Il trattato cataro sui due principi, scoperto per
caso nella Biblioteca Nazionale di Firenze dall’erudito domenicano Antoine
Dondaine e pubblicato nel 1939 , offre, insieme con la magistrale e tuttora
insuperata storia dell’eresia albigese, scritta da Jean-Baptiste Guiraud , l’opportunità di compiere una strabiliante
escursione, nel futuro prossimo e nel passato remoto dell’ideologia
rivoluzionaria .
Lo scrupoloso esame della dottrina catara e delle
sue (evidenti) radici gnostiche e manichee , infatti, costringe chiunque a riconoscere la
singolare somiglianza dell’eresia medievale con le furenti elucubrazioni dei
nichilisti, che hanno prodotto il bizzarro mosaico delle utopie anarchiche
proliferanti sulle macerie della modernità .
Il primo tassello di questo tortuoso ed oscuro
mosaico, che si potrebbe intitolare Catalogo delle affinità imbarazzanti,
è il rovente disprezzo (d’ispirazione esoterica) dichiarato dai catari nei
confronti del Dio creatore, che si è rivelato ad Abramo e alla sua discendenza .
Il rifiuto e la denigrazione dell’Antico Testamento
e l’odio implacabile verso gli ebrei, infatti, costituisce il capitolo più
cospicuo del risveglio gnostico (marcionita) e cataro, che fa infuriare i due
versanti del vertice speculativo della modernità: la contraffatta destra neopagana (dove
circolano imperterrite le tesi di Nietzsche sul bonus-duonus, le fantasticherie
di von Harnack sul cristianesimo tedesco e le sublimi imposture di Simone Weil
sul dio alieno e sul cristianesimo puro) e la sinistra postmoderna (dove
imperversa la lettura apocalittica di Marx e di Freud, i maestri del sospetto,
e di Heidegger, il teorico della gettità).
Per misurare la temperatura della bruciante febbre
neognostica e neocatara, che costituisce il sintomo della crisi contemporanea,
è sufficiente rileggere una pagina scritta da Nietzsche nella cruciale estate
del 1887: “Credo mi sia consentito
interpretare il latino bonus come il guerriero, posto che a buon diritto
riconduco bonus ad un più antico duonus (confronta bellum=deullum=duenlum,
in cui mi sembra sia conservato quel duonus).
Bonus, quindi, come uomo della disputa, della disunione (duo),
come guerriero: si vede quel che
nell’antica Roma costituiva in un uomo la sua bontà”.
In quesa insalata di parole, l’irritabilità, senza
dubbio connessa alla schizofrenia incipiente se non già esplosa, traduce
l’accesa e incontrollata fantasia del filologo e la trascina al bordo del
delirio assoluto, che farà risuonare le filastrocche gnostiche dei postmoderni
(si pensi a certe pagine mistiche di Zolla) e dove si esalta come buono
lo stato aggressivo e scismatico del drogato e/o dell’invasato, detto appunto duonus . È
impossibile tuttavia negare l’appartenenza del saggio scritto nel 1887 a quell’ultima e
definitiva fase del pensiero di Nietzsche, che è intitolata alla regressione
dionisiaca e alla sana barbarie.
Ora il contenuto della dissertazione sulla
genealogia della morale dimostra, senza lasciare ombra di dubbio, la legittimità
dell’interpretazione di Lukács (felicemente speculare a quella di Elisabetta
Foster-Nietzsche e di Baumler), che indicava nella filosofia zoologica di
Nietzsche la fonte della mitologia neopagana intorno all’intrinseca superiorità
dei biondi ariani, preambolo del nazismo.
L’argomento filologico, sfoderato nella prima dissertazione sulla
genealogia della morale, toglie qualunque sostegno alle tesi degli studiosi di
scuola heideggeriana e/o francofortese, che, dal 1945 ad oggi, hanno tentato la
riabilitazione di Nietzsche e la sua iscrizione nel partito del politicamente
corretto: “In latino, malus, (al
quale metto accanto mela) potrebbe essere designato l’uomo volgare, in quanto
individuo dal colore scuro, soprattutto nero di capelli, l’autoctono preariano
del suolo italico, che per il colore della sua pelle si distaccava, con la
massima evidenza, dalla bionda razza dominante”. La conclusione di Nietzsche è terrificante: poiché
la morale dei mali ha soppiantato la morale dei duoni, “oggi non esiste forse alcun segno più determinante della natura
superiore, della natura più spirituale, che essere scissi…ed essere ancora
realmente un campo di battaglia per quelle antitesi. Il simbolo di questa lotta, espresso in
caratteri che sono restati sino ad oggi leggibili al disopra di tutta la storia
degli uomini è Roma contro Giudea, Giudea contro Roma”.
A questo punto,
Nietzsche suggerisce una lucida definizione dell’umanità riscattata dal Dio
d’Israele (“buono è chiunque non usa violenza, non reca danno a nessuno, non
aggredisce, non fa rappresaglie, rimette a Dio la vendetta, fugge ogni
malvagità, pretende poche cose dalla vita”) ma la usa per avvolgerla nel
sospetto e oltraggiarla bestialmente, appiattendo lo splendore della bontà nell’impotenza
e nell’ipocrisia: “Noi deboli siamo
decisamente deboli: è bene che non
facciamo alcuna cosa per la quale non si è forti abbastanza, ma questo crudo
stato di fatto, questa prudenza d’infimo rango, che posseggono perfino gli
insetti, grazie a quell’arte da falsari e quella mendacità dinanzi a se stessi
che è propria dell’impotenza, si dà il pomposo travestimento della virtù
rinunciataria”. Per sfuggire ad un tale
appiattimento non rimane altro che quell’imitazione delle virtù ariane che il Novecento
ha conosciuto a perfezione.
Simone Weil, un’autrice empiamente
pia e
perciò buona per il lato destro e per quello sinistro della catastrofe moderna,
professava apertamente il disprezzo per il Dio dell’Antico Testamento: “Non sono mai riuscita a capire come uno
spirito ragionevole possa considerare lo Yaweh della Bibbia e il Padre invocato
nell’Evangelo come un solo e medesimo
essere” .
Gli spiritualisti
disgregati e i comunitari solidali, che imperversano nei salotti televisi, dove
si va in estasi fiutando e delibando il Sublime generosamente spruzzato negli
scritti di Simone Weil, evidentemente giudicano trascurabile il fatto che la
dichiarazione appena citata rinvia alla teoria dei catari, secondo cui Abramo,
Isacco, Giacobbe e Mosè sono figure diaboliche ed emissari del deus iniquus. Di conseguenza è lecito affermare che gli
spiritualisti e i comunitari in carriera assolvono (si osa sperare
inconsapevolmente) il vero ed unico preambolo dell’antisemitismo di sinistra e
di destra .
All’inversone catara (e
postmoderna) della pietà religiosa è inoltre associata una feroce inimicizia
verso il creato: l’odio cataro (in
questo variamente imitato dal vivere per la morte dei nazisti e dalla
contestazione dell’esistente dei sessantottini) s’indirizzava entusiasticamente
contro
la procreazione, detestata perché conseguenza e allegoria della creazione, e
perciò giustificava e raccomandava, alla stregua delle ascesi mistiche, la
sterilità volontaria nei rapporti coniugali, l’aborto procurato, l’infanticidio
e le pratiche sessuali contro natura.
Francesco Zambon, un
autore adelphiano, che non può essere sospettato d’intransigenza, ha dimostrato
che, per i catari, l’uomo “creato in parte da Dio, in parte da Satana,
miscuglio di bontà e di malignità, di verità e falsità, di essere e nulla”, è
incapace di sciogliere il nodo di contraddizioni che lo soffoca: “Per sfuggire a questa condizione, cui lo
condanna la dimora in un corpo materiale, egli dovrà perciò distruggersi, troncare
il nodo perverso di spirito e di carne che lo costituisce” .
Si può pertanto
affermare, senza tema di smentita, che nell’orizzonte visionario dei catari era
proiettato l’insano desiderio di devastare la società tradizionale mediante
l’alterazione della sua cellula essenziale, e in ultima analisi, di causare l’uscita dal
mondo e
l’estinzione definitiva del genere umano.
Nella sua opera ultima, il defunto professore Elémire Zolla, un
intellettuale di sinistra, che ha esplorato (beandosene) il sottosuolo
ereticale e trasgressivo dell’ideologia moderna, disegna il profilo
dell’autentica religione mortuaria, misticamente intenta alla distruzione del
mondo: una cultura che attribuisce al
suicida la dignità del martire. Con il
fine palese di trascinare la tradizione cattolica nella fossa dei serpenti del
masochismo, Zolla sosteneva che “l’accettazione della sofferenza inaudita
propria del martirio equivale a un suicidio.
Il martire è un suicida per mano
di estraneo, anzi del massimo nemico” .
Ora, il fondamento di
questa morbosa passione per il sarcofago è la identificazione (ricorrente
nell’eresia gnostica e in quella catara) della beatitudine con lo zero
metafisico. Con sfoggio scodinzolante e
grottesco della su accademica solennità, Zolla scriveva: “All’origine, se vogliamo, si parte da un
atto di mistica impeccabile, l’incontro tra il baratro Bythós e il silenzio
assoluto Sighé. L’ammutolimento dinanzi
al precipizio è tutto ciò che sia lecito dire dell’inizio perfettissimo. In seguito comincia l’allontanamento da
questa perfezione: allo spirito si
aggiunge la psiche e la materia, demiurgo di questa creazione scellerata e
rimescolante è Jalda baoth…Lo gnostico interpreta gli eventi come ritorni
infiniti della cosmologia precedente” .
Va da sé che la passione
mortifera, effusa dall’eresia catara nel Medioevo ed ora nel Postmoderno, non
giustifica (a posteriori) gli eccessi dell’Inquisizione e tantomeno gli orrori
della crociata condotta scelleratamente da Simon de Monfort.
Occorre dunque riconoscere, senza riserve mentali e però senza bisogno
di tuffarsi nella rugiada ecumenica dei buonisti, che la delittuosa e mondana
spietatezza con cui Simon de Monfort represse i catari offende il sentimento
cristiano , giustifica la richiesta di perdono che a suo
tempo avanzò Giovanni Paolo II. Insieme
con l’orrore dei posteri per il massacro dei catari, lo storico onesto dovrebbe
però sforzarsi di uscire dalla gabbia neurologica, costituita dagli
anacronistici pregiudizi dell’illuminismo, e comprendere anche il motivato
sgomento e la giustificata indignazione, che colse la gerarchia cattolica e la
maggioranza dei fedeli quando in Europa si diffuse un’eresia fanatica e
spaventosa, che non si limitava a calunniare la creazione (attribuendola a
Satana) e ad oltraggiare i santi dell’Antico Testamento, ma raccomandava e
promoveva un’ascesi forsennata, intesa
nientemeno che al totale annichilimento della vita. Si dovrebbe infine comprendere che l’eresia
catara era giudicata più per il suo aspetto di crimine politico (di attentato
alla integrità e alla sopravvivenza delle nazioni cristiane) che per il suo
contenuto strettamente teologico.
Sui contenuti umbratili
della dottrina catara, i documenti d’epoca non lasciano dubbi. “La setta, l’eresia e gli smarriti seguaci
dei Manichei – scriveva nel XIII secolo Bernard Gui – riconoscono e confessano
due dèi o due signori, un Dio buono e un Dio malvagio. Affermano che la creazione di tutte le cose
visibili e materiali non è opera di Dio, il Padre celeste – quello che chiamano
Dio buono – ma è opera del diavolo e di Satana, il Dio malvagio: e lo chiamano infatti Dio maligno” .
Ora, la scissione della
divinità in due princìpi eterni e irriducibili, produce necessariamente una
disperante idea del destino universale, una visione che introduce il più cieco
determinismo. In uno dei trattati catari
raccolti nel Libro dei due princìpi, infatti, l’esistenza
del libero arbitrio è negata in forza di un ragionamento che attribuisce a Dio
l’intenzione di creare angeli malvagi:
“La necessità di essere demoni e l’impossibilità di non esserlo ha
preceduto l’esistenza degli angeli. Era
quindi assolutamente impossibile che essi non diventassero demoni e lo era
soprattutto dal punto di vista di Dio, nella cui mente è presente tutto ciò che
è stato, è e sarà…Ne consegue necessariamente che, dal punto di vista del Primo
Fattore, tutto avviene per necessità” .
E ancora più
chiaramente: “[Dio] scientemente e con
piena cognizione di causa ha creato i suoi angeli in una imperfezione tale per
cui, nella sua mente, era impossibile fin dall’eternità che non bramassero la
sua bellezza e grandezza. Perciò bisogna
concludere che gli angeli in questione non hanno ricevuto da Dio il libero
arbitrio, grazie al quale avrebbero potuto evitare completamente la brama” .
Alla luce del conclamato
fatalismo, non stupisce l’avvistamento,
nella costellazione catara, di un fondamentale mito che il pensiero moderno ha
tratto dalle antichità greche: l’eterno
ritorno dell’identico. Francesco Zambon,
infatti, cita un testo di Salvo Burci, dove, a proposito dei catari, si
dimostra che “affermano che quando le anime saranno ritornate in cielo e
saranno riunite nella resurrezione con i loro corpi e i loro spiriti, e quando
gli angeli del Dio malvagio, rimasti per combattere, saranno precipitati in
basso, incomincerà ancora una volta il combattimento. Adhuc incipietur proelium. Anche se il vero Dio sarà sempre vincitore,
nulla potrà mettere fine alla guerra eterna fra il bene e il male” .
Per sciogliere il nodo
della scandalosa anomalia, rappresentata dal regresso dell’avanguardia moderna
all’eresia medievale, è necessario rammentare che un atto della pura volontà,
incamminandosi verso il radioso ateismo, può facilmente immaginare un mondo
senza principio, mentre nel cammino della ragion atea s’incontrano scorbutiche
e insormontabili difficoltà. Ad esempio
l’impossibilità di far quadrare il principio d’immanenza con le leggi della
ragione codificate dal caparbio Aristotele, che aveva intravisto la verità del
teismo considerando la struttura contraddittoria e paradossale del mondo
descritto dagli atei.
Nessuno ha finora
escogitato una formula atta ad impedire che il mondo senza un saldo principio
deragli in quella confusa e angosciante fantasticheria, che ha il nome
(ultra-antico e perciò postmoderno) di eterna ripetizione dell’identico. Un’allucinazione, l’eterno ritorno, scaturita
dalla perfetta gratuità: in un frammento
del 1885, Nietzsche non esita a dichiarare che l’idea dell’eterno ritorno
costituisce il fondamento di un fideismo capovolto. A ben vedere il mito dell’eterno ritorno
perfeziona tutti gli ateismi moderni, sostituendo la causa prima con l’idea
illogica del circolo vizioso, circulus vitiosus deus.
Negli anni che
prepararono la catastrofe mentale del Sessantotto, Pierre Klossowski, studioso di
Nietzsche e coerente teorico dell’ateismo radicale, aveva, infatti, ammesso
senza riserve la refrattarietà della ragione all’ateismo, annunciando
l’inabissamento del ciclo antropocentrico nel delirio arcaicizzante intitolato
all’eterno ritorno e alla tragica risata di Nietzsche.
Klossowski ha annunciato
alla sparuta modernità, che la mitologia dell’eterno ritorno, ultimo guizzo del secolo
illuminato e catastrofica spiaggia dell’illusione antropocentrica, è “concepita
come un simulacro di dottrina il cui stesso carattere parodistico dà conto
dell’ilarità come attributo dell’esistenza sufficiente a se stessa”.
Se non che l’immotivata
ilarità dell’ateo radicale, lacera il tessuto dell’intelligenza ed è perciò
paragonata, da Klossowski, “all’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa
la salute, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe la
sera della battaglia che non ha deciso nulla” .
A questo punto
Klossowski, dopo aver citato Max Stirner (“ho fondato la mia causa sul niente”)
può concludere affermando che Dioniso, “figura suprema dell’incessantemente
possibile, libererà l’uomo dal suo attuale nichilismo”.
Il ciclo dell’ateismo
moderno, dunque, si conclude nel punto esatto in cui era finito l’ateismo
antico: nella pretesa, denunciata a
confutata da Aristotele nel IV libro della Metafisica, dove si attribuisce ad Anassagora la pretesa
di risolvere la questione intorno all’essere e al nulla mediante il discorso
intorno al possibile. Cercata a partire
dal rifiuto della causa prima, la liberazione progettata dai moderni è
naufragata nel mare delle insanabili contraddizioni dei presocratici e delle
tempeste sessantottine. Ora non c’è
dubbio che la teologia catara sia il perfetto contenitore delle contraddizioni
insolubili, che s’incontrano nel cammino del pensiero verso l’orizzonte
ateo.
L’ossessione del destino
e l’ostilità tassativa alla vita nella materia sono incompatibili con il
presupposto finalistico, che è indispensabile alla vera morale. È dunque lecito affermare che, prescindendo
dalle disposizioni interiori dei singoli praticanti, la religione catara è
strutturalmente inclinata all’immoralità.
Non a caso il
sentimentalismo cortese, che i romantici ammiravano nella tradizione
catara, proclamava l’illiceità di un rapporto fecondo tra coloro che avevano
contratto il vincolo sacro del matrimonio ma non condannava con uguale forza i
rapporti carnali sterili consumati fuori dal matrimonio. Evidentemente la sublimazione lirica
dell’amor sovrano non è altro che la maschera imbellettata dell’obituarismo,
che impazza nella società dell’eresia.
Scrive Guiraud: “La negazione della famiglia era la
conseguenza logica della loro concezione pessimistica del destino umano. Se infatti, come insegnavano, la vita era il
più grande dei mali, non bisognava accontentarsi di distruggerla in se stessi
col suicidio o col nirvana, occorreva ancor più guardarsi dal comunicarla a
nuovi esseri .
Nell’eresia catara si trovano pronte all’uso le
idee oggi costitutive del libero amore, dell’erotismo in tutte le direzioni,
dell’abortismo sacrificale e del feticismo per il preservativo. Ma l’elenco delle strane analogie non è
ancora completo: per motivi
esclusivamente propagandistici i Catari coniugavano il rigido disprezzo per la
vita con l’ostentazione del loro aspetto poveristico e delle loro opere
di misericordia corporale. Una perfetta
ipocrisia, dal momento che la loro teologia antivitale escludeva a priori la
solidarietà diretta al corpo creato dal dio iniquo. A questo proposito Guiraud, dopo aver citato
la testimonianza di san Domenico – “grazie alle loro ingannevoli apparenze di
povertà ed ai segni esteriori d’austerità persuadono i semplici” – sottolinea
che i perfetti o purissimi “si guadagnavano il popolo rendendogli i servizi che
meglio potevano conquistarlo” .
Nella teologia dualistica dei catari si trovano,
infine, gli elementi costitutivi della dottrina che attribuisce l’amore al secondo
dio – al dio antagonista – la giustizia al Dio della Bibbia e perciò
suggerisce la pratica della non-violenza:
“Anarchici i catari lo erano veramente quando negavano alla società il
diritto di difendersi dai nemici interni ed esterni, dai malfattori e dagli
invasori” .
Ai nostri giorni questo stato d’animo si riproduce
nel discorso di Massimo Cacciari sul katechon, al quale fa da eco il
fracasso dei centri sociali, dove si celebra lo sposalizio dell’anarchismo con
la religione ecumenica, deragliata nel pensiero di Gandhi. L’ideologia dei centri sociali, che è stata
magnificamente analizzata da Siro Mazza , riprende alla lettera lo schema dell’eresia
utopica e purissima, e dichiara, insieme con il furente odio al
Creatore, la sua intenzione di distruggere l’esistente per instaurare
l’obitorio dell’anarchia totale .
Si spiega in tal modo lo scatenamento ultimo
di una guerra terroristica contro la tecnica e lo sviluppo dell’economia . A prima
vista sembra che l’endura catara sia diventata la stella cometa della
rivoluzione. In realtà l’utopia del
nulla è inscritta nel codice genetico delle rivoluzioni moderne. Tutti i passaggi della prassi utopista e
comunista scientifica sono in armonia con la metafisica del consumismo alla
lettera.
Dato il presupposto consumistico, non c’è
dubbio che la felicità totalitaria sia realizzabile solo per mezzo d’un progressivo
impoverimento di quei beni, che, in quanto tali, sono giudicati causa
dell’alienazione divina nella molteplicità degli enti.
Il paradosso della logica consumistica si traduce
spontaneamente nel pauperismo, nella parodia della povertà evangelica.
La rovente polemica condotta da sinistra
contro i consumi edonistici, punta con decisione ad un consumismo
doloristico e tombale, propriamente cataro.
In questo finale svelamento della felicità comunista, consiste l’esito
tragicomico del mondo moderno.
A ben vedere nessun utopista è mai sfuggito alla
feroce logica di Albi. Uno dei
più arroventati visionari d’Utopia, l’eterodosso abate benedettino Deschamps , corrispondente di Rousseau e precursore di De
Sade, Fourier, ha descritto il paradiso (ateo) in terra, il comunismo perfetto,
come una macchina totalizzante idonea ad impoverire, svuotare e
disintegrare tutti i beni materiali.
Il suo allucinato discorso pauperistico
costituisce, ancor oggi, un’esposizione esemplare del nichilismo maniacale, che
regge tutti gli incubi del genere utopiano.
Il possesso delle donne è causa di invidia e di contese? La soluzione del problema è facilissima. Posto che non si può dare a tutti una bella
Elena, Deschamps immagina un regno in cui le donne siano di tutti, come in un
bordello giustizialista. In tale
modo l’amore è impoverito e degradato? Il deludente risultato non frena lo
slancio del riformatore, appagato dall’ipotesi livellatrice, che non consente a
nessuno di dirsi più felice degli altri .
Piero Vassallo