, spesso di tale valore che nessuna somma in denaro
avrebbe potuto procurarli in un paese di così scarse disponibilità; poteva ad
esempio ricevere una casa appositamente costruita, e i sui figli godevano di un
monopolio pressoché totale
dell’accesso all’istruzione superiore.
Privilegi analoghi e talora
ancora maggiori potevano toccare ai dirigenti statali, ai più eminenti professionisti e agli artisti. Già nel 1938 oltre metà degli studenti universitari era composta da
figli di dirigenti industriali o statali e meno del 10% proveniva da aziende
agricole, benché gli
agricoltori costituissero ancora oltre il 50% della popolazione sovietica. Nel
1940 erano state introdotte tasse scolastiche per le università, allo scopo dichiarato di sbarrare la strada ai
ceti operai perché i loro
figli non accedano a professioni da “colletti bianchi”.
Dopo l’attacco tedesco all’URSS il divario si accrebbe ulteriormente: un
dirigente industriale che nel 1938 guadagnava 1.500 rubli al mese, nel 1945 ne
guadagnava 10.000 o più, e
riceveva premi in denaro ancora più sostanziosi, i “Premi
Stalin” di 50.000,
100.000, 150.000 rubli. Al contrario, i divari salariali negli USA si erano
ridotti per i forti aumenti agli operai. Sebbene il denaro in URSS contasse
poco, essendovi poco o nulla da comprare, questi confronti sono altamente
significativi.
Essi infatti svelano la vera
natura dell’ideologia
comunista. Ecco perché la cosiddetta
“rivoluzione di ottobre” non fu affatto un movimento operaio, ma un
colpo di stato militare; ecco perché, durante la guerra civile, come testimonia anche Boris Pasternak ne Il dottor Zivago, gli operai
parteggiarono per i bianchi o addirittura si arruolarono negli eserciti
bianchi, mentre i proprietari di aziende sostennero i rossi: per loro si
prospettava infatti la possibilità di scambiare il rischio imprenditoriale con la più tranquilla posizione di funzionari statali
aventi l’unica
preoccupazione di consegnare le quantità di prodotto richieste dai piani.
I privilegi
della Nomenklatura, così
efficacemente descritti da M.S. Voslensky
(1984, Nomenklatura: la classe dominante
in Unione Sovietica, Milano, Longanesi, 2ª ed., trad. d. tedesco) nei paesi afflitti dal comunismo iniziano
dunque fin dai primordi del dominio degli sciagurati rivoluzionari di
professione. Questo dunque è sempre
stato il comunismo: un comodo sistema di occupazione di posti privilegiati e di
sfruttamento ai danni dei più deboli da
parte di una scaltra e spietata banda di parassiti di regime.
A questo
precisamente aspiravano anche i rivoluzionari nostrani, gli striscianti
blateratori dei salotti buoni e delle televisioni okkupate e avvelenate, i kani
da guardia delle kase editrici blindate, i mirakolati improvvisamente
konvertiti dal fascismo al verbo komunista, i kapò della kontestazione sessantottarda, tutti
quelli che hanno intossikato l’Italia e
continuano a intossikarla. È sempre la
stessa identica storia, perché il diavolo
è monotono.
EMILIO BIAGINI
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