Edito nel 1937, il libretto di STALIN,
Il trionfo della democrazia nell'URSS (Edizioni di Coltura Sociale Bruxelles) fu tradotto in italiano per essere distribuito nel 1944 da “L'Unità” ai
"compagni" italiani beoti. È molto istruttivo. In esso si può
leggere: «
Il sogno di milioni di uomini
onesti nei paesi capitalisti, è già realizzato nell’URSS (...). La democrazia
nell’URSS (...) è la democrazia per i lavoratori, vale a dire la democrazia per
tutti. (...) Il potere sovietico ha liquidato la disoccupazione, ha realizzato
il diritto al lavoro, al riposo, all’istruzione, ha assicurato migliori
condizioni materiali e culturali agli operai, ai contadini, agli intellettuali,
ha assicurato la realizzazione del suffragio universale, diretto e uguale, con
il voto segreto dei cittadini. E tutti questi sono fatti non promesse.»
Meraviglioso!
Peccato che i
“fatti” furono ben altri. Il 1937 e gli anni che seguirono videro la spietata
repressione fatta da Stalin su amici e compagni e soprattutto sul popolo russo
specie ai kulaki. Anche ai contadini andò male, con un piano preciso a tavolino
per cui ne morirono a milioni di fame. E a chi si oppose, tra i fondatori del
Partito, come Gramsci e Trotskij, fu spazzato via come un insetto nocivo.
Noti anche i
titoli degli altri libretti, tutti tradotti per casa nostra, particolarmente
quel Per una vita bella felice!,
sempre di Stalin... Bella sì... nei gulag!
Naturalmente le
alte sfere del PCI, i varii Togliatti, Longo, Ingrao, ecc., che andavano spesso
in Russia e ai Congressi staliniani sapevano tutto, ma da buoni servi del
partito si adoperarono per promuovere questi libri sperando di consegnare a
Stalin l'Italia. E ancora dobbiamo vedere "via Togliatti" nelle
nostre strade!
Un’esagerazione?
Non direi proprio, oggi dopo il crollo dell’URSS nel 1989 sappiamo molte
verità.
Vediamo un poco
cosa intendeva Stalin per “vita bella e felice”.
Tutto era
cominciato fin dal 1918, quando uno dei capi della Ceka, il lettone Lacsis aveva
detto in modo semplice e chiaro: «Non
stiamo lottando contro persone “singole”. Siamo impegnati nel compito di sterminare la borghesia come classe
sociale e non occorre che voi forniate le prove che questo o quell’individuo ha
agito in maniera contraria agli interessi del popolo sovietico. La prima cosa
che dovete chiedere a un arrestato è a quale classe appartiene? Qual è la sua
origine sociale? Quale istruzione ha avuto? Qual è la sua professione? Queste
sono le domande dalle quali deve dipendere il destino dell’imputato. Questa è
la quintessenza del Terrore Rosso.»
Un discorso
molto chiaro, che sfata il mito cui ci si tende ad aggrappare oggi, dello “Stalin cattivo, gli altri buoni” che,
d’altronde come anche per Hitler, ha fatto sempre molto comodo a quanti
volevano farsi rilasciare un certificato di innocenza. E ci chiediamo, oggi,
che differenza ci sia, a livello dell’orrore, tra sterminare un’intera classe sociale o un’intero
popolo come gli Ebrei... entrambe composte pressoché tutte di innocenti.
Il Terrore
Rosso instaurato nel 1918, ossia l’ideologia
sterminazionistica che colpiva chi era colpevole semplicemente di
“esistere”, è ancora attuato in pieno in
quel 1937 che sfornava, in tutte le lingue europee, quegli aurei libretti, e lo
sarà per molti anni a venire.
L’Utopia
leninista secondo la quale dopo lo sterminio delle classi che non facevano
parte del proletariato (anche se in molti casi colpì anche il proletariato) doveva succedere la
dittatura di questi, che avrebbe aperto la via a una società senza classi dove
ognuno avrebbe ricevuto e dato “secondo meriti e necessità”, stabiliti dall’Ente
Supremo, ossia il Partito, si stava risolvendo in una carneficina e nel più
spaventoso azzeramento dei diritti umani. E che farà impallidire quella
nazista, se non altro perché durerà molto di più e fu particolarmente
ripugnante perché rivolta contro il proprio popolo. Inoltre di fronte alle
torture escogitate dai sovietici, per le quali rimandiamo al saggio di Marco
Messeri, Utopia e Terrore, quelle
naziste furono giochi puerili. Roba naif, anche se è ormai chiaro che i nazisti
si ispirarono ai metodi di tortura e repressione sovietici specialmente per gli
esperimenti sugli esseri umani.
In quel 1937
era infatti in atto quella che verrà chiamata la “dekulakizzazione”, ossia lo
sterminio dei kulaki, piccoli proprietari terrieri e contadini (lo Zio Vania,
per intenderci) che non avevano voluto regalare al partito i loro beni
ereditati da generazioni. Due milioni di
loro furono deportati o uccisi sul posto, come già era stato per i Cosacchi,
popolo antico e fiero che non voleva rinunciare alle sue origini.
Scrivono
infatti gli autori del Libro nero del
Comunismo: «Fin dal 1920 la
“decosacchizzazione” corrisponde ampiamente alla definizione di genocidio: un’intera
popolazione a forte base territoriale, i cosacchi, veniva sterminata in quanto
tale, gli uomini fucilati, le donne, i vecchi e i bambini deportati, i paesi
rasi al suolo o consegnati a nuovi occupanti non cosacchi. Lenin (...) proponeva
di applicare al loro caso il trattamento che Gracchus Babeuf, l’“inventore” del
comunismo moderno, aveva definito fin dal 1795 “popolicidio”. La
“dekulakizzazione” del 1930-32 fu ripresa su ampia scala della
decosacchizzazione: questa volta però fu rivendicata da Stalin la cui parola
d’ordine (...) era “sterminare i kulak in quanto classe”. (...) La grande
carestia ucraina del 1932-33 legata alla resistenza delle popolazioni rurali
alla collettivizzazione, provocò in pochi mesi la morte di 6 milioni di
persone. In questo caso, il genocidio “di classe” si confonde con il genocidio
“di razza”: la morte per stenti di un bambino di un kulak ucraino
deliberatamente ridotto alla fame dal regime stalinista “vale” la morte per
stenti di un bambino ebreo del ghetto di Varsavia ridotto alla fame dal regime
nazista.»
I genocidi
comunisti proseguiranno con lo sterminio di polacchi, baltici, moldavi,
bessarabi, ingusceti, cambogiani, ceceni, tibetani... Scrive giustamente
Dominique Colas: «Arrogandosi la facoltà
di conoscere l’evoluzione delle specie sociali, Lenin decise quali sono quelle
che devono scomparire perché condannate dalla storia.» Le purghe si
articolavano su due piani a seconda della classe sociale o le colpe eventuali,
fra le quali la prima era essere nati nell’ambiente sbagliato. Per primi dunque
venivano i kulaki, poi tutti i membri di partito non appartenenti a quello
bolscevico, come i socialisti e i menscevichi, poi le ex Guardie Bianche, i
funzionari zaristi sopravvissuti, i detenuti politici, coloro che erano
considerati spie e terroristi. Dopo di che venivano quelle che erano
considerate categorie contro rivoluzionarie, i polacchi, tedeschi, romeni,
lettoni, estoni, finlandesi, greci, afghani, iraniani, cinesi, bulgari e
macedoni. Seguivano le famiglie dei "nemici del popolo", poi i
militanti dell’élite bolscevica, epurati periodicamente. Gironi del terrore. La
classificazione dei "traditori" arrivò al delirio, era passibile di
arresto che corrispondeva con l’estero, chi frequentava consoli stranieri,
perfino chi conosceva l’esperanto o collezionava francobolli. Le
"confessioni" venivano estorte con la tortura, fisica e mentale. Il
30 ottobre 2001, nella Giornata Russa del Ricordo, l’Accademico Aleksandr
Iakovlev ricorderà commosso le 32 milioni di vittime del comunismo sovietico,
tra i quali i morti di stenti nei gulag, in maggioranza prigionieri-bambini.
Come si è detto
gli intellettuali e gli artisti furono particolarmente colpiti. «Il ceto contadino pagò di più ma altri
gruppi, definiti “estranei” alla “nuova società socialista”, furono messi al
bando, privati dei diritti civili, esclusi dal lavoro e dall’abitazione,
esiliati, retrocessi nella scala sociale, come gli ex aristocratici, i membri
del clero e delle professioni liberali, gli imprenditori privati, i
commercianti e gli artigiani. Ma anche la gente comune delle città che non
rientrava nella categoria “proletariato operaio protagonista dell’edificazione
del socialismo”.»
In particolare
l’intellighentia, che si era resa indipendente fin dal XIX secolo. Università,
Istituti e Accademie furono decimati, così come gli ambienti scientifici e la
quasi totalità degli astronomi del prestigioso Osservatorio di Pulkovo furono
internati o giustiziati, così come oltre 2000 membri dell’Unione degli
Scrittori. Ricordiamo anche gli infelici e geniali artisti del teatro ebraico
russo, uccisi o deportati da Stalin nel dopoguerra. Forse per questo Stalin
proclamava che «i nostri intellettuali
sovietici sono degli intellettuali completamente nuovi.» Per forza! gli
altri erano tutti morti o occupati a “rieducarsi” il cervello in luoghi ameni
come i Gulag.
Ma forse si
riferiva a intellettuali come Louis Aragon, a proposito del quale scrive
giustamente Alain de Benoist: «Non si
perdonerebbe mai a uno scrittore fascista di aver redatto un inno a gloria
della Gestapo (caso che, del resto, non è mai accaduto) ma il fatto che Aragon
abbia potuto cantare le virtù della Ghepeù non ha mai nuociuto minimamente alla
sua reputazione.» Mica solo lui fu così stalinista, ma anche i nostri
compagni italiani, primo fra tutti Togliatti che pure sapevano perfettamente
quello che accadeva in Russia in quegli anni.
Viene da
pensare alla giusta definizione che Andrè
Frossart fa dei “crimini contro l’umanità”: «Si commette un crimine contro l’umanità quando si uccide qualcuno con
il pretesto che è nato.»
Che spesso si ritorsero contro i carnefici,
tramutandoli in vittime. Migliaia di uomini del Comintern sparirono così, nel
corso degli anni, in purghe continue e spaventose...
Caddero i
funzionari e i loro aiutanti, l’Internazionale comunista Giovanile,
l’Internazionale sindacale rossa, il Soccorso rosso, l’Università comunista, le
minoranze nazionali occidentali.
È stato chiesto
ad Aleksandr Solzenicyn, dissidente, premio Nobel scampato ai Gulag: «I
comunisti superstiti si indignano quando si mettono a confronto due
totalitarismi del nostro tempo, quello comunista e quello nazifascista, e i
loro inferni concentrazionari, il Gulag e il lager. (...) Secondo lei è giusto
questo accostamento?»
«Il Gulag — risponde lo scrittore — scaturisce dall’interno del sistema
comunista perché tale regime è talmente contrario alla natura umana da dovere
applicare la massima pressione e violenza per costringere la società, il
popolo, la gente, a percorrere quel cammino e la violenza esige anche i campi
di concentramento, il Gulag. Così è avvenuto. Quanto al caso tedesco, sì tra i
due sistemi c’è molto di comune e il sistema di Hitler sotto molti aspetti ha
copiato i risultati di Lenin e Stalin, con la differenza che da noi il
principio della persecuzione era di classe, mentre là era di razza. (...)
Entrambi questi fenomeni, comunismo e razzismo, mettono a nudo il meccanismo
totalitario che può ripetersi, sia pura in un’altra forma. Il parallelo fra i
due fenomeni e la loro reciproca dipendenza è evidente.»
I nazisti adottarono rapidamente i metodi
sovietici. In nessuna altra parte Lenin, Trotskij e Stalin ebbero discepoli più
docili dei nazisti. E un altro dissidente illustre, Vladimir Bukowskij,
scrittore, e presidente dei Comitati per le Libertà, nel corso di una assemblea
tenutasi a Roma dal 1° al 3 marzo 2003, ha detto fra l’altro: «Quando vedo giovani che portano sulla
maglietta la falce e il martello capisco che non sanno quello che vuol dire.
Mai girerebbero con la svastica. Ma i colpevoli dei crimini comunisti non sono
mai stati processati i milioni e milioni di vittime del sistema comunista non
le conosce nessuno e quindi non hanno portato una lezione. Così gli errori si
possono ripetere. Possiamo dire oggi che l’utopia genera mostri. Gli utopisti
non accettano la natura umana, se si ribella c’è la repressione. Il primo gulag
fu puramente intellettuale, dividendo la gente fra amici e nemici, poi si è
trasformato in sistema politico. E attenzione, è un errore e un alibi dare
tutte le colpe a Stalin. Tutti erano colpevoli.»
In effetti
Lenin già nel 1920 additava alle associazioni giovanili che la dittatura
comunista era «Potere conquistato e
sostenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia.» E sosteneva:
«In linea di principio noi non abbiamo
mai rinunciato e non possiamo rinunciare al terrorismo.»
Consigliando
menzogna e calunnia come arma politica.
Così come gli
spetta lo scettro del Regno del Terrore
che vede il suo più spaventoso inizio proprio negli anni Trenta, e che continuò
poi dopo la guerra in tutti i paesi satelliti. Gli arresti erano pianificati,
preferibilmente notturni .
In quel 1937, dunque,
i Gulag lavoravano già a pieno ritmo e contenevano dai cinque ai sei milioni di
persone, arrivate fin là in vagoni piombati, spremute fino all’osso e alla
morte da un lavoro inumano, in un clima che arrivava punte di 50° sotto zero,
in condizioni di fame e di stenti
identiche a quelle dei loro confratelli nei lager nazisti. Dispiace che
oggi si diano enormi spazi ai lager e non si parli mai dei gulag, che non
furono da meno. Come la ferocia di entrambi i dittatori.
Fino al 1953 la
personificazione stessa del Terrore Rosso sarà Stalin che, a differenza di
Hitler che delegava la repressione a sottoposti come Himmler, ne sarà
l’ideatore e l’organizzatore. Firmerà personalmente le liste delle migliaia di
persone mandate a morte, in un clima da guerra civile costante e senza batter
ciglio programmerà un’immane carestia che ucciderà milioni di persone,
semplicemente per rieducare e stroncare la resistenza nelle campagne.
Nel Regno del
Terrore l’essere umano si trasforma in una astrazione, sia che lo sterminio
riguardi gli eretici, una razza o una classe sociale. Il percorso psicologico è
lo stesso, in tutte le dittature. Anche Gorki, oltre a Hitler, parlerà di “esseri inferiori sul piano fisico e sociale”.
La somiglianza
con Hitler è ancora più impressionante quando Gorkij vorrà istituire l’Istituto
Russo di Medicina Sperimentale, che vedrà la luce nel 1933: «Si avvicina l’ora in cui la scienza
interpellerà imperiosamente gli esseri cosiddetti (sic!) normali: vogliamo che tutte le malattie,
gli handicap, le imperfezioni, la senilità e la morte prematura dell’organismo
siano studiati minuziosamente e con precisione? Questo studio non potrebbe
essere effettuato con esperimenti su cani, conigli e cavie. È indispensabile
l’esperimento sull’uomo (...). Occorreranno centinaia di unità umane, sarà un
vero servizio reso all’umanità e sarà evidentemente più importante e utile
dello sterminio di decine di milioni di esseri sani per la comodità di una
classe miserabile, psicologicamente e moralmente degenerata, di predatori e
parassiti.»
Sostituiamo
“classe” a “razza” e siamo al summit dell’astrazione orrorifica... e ad Hitler.
Cambia solo lo stile: brutale ferocia negli slavi, pignoleria metodica e
allucinante nei tedeschi. Lo stile, ma non le parole: racconta Vasilij
Grossman, la cui madre fu uccisa dai nazi ed è autore del Libro
nero sullo sterminio degli Ebrei in Unione Sovietica, che per far uccidere
i kulaki si doveva dire, semplicemente, che “non
erano esseri umani”, come gli Ebrei. Lo stile e non il tempo. Il nazismo è
durato una manciata di anni, il comunismo quasi un centinaio e ancora persiste
in qualche infelice zona del pianeta, con gli stessi metodi.
Ci si può chiedere con Vittorio Strada: perché «uno dei più tremendi crimini del XX secolo,
l’Olocausto, è stato oggetto di un numero assai alto di documentazioni e
analisi, restando al centro dell’attenzione, e della deprecazione, come lo era
stato nei decenni precedenti. Invece il Gulag, un crimine analogo, per quanto
dotato di una sua peculiarità, ma anche più grave del precedente in senso
quantitativo, e cioè per numero di vittime, per durata ed estensione, non
occupa nell’attenzione pubblica e nelle ricerche storiche un posto paragonabile
a quello dell’Olocausto?»
Qualcuno ci aveva provato. David Rousset, per esempio, un
militante della sinistra francese che
alla fine del 1945 aveva denunciato il lager di Buchenwald in cui era stato
rinchiuso, scrivendo L’univers
concentrationnaire e Les jours de
notre morts, ma nel 1949 aveva pubblicato una nota su “analoghi” campi di
concentramento in URSS lanciando un appello in cui chiedeva l’istituzione di
una commissione d’inchiesta sui campi di concentramento nel mondo e in
particolare in Unione Sovietica. Venne accusato di essere un traditore,
provocatore, denigratore del socialismo, cripto-fascista, e Sartre in persona
lo attaccherà in “Temps Modernes",
in un editoriale firmato con Merleau-Ponty nel gennaio del 1950 nel quale viene
stabilito una volta per tutte la
distinzione netta fra i "campi" nazisti e quelli sovietici, che in
fondo servivano a "rieducare" al socialismo, perla dell’umanità. Il
testo, all’epoca in cui è scritto, prende un’importanza capitale. Perchè è
proprio in quel periodo che molti Occidentali cominciano a scoprire gli orrori
del sistema sovietico, anche per le testimonianze degli scampati, così ai
comunisti e ai loro complici Sartre e Merleau-Ponty offriranno un appoggio
insperato e importante, anche perché loro sostengono che il comunismo non può
essere giudicato perché "portatore di valori", valori che i suoi
avversari non hanno. Il povero Rousset verrà così trascinato davanti a un
tribunale come “falsificatore.” E dei Gulag per decenni non si parlerà più.
Ma anche Churchill
protesterà accusando i Soviet «di aver
ricacciato l’uomo della Civiltà del XX secolo in una condizione di barbarie peggiore
dell’ età della pietra.» Egualmente il lavaggio del cervello, la
“rieducazione” praticata agli artisti e agli intellettuali nei Gulag dovrebbe
essere presente alla coscienza morale di ognuno proprio come gli orrori dei
lager nazisti perché non sappiamo quanti frutti del pensiero creativo,
dell’arte, abbia così perduto l’umanità. Concludiamo con ciò che scrive
Stèphane Courtois, uno degli autori de Il
libro nero del comunismo: «Al di là
dei crimini individuali dei singoli massacri legati a circostanze particolari,
i regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di
massa un autentico sistema di governo. (...) Nessuna delle esperienze comuniste
che hanno conosciuto una certa popolarità in Occidente è sfuggita a questa
legge: né la Cina del Grande Timoniere, né la Corea di Kim II Sung, né il
Vietnam del “gentile zio Ho” o la Cuba del pirotecnico Fidel, affiancato da Che
Guevara il puro, senza dimenticare l’Etiopia di Menghistu, l’Angola di Neto, e
l’Afghanistan di Njibullah. (...) Non è nostra intenzione istituire in questa
sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità
rigorosa dell’orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti
parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti
riguardano circa 100 milioni di persone contro i circa 25 milioni di
vittime del nazismo. Questa semplice
constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il
regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo, e
un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità
internazionale e che a tutt’oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad
avere sostenitori in tutto il mondo.»
Quindi il discorse de “compagni che sbagliano” è pura ipocrisia!
Sempre nel 1937 Stalin proclamava nel suo VIII Congresso che «La Costituzione dell’URSS è nel mondo l’unica Costituzione democratica
fino in fondo.» Una asserzione che resterà eguale per circa settant’anni e
che, in alcuni casi, lo è ancora.
Nel 1965 Branko Lazic
tentò una prima analisi dello sterminio degli uomini del Comintern, “Martyrologe du Comintern” (in “Le contrat social”, n. 6, Nov. Dic. 1965). Boris Suvarin
concluse i suoi “Commentaires sur le martyrologe”, che seguivano al saggio di
Lazic, con un pensiero sui modesti collaboratori del Comintern, vittime delle
grandi purghe: «I più sono scomparsi in questo massacro del Comintern che è
stato solo una parte di un massacro immenso, quello di milioni di operai e
contadini laboriosi, immolati senza motivo da una tirannide che si definiva
“proletaria”.»