Su "Avvenire", il quotidiano cattolico,
Dario Antiseri ha pubblicato, il 16.09.2014, un ricordo di Karl Raimund Popper
e del suo pensiero per indicare quale è, per il noto pensatore, amico di
Friedrich August von Hayek, la linea di demarcazione tra una “società aperta”
ed una “società chiusa” (1). Antiseri è, notoriamente, innanzitutto un
liberale che poi si fregia di professare la fede cattolica. Le basi, però, del
pensiero di Antiseri sono in Ludwig Wittgenstein che è come dire nel
soggettivismo gnoseologico ed etico. Il che dovrebbe porre ad Antiseri qualche
serio problema in ordine al suo cattolicesimo.
Ma, tornando a Popper, è interessante
constatare quanto egli abbia frainteso Platone, assimilandolo ai pensatori
immanentisti che hanno preparato, nella modernità, la via al totalitarismo
politico. Noi non possiamo, in quanto cattolici, gettare alle ortiche il grande
ateniese sia perché, con le sue intuizioni circa la Trascendenza, è un
anticipatore – certo con molte deficienze dal momento che non conosceva ancora
la Rivelazione che stava per giungere da Gerusalemme – della filosofia e
dell’etica cristiana, sia perché la sua teoria politica non è affatto
totalitaria proprio in quanto essa è aperta verso l’Alto, verso l’intuita
Trascendenza della Verità, laddove, invece, a ben osservare, è proprio la
“società aperta” popperiana, aperta piuttosto verso il basso quindi
effettivamente chiusa alla Trascendenza delle basi teo-antropologiche della
vita sociale, a rivelarsi, alla prova storica dei fatti, compiutamente
totalitaria ossia compiutamente immanentista, nel senso nel quale, ad esempio,
Augusto Del Noce riteneva l’Occidente liberale come un perfetto sistema di
reificazione, sotto forma di mercificazione, dell’uomo e quindi come la
sconfessione, per eterogenesi dei fini, dell’etica kantiana, fondativa
dell’Occidente, per la quale l’uomo deve essere sempre trattato come un fine e
mai come una mezzo (2).
Se proprio vogliamo usare una terminologia
moderna, la teoria politica di Platone, lungi dall’essere totalitaria, è
casomai, perché non immanentista, una filosofia “autoritaria”, meglio sarebbe
dire “autorevole”, dello Stato, il quale è certamente posto, come Comunità
Politica, al di sopra della “società civile” ma senza che gli sia lecito – e
laddove trasformandosi in senso immanentista, ossia decadendo, tentasse di
farlo tradirebbe illegittimamente la sua natura e vocazione – assorbirla. Allo
Stato non è lecito assorbire i corpi intermedi, che in esso, nella sua orbita e
circoscrizione spazio-temporale, vivono liberamente, ma ha il diritto/dovere di
coordinarli e tutelarli.
Popper non comprende Platone perché per
l’austriaco al centro di tutto vi è – si badi! – non la persona ma il fantoccio
astratto ed inesistente dell’individuo, entità irreale che pretende di darsi
solipsisticamente come unità matematica interagente meccanicamente, ossia
contrattualisticamente, con le altre unità individuali. Al contrario, la
persona, in una concezione squisitamente personalista e comunitaria che, a meno
di non equivocare come fa Popper sul significato autentico dell’“organicismo”, non può assolutamente prescindere dal
fondamento trascendente, non è mai data in astratto ma sempre concretamente in
relazione organica, e non contrattuale, con le comunità di appartenenza, dalla
famiglia fino alla professione, dal comune fino alla nazione, dalla classe
sociale fino alla patria.
Per Popper, come ci ricorda Antiseri
citandolo dal primo volume della sua opera capitale (3), la società
aperta è quella in cui «gli uomini hanno imparato ad assumere un
atteggiamento in qualche misura critico nei confronti dei tabù e a basare le
loro decisioni sull’autorità della propria intelligenza (dopo discussione)».
Di contro, la società chiusa «è caratterizzata dalla fede nei tabù magici»,
«assomiglia a un gregge o a una tribù […]», «è una società che si
aggrappa alle sue forme magiche rinchiudendosi in se stessa». Sicché per
Popper «la società magica o tribale o collettivistica sarà chiamata anche
società chiusa, e la società nella quale i singoli sono chiamati a prendere
decisioni personali società aperta. Una società chiusa può essere giustamente
paragonata ad un organismo. La teoria organica o biologica dello Stato può essere
applicata in larga misura ad essa».
L’avversione di Popper per la “teoria
organica dello Stato” dimostra la sua incomprensione totale dell’antico
pensiero organicista che la fede cristiana – vorremmo ricordare ad Antiseri –
ha fatto proprio sin dall’inizio se è vero che san Paolo parla della Chiesa
appunto come “corpo” e se la Chiesa stessa si è sempre concepita come “Corpo
Mistico di Cristo”. Si dirà che l’Apostolo parlava di Chiesa e non di Stato ma non si
deve dimenticare che per i grandi teologi e filosofi politici cattolici – da
Agostino a Tommaso d’Aquino, da Suarez a Rosmini (quest’ultimo troppo
facilmente derubricato a cattolico liberale), per non parlare del Magistero –
vi è un rapporto di analogia tra la Prima ed il secondo. Analogia fondata sulla
stessa analogia che sussiste tra la Trascendenza, che la in-forma, e
l’immanenza, tra ordine sovrannaturale ed ordine di natura.
La questione sta, piuttosto, nel fatto
che Platone non poteva conoscere la distinzione tra “ciò che è di Dio e ciò che
è di Cesare” sicché per lui la Trascendenza, non ancora perfettamente colta
anche come Santità, forgia la sacralità dell’Ordine Politico rimanendovi in
qualche modo “incastrata”. In altri termini l’ateniese, non conoscendo la
Chiesa come luogo e veicolo della Trascendenza quale Santità che tuttavia
riflettendosi nel creato è fondamento della sacralità del medesimo, tendeva a
fare della Repubblica il “luogo santo” nonché l’immagine stessa dell’Ordine
Cosmico.
Il Cristianesimo non ha affatto negato
l’intuizione platonica per la quale “esiste nei Cieli un modello perfetto” ma
ha negato la possibilità che tale modello archetipico possa identificarsi con
lo Stato benché quest’ultimo, cristianamente parlando, deve, pur nelle
inevitabili manchevolezze e deficienze dell’umanità ferita dal peccato, a tale
archetipo tendere per quanto è umanamente possibile. “Per Me reges regnant
et legum conditores iusta decernunt; per me principes imperant et potentes
decernunt iustitiam” (Pv 8,15-16).
Questo significa che se è vero che la
Comunità Politica è di natura, è altrettanto vero che essa dipende da un Ordine
Etico che la trascende e che sta agli uomini attingere, o meno,
nell’organizzare la loro convivenza associata, fermo rimanendo che l’unica
scelta ad essi possibile, pur nella libertà delle forme, è quella tra
riconoscere e tentare di attuare quell’Ordine, supplicando ed implorando
l’aiuto dall’Alto senza il quale ogni tentativo sarebbe prometeico ed in tal
senso sì “totalitario”, oppure negarlo. Sicché se è vero che gli uomini conoscono
anche le libere associazioni, e non solo quelle naturali, è certamente vero che
l’associarsi non corrisponde alla mera regolazione contrattualistica ed
utilitaristica dei reciproci e spesso contrapposti interessi materiali, benché
anche questo aspetto, tuttavia solo all’ultimo livello della gerarchia
ontologica, fa parte dei rapporti umani, ma risponde innanzitutto al moto
naturale dell’uomo che, come diceva Aristotele e dopo di lui Tommaso d’Aquino
ed hanno ricordato tutti i Pontefici nel loro Magistero sociale, è creatura
sociale per natura e non per contratto.
Ecco il motivo per il quale la “teoria
organica dello Stato”, nella sua accezione cattolica sorgente dall’incontro tra
la Rivelazione ebraico-cristiana e l’ellenismo filosofico, incontro provvidenzialmente
preparato dalla Koiné alessandrina, teoria che riconosce la persona come
soggetto unico, amato da Dio, ma sempre costantemente in relazione con l’altro
nelle diverse forme – per usare gli ideal typus di Ferdinand Tönnies –
comunitarie e non societarie, ovvero non meccaniche, non ha nulla a che fare né
con la concezione biologica, né con quella magica e tribale, né con quella
totalitaria delle forme del Politico. Perché se è vero che esiste un
“organicismo pagano”, che guarda alla comunità umana come ad un aggregato
etnico e razziale con una proiezione religiosa “magica” e panteisticamente
“sacrale”, nel senso feuerbachiano-marxiano di struttura sociologica che
proietta una sovrastruttura, e se è vero che la forma moderna di questo organicismo
pagano sono stati i totalitarismi, sia quelli ideocratici sia quelli
statolatrici sia quelli etnolatrici, non è assolutamente vero, anzi è falsissimo,
che l’organicismo etico e morale posto alla radice della “teoria organica dello
Stato” nell’ambito del pensiero teologico e filosofico cattolico, che
concepisce la Comunità politica come “organismo morale di natura”, possa essere
assimilata al tribalismo biologico e magico-vitalista. Questa indebita, erronea
ed anche intellettualmente scorretta e disonesta assimilazione, alla quale il
pensiero liberale è portato a causa della sua matrice razionalista e
contrattualista che vede soltanto l’individuo e non la persona – i
cattoliberali poi confondono anche terminologicamente individuo e persona –
costituisce esattamente l’equivoco introdotto dal pensiero popperiano nella
filosofia politica contemporanea, foriero di tante e gravi confusioni,
soprattutto tra i cattolici. Pertanto non è stato un caso l’entusiasmo nutrito
da von Hayek, che è maestro dell’individualismo contemporaneo pur condito di
anticostruttivismo (forse per far dimenticare gli aspetti assolutamente
costruttivistici della teoria economica classica), per l’opera capitale di
Popper, che l’economista austriaco volle prefare e che si adoperò per far pubblicare
in pompa magna.
In realtà, Popper è un presocratico, è
un novello Protagora, un antropocentrico, che non crede a nessuna Verità
oggettiva. Se un Ratzinger lo annovera, senza citarlo ma esaminando
attentamente le aporie della cultura filosofica di cui egli è espressione, tra
i “relativisti”, Platone direbbe di Popper che non è un vero filosofo ma un
sofista ossia un maestro della “doxa”, dell’opinione soggettiva la quale
quando, come accadeva nella sua Atene, prende il sopravvento getta inevitabilmente
la Repubblica in un vortice di conflitti caotici preparando il terreno per la
nascita e la crescita della mala pianta della tirannia (4). In effetti
il destino della democrazia ateniese e delle altre città greche sue alleate, ma
la cosa si è ripetuta sovente ed in epoche diverse dai comuni medioevali ai
regimi liberali ottocenteschi, dimostratisi sia gli uni che gli altri incapaci
di resistere al “cesarismo” di ritorno, fu proprio quello di cadere nella
tirannide.
«Io sostengo – scrive Karl Popper
– che una delle caratteristiche di una società aperta sia di tenere in gran
conto … la libertà di associazione, e di proteggere ed anche di incoraggiare la
formazione di sotto-società libere, ciascuna delle quali possa sostenere
differenti opinioni e credenze». Il problema qui sollevato è quello appunto
della Verità e se la Verità abbia o meno il diritto di imporsi nell’agone
politico. La risposta di Popper è negativa: la Verità non esiste ma esistono
solo “differenti opinioni e credenze”. Appunto la “doxa”.
Un cristiano, per il quale la Verità
esiste ed è una Persona, è il Verbo di Dio ovvero la Seconda Persona della
Santissima Trinità Incarnata in Gesù Cristo, non può però pretendere di
sottrarsi, senza affrontarlo, al problema posto da Popper, rifugiandosi, troppo
facilmente, nel dogma, che tuttavia tale certamente rimane nella sua
indiscutibilità teologica, e rifiutandosi di dare una risposta corretta alla
questione del rapporto tra Verità e libertà. Problema risolvibile, cosa che a
Platone non era concesso, grazie alla mediazione della Chiesa, Corpo Mistico di
Cristo, la Quale mai confondendosi, propriamente parlando neanche ai tempi
della Cristianità, con la Comunità Politica – sicché le pretese sia teocratiche
sia statolatriche, sempre tendenti ad imporre una “religione civile”, non
possono avere nessuna autentica cittadinanza in ambito cattolico – disegna la
linea di confine tra Fede e Politico ma anche la necessità di un corretto
rapporto non del tutto estrinseco tra queste due dimensioni entrambe proprie dell’uomo
e quindi entrambe essenziali alla natura umana come creata da Dio.
Qui, infatti, si svela l’errore
cattolico liberale: pur nel rifiuto cristiano della sacralizzazione di Cesare,
non è possibile affermare che tra la Fede ed il Politico, quindi tra la Chiesa
e la Comunità politica, vi sia una distanza ed una assoluta indifferenza, che è
poi quell’“indifferentismo”, sempre unito al “latitudinarismo”, ampiamente
bollato dal beato Pio IX nel Sillabo. Condanna riproposta da Benedetto XVI
quando ha lamentato la “dittatura del relativismo”.
Proprio Benedetto XVI/Ratzinger ha, del
resto, ammesso che sul piano politico il relativismo, cristianamente
impossibile su quello teologico, deve essere riconosciuto ma solo fino ad un
certo punto. «… il relativismo – scrive il Papa emerito – è divenuto
il problema centrale per la fede della nostra epoca. Esso però non appare
affatto solo come rassegnazione davanti all’incommensurabilità della verità, ma
si definisce anche positivamente, movendo dai concetti di tolleranza, di
conoscenza dialogica e di libertà, che sarebbe limitata dall’affermazione di
una verità valida per tutti. Il relativismo appare così contemporaneamente come
il fondamento della democrazia la quale, secondo esso, poggia appunto sul fatto
che nessuno possa pretendere di conoscere la strada giusta, vive della
condizione per cui tutti i cammini si riconoscono reciprocamente come frammenti
del tentativo indirizzato al meglio e nel dialogo ricercano la comunanza,
mentre ad essa appartiene però anche la competizione tra le conoscenze, che è
impossibile in ultima analisi siano portate a una forma comune. Un sistema
della libertà per sua essenza, secondo questa filosofia, deve essere
necessariamente un sistema di posizioni relative che si accordano e inoltre dipendono
da combinazioni storiche e devono restare aperte a nuovi sviluppi. Una società
liberale (freiheitlich) è una società relativista, solo per questo presupposto
essa è in grado di rimanere libera e aperta ad un ulteriore cammino.
Nell’ambito politico questa concezione ha ampiamente ragione. Non esiste
un’opinione politica che sia l’unica giusta. L’elemento relativo, la
costruzione della convivenza umana ordinata secondo libertà, non può essere
assoluto – il crederlo fu appunto l’errore del marxismo e delle teologie
politiche. Però anche nella sfera politica con il relativismo totale non se ne
viene a capo. V’è dell’ingiustizia che non può diventare mai giustizia (per
esempio uccidere innocenti; negare ai singoli o a gruppi il diritto alla loro
dignità umana e a condizioni corrispondenti); v’è giustizia che non può
diventare mai ingiustizia. Di conseguenza non si può disconoscere un certo
diritto al relativismo nell’area politico-sociale. Il problema sta nel suo
concepire se stesso come illimitato» (5).
Un riconoscimento, questo, al
liberalismo o non piuttosto una posizione apertamente agostiniana, quindi
perfettamente tradizionale, nella distinzione tra Città di Dio e Città degli
uomini? Sergio Cotta ha infatti dimostrato che in Agostino tra le due Civitates
sussiste sempre lo spazio per una terza dimensione, quella più specificatamente
politica, che consiste nella Città politica perennemente sospesa tra l’una e
l’altra (6). Anzi, dal momento che la Città politica è, in sostanza,
nient’altro che la Città degli uomini, la quale nell’Ipponate non equivale
affatto a Civitas diaboli benché molto, soprattutto in età medioevale ed in
ambito protestante, si è in proposito equivocato, dipende appunto dalla scelta
dell’uomo se la Comunità politica tenderà verso la Città di Dio, sempre
certamente nell’impossibile divario, per essa solo parzialmente colmabile anche
laddove la Grazia assistesse costantemente sia chi governa sia chi è governato,
che la separa dal “modello archetipico che è nei cieli”, o finirà per trasformarsi
nella Civitas diaboli che è – attenzione! – fondata sulla “doxa” e sul
conflitto soggettivista anche quando – attenzione di nuovo! – tale conflitto è
normativamente e contrattualisticamente, ma sempre precariamente, composto o
moderato.
Popper, ebreo esule dall’Austria
occupata dai nazisti, ha di fronte a sé l’orgoglio prometeico e gli orrori
delle Teologie Politiche moderne e si preoccupa di disincantare gli “assoluti
umani”. Preoccupazione che è anche del cristiano. Ma quest’ultimo evita, come
un’altra mortifera pestilenza ideocratica, anche l’assolutizzazione di quel
relativismo latitudinarista che invece è essenziale al liberalismo e che,
appunto, Benedetto XVI ha qualificato, con terminologia nient’affatto casuale,
“dittatura del relativismo”. La nostra proposta cristiana, alternativa al
quella liberale di Popper, non è un ritorno alla Teologia Politica quanto
invece, nel solco della Tradizione, alla Teologia
della Politica, di cui quella agostiniana, sopra accennata, è uno degli
esempi massimi. Una proposta del tutto conscia che si tratta di una via, quella
cristiana, ardua a percorrersi richiedendo una continua ascesi personale, rara
a riscontrarsi nell’agone politico. Tuttavia, il cristiano sa anche che la
strada larga porta alla perdizione. Anche alla perdizione politica.
La Verità, quella Verità che è la
Persona di Cristo e verso la quale Popper è sostanzialmente indifferente
riducendola ad una delle tante e differenti opinioni o credenze, non si può
certo imporre con la violenza e la forza – come purtroppo è stato fatto molte
volte in passato benché per giudicare i fatti si deve sempre tenere presente il
contesto dei tempi – ma non può neanche essere relativisticamente gettata fuori
dalla Città politica, negando ad Essa diritto di cittadinanza. La Verità si
impone al cuore umano per sua stessa intrinseca forza, per il suo fascino
mistico, per il Mistero che essa comunica all’uomo il quale non può davvero
sottrarsi al suo richiamo se lascia la propria coscienza libera all’azione
della Grazia. Cosa che, del resto, non è automatica né facile come la
narrazione biblica della lotta tra Giacobbe e l’Angelo – nel linguaggio biblico
l’angelo altro non è, pur essendo una creatura, che il messaggero, dunque il
veicolo, della Forza stessa di Dio – ci ricorda. Quindi se violenza c’è, ed
essa c’è senza dubbio, nell’imporsi della Verità si tratta della “violenza
mistica” che, attratto dal fascino irresistibile del Volto del Signore, al
quale l’uomo, ferito dal peccato, tenta comunque di sottrarsi, patisce su di sé
chi è giudicato degno del Regno dei Cieli. Dio che rispetta la libertà
dell’uomo – perché non è vero Amore quello che pretendesse di essere coatto e
non libero – pur facendo all’uomo tale ”violenza” non gli si impone per forza
se egli alla fine, nonostante tutto, Lo rifiuta.
Lo stesso vale per la Città politica il
cui fondamento che è certamente naturale comunque “passa” per il cuore degli
uomini che in quella Città, per natura e non per contratto, vivono. Sia per il
cuore dei re che per quello dei sudditi, sia per il cuore dei governanti che
per quello dei governati. E’ il diritto non scritto che i popoli hanno chiamato
diritto naturale e che il Signore ha, Egli, scritto ma nel cuore degli uomini e
non in altisonanti e sempre caduche carte dichiarative di presunti “immortali
principi”.
Popper vede la linea di demarcazione tra
democrazia e dittatura, che per lui equivalgono rispettivamente, ed invero
alquanto schematicamente, alla società aperta ed alla società chiusa, nella
limitazione istituzionale che nella società aperta viene esogenamente imposta
al potere politico: «Si vive in democrazia quando esistono istituzioni che
permettono di rovesciare il governo senza ricorrere alla violenza, cioè senza
giungere alla soppressione fisica dei suoi componenti. È questa la
caratteristica di una democrazia» sicché «le democrazie non sono governi
del popolo, bensì, prima di ogni altra cosa, istituzioni attrezzate contro una
dittatura. Non permettono nessun governo di tipo dittatoriale, nessuna
accumulazione del potere, tentano piuttosto di limitare il potere dello Stato
[…]. La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico. Non
ci dovrebbe essere alcun potere politico incontrollato in una democrazia» (7).
Purtroppo per Popper ed i popperiani oggi
sappiamo che le cose sono ben più complesse, come riconosce anche un liberale
quale è Jurgen Habermas, da come sono poste nel frettoloso schema “società
aperta/democrazia vs società chiusa/dittatura”. Proprio la depoliticizzazione
liberale che ha preparato la strada alla post-moderna “società liquida”, come
la chiama Zygmunt Bauman con definizione che calza perfettamente alla società
aperta di Popper, quella depoliticizzazione che ha preso storicamente avvio
formale con Reagan e la Thatcher a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, è
responsabile dell’esito “dittatoriale” del liberalismo nel senso della
“dittatura globale della finanza apolide”, la “dittatura dei mercati
finanziari”, conseguita alla liberalizzazione e deregolamentazione degli stessi,
capaci di piegare alla loro irrazionale e famelica volontà persino gli Stati e
le Federazioni di Stati e di letteralmente triturare i popoli tutti della terra
nel grande frullatore della globalizzazione speculativa in uno scenario che
sempre più ricorda il profetico ammonimento circa quel Potere, appunto globale,
il quale «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e
schiavi, ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che non
potessero comprare o vendere senza avere tale marchio …» (Ap. 13, 16-17).
Un Potere Ofidico che, nonostante sia
chiaramente annunciato come un Potere Finanziario (“ un marchio senza del quale
non si può comprare o vendere”), un sodale filosofico di Antiseri, Flavio
Felice, si ostina tuttavia ad identificare soltanto nelle soluzioni non
mercantili, ossia non liberiste, tipo eventuali novelle “Bretton Woods” almeno
europee, degli squilibri delle bilance dei pagamenti tra i diversi Stati,
squilibri inevitabilmente creati dalla asimmetria del libero mercato –
asimmetria ad esso connaturata ma non etica – che, mondializzatosi, ha svelato
in verità il suo più autentico volto ossia quello del Nuovo Leviatano Globale (8).
La “Dittatura della Finanza” è stata
resa possibile, secondo una dinamica ed una logica storico-filosofica ben
evidenti, dalla deregolamentazione liberista dei mercati finanziari, ossia
dall’abolizione, appunto iniziata negli anni ’80 dalla destra economica e
portata a compimento nei decenni successivi dalla sinistra ex
socialdemocratica, della previgente legislazione nazionale ed internazionale di
“repressione finanziaria” che era volta al controllo del movimento dei capitali
con lo scopo di mantenere il capitale finanziario al servizio degli Stati e
dell’economia reale ossia di una economia sociale che aveva per obiettivo
primario la crescita civile nella crescita dignitosa del lavoro e
dell’occupazione.
Come, giustamente, annota Antiseri, vi è
sicuramente un nesso indissolubile tra il Popper epistemologo, che dimostra
come ogni scoperta scientifica sia anche una falsificazione (rilievo che vale
anche per il suo “Platone totalitario” che è, appunto, una chiarissima
falsificazione ermeneutica) sicché nessuna scoperta scientifica può assurgere
al rango di Verità assoluta, e il Popper teorico della società aperta
fondamento della quale è proprio la fallibilità della conoscenza umana.
Certo, Antiseri, da cattolico, gioisce
di tale riconoscimento laico della non infallibilità della scienza, una
prospettiva ermeneutica che ha avuto il merito di smontare le pretese
scientificamente dogmatiche del vecchio determinismo positivista aprendo la
strada al probabilismo epistemologico postmoderno, perché egli, e noi con lui
se questa è effettivamente la sua posizione, correttamente identifica l’ambito
dell’Assoluto soltanto con la Trascendenza, con la Metafisica, ma poi noi, a
differenza di lui, ammettiamo che, tuttavia, il relativo immanente non può
darsi senza riferimento ultimo all’Assoluto Trascendente.
D’altro canto, però, Antiseri – e questo
ci pone forti perplessità sulla sua effettiva posizione – sembra dimenticare
che Popper non avrebbe concesso credibilità alcuna neanche alla conoscenza
metafisica, nella quale del resto il filosofo austriaco non riponeva nessuna
fiducia come in una inesistente pretesa foriera di illiberale autoritarismo
gnoseologico e violento dogmatismo intellettuale. A meno che – in questo stanno
le nostre perplessità sulla sua posizione – anche Antiseri, sulla scorta di
Wittgenstein, non ritenga che, sì, in effetti neanche la conoscenza metafisica
ha validità assoluta, che neanche la Trascendenza sia normativa, sicché tutta
la questione della fede, per lui, si riduce, luteranamente, ad un mero
“fideismo” il quale sottende, in fondo, l’irrazionalità della fede medesima. E’
questa, del resto, l’unica posizione coerentemente liberale se si vuol fare
professione di liberalismo, anche sul piano teoretico. Conciliare poi tale
posizione con l’asserita fede cattolica è cosa certamente alquanto complicata,
se non addirittura impossibile.
La difficoltà liberale a trattare con e
del Politico si manifesta nel letterale terrore del liberalismo nei confronti
del Potere, del Comando, indipendentemente dalla natura di tale comando e dei
modi “endogeni” di esercitarlo. Problema, questo, della natura del potere, che
invece, onde distinguere il potere tirannico da quello legittimo, è sempre
stato l’oggetto, ed anche l’assillo, della riflessione filosofico-politica sin
dai tempi, appunto, di Platone, riflessione alla quale poi i pensatori
cristiani hanno apportato ulteriori acquisizioni fino alla teorizzazione, con
tutti i suoi aspetti controversi e partigianamente strumentalizzabili, della
legittimità, a certe condizioni, del tirannicidio.
Infatti, la questione del rapporto tra
Verità e Potere non è stata, per quanto riguarda la sua critica a Platone,
correttamente impostata da Popper che attribuisce al filosofo ateniese la
volontà di creare, all’interno della Città politica, una gerarchia di casta, se
non di razza, poi ripresa dai totalitarismi moderni, ponendo l’aristocrazia
degli “illuminati” al vertice della società nel tentativo di rispondere alla
basilare domanda “chi deve comandare?” Questa è la colpa principale che Popper
imputa a Platone che avrebbe in tal modo prodotto « … una durevole
confusione nel campo della filosofia politica» (9) dal momento che,
ignorando la fallibilità dell’umana conoscenza, l’ateniese pretende che il
comando sia riservato ai “filosofi” in quanto essi, e solo essi, sanno cosa è
il bene e cosa è il male e quindi cosa sarebbe bene per la Comunità e cosa
male. Senza che gli altri possano interferire in questa sapienza. Popper, in
tal modo, vede in Platone l’iniziatore non solo dei totalitarismi ma anche
della tecnocrazia.
Antiseri concorda con questa critica
antiplatonica. «Da qui – egli scrive nell’articolo su Avvenire – l’inconsistenza
della domanda in cui si chiede “chi deve comandare?” (…). Per Platone devono
comandare i filosofi, perché sono loro che sanno cosa è il Bene e cosa è il
Male. E la stessa domanda ha in seguito ricevuto, di volta in volta, le
risposte più disparate: devono comandare i religiosi, i militari, i tecnici, i
“migliori”; no, deve comandare un re per grazia di Dio, un re per grazia di Dio
e volontà della nazione, un re per volontà della nazione; deve comandare questo
o quel ceto, questa o quella razza, questa o quella classe. La domanda “chi
deve comandare?” sembra razionale e le risposte paiono, a prima vista,
plausibili. Ma non è così, poiché andare alla ricerca di chi deve comandare è
andare alla ricerca di ciò che non esiste: nessun individuo o razza o classe o
ceto è venuto al mondo con l’attributo della sovranità sugli altri. E alla
domanda “chi deve comandare?”, Popper sostituisce questa altra ben differente
domanda: “Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da
impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. È
questa la domanda sottesa alla società aperta. Non chi deve comandare?, ma come
controllare chi comanda: ciò è quanto vogliono sapere uomini fallibili che costruiscono,
difendono e perfezionano le istituzioni democratiche, il primo vero bonum
commune».
Troppo facile! Popper sorvola, appunto
con troppa facilità, sotto il profilo sia storico che filosofico, sulle
differenze sussistenti tra la Repubblica platonica, nella quale i “filosofi”
sono sacerdoti, quasi “iniziati”, della Verità, ed i totalitarismi e le
tecnocrazie che detta pretesa iniziatica e sacerdotale piuttosto imitano,
essendoci di mezzo la secolarizzazione, e nei quali i militari, i capi partito
ed i tecnici sono stati di volta in volta la parodia del “filosofo” platonico,
se non altro perché quest’ultimo, nel pensiero dell’ateniese, aspirava alla
conoscenza archetipica, iperuranica, quindi metafisica e trascendente, mentre
gli altri solo al potere o tutt’al più alla pretesa di scientificità
dell’ideocrazia di umana invenzione. Sicché è improprio paragonare ai
totalitarismi del XX secolo, ed alle tecnocrazie bancocratiche che sembrano il
nuovo emergente Potere in questo inizio del XXI secolo, la concezione
certamente aristocratica dell’ateniese, che però altro non faceva che
idealizzare la dumeziliana tripartizione funzionale, non solo indoeuropea ma
propria a tutte le società antiche, avendo quale esempio coevo concreto
l’oligarchia guerriera di Sparta, di sicuro affatto tenera ma non meno
dell’imperialistica e colonialistica nonché guerrafondaia democrazia ateniese.
Senza dubbio in Platone sussiste ed è
evidente l’idea di una gerarchizzazione castale legata in qualche modo al
sangue ossia alla trasmissione ereditaria delle “virtù” – l’ideale di “bellezza
e bontà” ossia la καλοκαγαθία –, o perlomeno delle basi potenziali di
tali “virtù”, che, secondo il suo pensiero, abilitano sia alla conoscenza metafisica sia al
comando, sicché senza detta trasmissione nessuno potrebbe invero aspirare alla
conoscenza ed al potere legittimo. Questo è il “Plato antichristianus”, quello
pagano e gnostico che svaluta da un lato la carne come ontologicamente nefasta,
troppo valutando l’iperuranio come eccessivamente distante dal mondo,
concependo la Trascendenza sconnessa a tal punto dall’immanenza da esserci un
abisso incolmabile se non per chi è dotato appunto, per nascita, del potenziale
iniziatico.
Tuttavia già la questione della
comunanza delle donne, sicché i filosofi dovrebbero assicurarsi una discendenza
indipendentemente da una sequenza rigidamente dinastica, sta lì a dimostrare
che Platone intravvede la mobilità sociale e persino una potenziale eguaglianza
tra gli uomini con relativizzazione dell’ordinamento castale, anche in ordine
all’accesso alla conoscenza metafisica, che non sembra più esclusivamente
riservata ad aristocrazie di sangue ma – si tratta indubbiamente di una
idealizzazione tipicamente platonica – a chiunque sia nato da un filosofo, dove
nel concetto di nascita inizia a profilarsi quella “nascita spirituale”, se
vogliamo già sacramentale dal momento che i sacramenti possono anche concepirsi
come iniziazione al Mistero, che è tipica del battesimo cristiano il quale,
appunto, non conosce preclusioni di casta o di razza. Insomma non è possibile
negare che in Platone sussistano, insieme a posizioni “pagane”, intuizione già
profondamente cristiane sia riguardo, al netto dell’eccessiva svalutazione
idealistica della materia presente nel suo pensiero, alla Trascendenza sia
riguardo al modo di concepire la Comunità politica. Ecco perché i Padri della
Chiesa hanno potuto recuperare un “Plato christianus” e farne un precursore,
quasi un profeta o un preparatore, della Rivelazione cristiana tra i gentili.
Ora, non è a quanto di pagano c’è nel
pensiero platonico che si dovrebbe far riferimento. Non è certo l’ordinamento
per caste, per quanto aperto ad una certa mobilità sociale, che dobbiamo
rivendicare del pensiero platonico e neanche la pretesa che un tale ordinamento
corrisponda ad una tripartizione cosmicamente predeterminata che si rispecchia
nella tripartizione dell’anima dacché l’umanità sarebbe rigidamente suddivisa,
secondo una concezione evidentemente gnostica, in uomini spirituali, destinati
solo essi alla salvezza iperuranica, uomini psichici, di incerto destino, e
uomini tellurici, inevitabilmente dannati, senza alcuna possibilità di
commistione tra tali categorie, – va comunque ricordato che in Platone la
prevalenza di una o dell’altra parte del’anima, dell’anima di ciascun uomo che
è per tutti tripartita indipendentemente dal rango sociale, sembra, in certi
passaggi della sua opera, qualcosa che ha a che fare più con l’ascesi personale
che con l’appartenenza di nascita: ed anche questa è una intuizione
pre-cristiana dell’ateniese.
Quel che deve essere tenuto presente del
pensiero filosofico-politico platonico è, piuttosto, se si accetta il “Plato
christianus”, l’Ordine Etico che è sotteso alla tripartizione in questione e
che solo in quanto etico può rivelarsi anche come Ordine Cosmico, e viceversa.
Infatti la tripartizione platonica dice una cosa del tutto cristianamente
sottoscrivibile ossia che il fondamento dell’Economico è nel Politico ed il
fondamento del Politico è nel Teologico intendendo quest’ultimo come
rivelazione dell’“Amore di Dio e del prossimo” che è l’essenza della Legge
divina e, conseguentemente, naturale (Mt. 22, 37-40; Lc. 10, 25-28).
Questo postula il riconoscimento – che,
come abbiamo detto, è libera scelta del cuore umano, sia di ciascuno nella sua
singolarità personale sia, nello stesso tempo, di tutti gli uomini viventi
nella Città politica – di un superiore fondamento tanto della Comunità politica
quanto della società civile, quest’ultima coincidente con l’ambito delle
relazioni di scambio (perché questa, in fondo, e non altro come pure credono i
liberali ma anche i sostenitori dell’“economia civile”, è la società civile),
quindi di un superiore fondamento tanto della Giustizia distributiva, che
presiede verticalmente al Politico, quanto della Giustizia commutativa, che
presiede orizzontalmente all’Economico.
Questo superiore fondamento è
squisitamente teologico ed è attingibile, nell’Amor Dei mediante lo Spirito, la
preghiera ed i sacramenti, da ciascun uomo e da tutti gli uomini senza
distinzioni castali o di razza, pur nel riconoscimento delle naturali ed
innegabili differenze vocazionali e di talento che li distinguono. Sicché nella
distinzione tra Dio e Cesare, distinzione che oltretutto si manifesta
nell’Universalità spirituale dell’Ecclesia a cospetto della particolarità e
pluralità naturale delle nazioni, trova conferma, benché nella nuova Luce
apportata dalla Rivelazione, la gerarchica tripartizione platonica tra
Teologico, Politico, Economico, esattamente in questo ordine e non al
contrario, e trova conferma la sovra-ordinazione, non però teocratica ma
pre-politica e morale, della Chiesa sulla Comunità politica e sulla sfera
economica.
Infatti, nonostante i cortocircuiti di
tipo appunto teocratico, storicamente manifestatisi dalla svolta costantiniana
in poi (benché si dovrebbe piuttosto dire dalla svolta teodosiana), e
provvidenzialmente ormai superati, la Chiesa mai potrà rinunciare al proprio
diritto-dovere, che è parte essenzialmente del mandato che ha ricevuto dal Suo
Signore, di indicare all’umanità la giusta via da percorrere sia nella sfera politica
sia nella sfera economica, quindi sia alla Comunità politica sia alla società
civile. Un diritto-dovere che è inevitabilmente esercizio di un potere, benché
morale, di giudizio in Nome di Colui che, essendo insieme Giustizia e
Misericordia, non è venuto per condannare ma per salvare il mondo ma la cui
parola è già automaticamente condanna, ora e nell’ultimo giorno, per chi la
rifiuta (Gv. 12, 44-50).
Ma, a questo punto, la questione nodale
che viene al pettine del cattolico liberale, il quale sposa il pensiero di
Popper e quello di Hayek, è quella, dirimente ed insormontabile,
dell’inammissibilità tanto per Popper quanto per Hayek, nonostante ogni
contorsionismo dialettico, della possibilità stessa della Verità oggettiva – ed
anche laddove i due grandi pensatori liberali la ammettessero non potrebbero
che restarvi deisticamente indifferenti – e quindi dell’inammissibilità della
legittimità di un preteso Ordine etico tripartito platonico-cristiano. Come
pure dell’inammissibilità della pretesa ecclesiale di guidare moralmente gli
uomini anche nella loro dimensione relazionale e pertanto politica e civile.
Infatti, da un punto di vista coerentemente liberale, anche se da parte
cristiana viene chiaramente rifiutata la teocrazia, che non è affatto cristiana,
non potrà mai essere accettato il diritto-dovere della Chiesa di indicare la
via agli uomini, in quanto poi, in concreto, tale diritto/dovere comporta
inevitabili inferenze e riflessi, le cui modalità sono e devono essere senza
dubbio storicamente condizionate e modulabili, sul Politico e sul Civile.
Inferenze che un liberale puro non può ammettere. Nella pretesa docente della
Chiesa Popper ed Hayek non possono non vedere che un arbitrario autoritarismo,
un dogmatismo, che fa violenza alla libertà dell’individuo assoluto,
ab-solutus, che per essi è l’unico metro di valutazione del reale. Ed è questo
il punto insormontabile, dall’una e dall’altra parte.
Luigi
Copertino
NOTE
1) Cfr. D. Antiseri “Una linea di
demarcazione tra società aperta e società chiusa”; facciamo qui riferimento
al testo trasmesso on line il 19.09.2014 dal Centro Tocqueville-Acton, che è il
nome originario della Mont Pelérin Society ossia di quella sorta di
“massoneria liberista” la quale, negli anni del keynesismo trionfante
dell’immediato dopoguerra, lavorava alla preparazione della svolta neoclassica
e monetarista attuata poi dalle amministrazioni Reagan e Thatcher,
rispettivamente negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
2) Cfr. A. Del Noce “Prefazione” a Marcello Veneziani “Processo
all’occidente – la società globale e i suoi nemici”, Sugarco, 1990. Un
esempio concreto di questa reificazione mercantile della dignità umana è dato
dalle recenti modifiche, già in atto o sul punto di diventare tali in tutti i
Paesi aderenti alla cosiddetta zona euro dell’UE, nella legislazione dei
rapporti di lavoro. Modifiche che configurano, nella sostanza, un ritorno al
tempo del “padrone delle ferriere”. Abbiamo assistito, di recente, in un
programma televisivo all’intervista di un imprenditore italiano stabilitosi in
Germania entusiasta del sistema lì già vigente di agenzie private le quali,
come appunto si fa con una qualunque merce, forniscono lavoratori alle imprese che
li utilizzano fino a quando ne hanno bisogno per poi disfarsene, senza altri
indugi, come fossero cose o schiavi, ponendo inoltre i costi sociali dei
periodi di disoccupazione a carico dello Stato ossia della spesa pubblica,
tanto criticata dai capitalisti ma non quando è utile ai loro tornaconti. Si
tratta di un sistema oltretutto assolutamente cieco circa gli effetti,
destabilizzanti nel lungo periodo per una qualsiasi economia,
dell’impossibilità di costruire tra imprenditore, impresa e lavoratore un
rapporto consolidato di fidelizzazione e reciproca fiducia, a tutto vantaggio
della produttività e dell’utile sociale
dell’azienda il quale poi costituisce l’oggetto della ripartizione, che
dovrebbe essere equa, tra capitale e lavoro del reddito derivante dalla
produzione.
3) Cfr. K. R. Popper “La società aperta
e i suoi nemici”, Armando, 1994.
4) La differenza tra filosofo e sofista
sta, per Platone, nel diverso atteggiamento verso la Verità. Mentre il primo,
il vero filosofo, ricerca costantemente ed infaticabilmente i principi della
verità, senza tuttavia la presunzione di possederla, il secondo, il sofista,
che in politica si rivela spesso un demagogo, si lascia guidare dall’opinione
soggettiva, facendone l’unico parametro valido della conoscenza. Come
osserva G. Movia, nel saggio “Il ‘Sofista’ e le dottrine non scritte di
Platone”, in “Verso una nuova immagine di Platone”, pag. 233, Vita e
Pensiero, 1991, «La sofistica imita la filosofia nel suo interesse per
l’“intero”. Tuttavia, mentre il filosofo … non presume di avere scienza di
tutto, di possedere tutte le scienze e tutte le tecniche, ma si propone di
esibire i fondamenti primi delle scienze e delle tecniche, il sofista, invece,
pretende di conoscerle tutte». Ora, questa “umiltà” del filosofo platonico,
per il quale la Verità non è cosificabile, non è reificabile, e quindi non è
sofisticamente manipolabile, è la migliore confutazione del “Platone
totalitario” immaginato da Popper.
5) Cfr. J. Ratzinger “Fede, Verità,
Tolleranza – Il Cristianesimo e le religioni del mondo”, Cantagalli, Siena,
2005, pp. 121-122.
6) Cfr. S. Cotta “La città politica di
Sant’Agostino”, Milano, 1960. Si veda in proposito anche il saggio di
Maurizio Manzin “La dottrina delle due città – il sacro e il politico in
Agostino e nell’agostinismo medioevale” ne I Quaderni di Avallon, Rimini,
Il Cerchio, numero 5 – 1984, pp. 67- 90.
7) Le citazioni in questione sono riportate
da Antiseri nel suo articolo di cui alla precedente nota numero 1.
8) Cfr. F. Felice “70 anni di Bretton
Woods e la perenne tentazione del serpente” in “Europa”, 25 luglio 2014. In detto articolo, criticando
le proposte favorevoli ad una soluzione politica, della attuale crisi
economica, mediante strumenti di tipo keynesiano quali l’istituzione di
un’Autorità confederale (non centralisticamente federale!) regolatrice degli
squilibri delle bilance dei pagamenti tra gli Stati aderenti all’euro –
attraverso la trasformazione della moneta unica in moneta contabile comune e
l’applicazione di sanzioni sia verso le posizioni di deficit che verso quelle
di surplus commerciale e finanziario – si riafferma la cieca fiducia nelle
capacità auto-regolative del libero mercato e, quindi, nonostante l’evidente
disastro provocato da detta liberalizzazione attentamente studiata nei suoi
effetti destabilizzanti da Hyman Minsky, la piena fiducia nella assoluta
ed incontrollata libertà di circolazione dei capitali. La liberalizzazione
della circolazione incontrollata dei capitali finanziari è, infatti,
responsabile della colonizzazione economica, con contestuale esplosione degli
squilibri commerciali, delle economie meno forti da parte di quelle che
adottano un aggressivo approccio mercantilista. Colonizzazione causata,
appunto, dall’asimmetria naturale del libero mercato che, come ha dimostrato un
allievo di Minsky, Roberto Frenkel, si manifesta, con tutte le conseguenze di
distruzione sociale ed economica che ne derivano per la Nazioni risultanti
perdenti nella partita, tra Paesi forti
e Paesi deboli quando le loro economie vengono unite artificialmente nella
rigidità di un cambio fisso o peggio nella rigidità di una moneta unica. Questo
è esattamente quel che è successo, nell’UE, tra la Germania e gli Stati euro-mediterranei,
con l’introduzione dell’euro.
9) La citazione è riportata da Antiseri nel
suo articolo di cui alla precedente nota numero 1.
da www.domus-europa.eu