Non guardo quasi
mai i film della televisione, se non sono ben vecchi. Anche quelli proiettati
nelle sale o multisale mi interessano assai di rado, salvo che costituiscano
oggetto di un particolare clamore o che io venga a sapere che sovrastano
decisamente il conformismo e la volgarità. Sono così nauseato da questi due ingredienti
di quasi tutte le cucine, che trascuro il cinema contemporaneo nel suo insieme.
Trovandomi, per motivi fortuiti, privo della
raccolta delle scelte registrazioni che mi procuro e che sono solito vedere o rivedere
sullo schermo televisivo la sera per rilassarmi, ho dato una scorsa ai vari canali
e mi sono imbattuto in un gruppetto di soldati avviati al fronte di El Alamein;
mi sono detto: vediamo un po’ dove il regista va a parare. L’uscita di questo El Alamein – La linea del fuoco era relativamente
recente, lo attestavano i volti degli attori, sicché, per meglio dire,
intendevo constatare fin dove si fosse giunti col discredito delle nostre armi e
col pacifismo, con la retorica dell’antiretorica e con i compiacimenti dello
stile elaborato.
In sostanza, era tutto prevedibile e tutto
tornò. Ma ho dovuto prendere nota della scaltrezza acquisita nella messa in
scena, per lo meno riguardo alla tematica.
La giovane recluta Serra, dal quale si desta
quasi modestamente e ad ampi intervalli la voce del soggetto narrante, e con
lui gli altri due principali protagonisti: il sergente e il tenente, non sono
testimoni apertamente critici, delusi e rivoltati. Ma proprio la pacatezza del
commento e una certa ignara ingenuità del sottufficiale, una fedeltà soltanto
perplessa dell’ufficiale, il loro senso dell’onore sottilmente svalutato,
iniettano la forte dose di veleno nello spettatore.
Due sequenze farebbero annusare a un naso
genuino, ancorché disposto favorevolmente, l’odore del tossico. Non so se vi
fossero precedenti franche emanazioni di cattivi sentori, perché ho cominciato
la visione quando la storia era circa a metà del primo tempo. Poco importa. Col
primo episodio si indulge ai sentimenti dissacratori e al gusto dello scabroso.
Chissà come, quei destinati al fronte, prima della battaglia decisiva vengono a
trovarsi preso la riva del Mediterraneo. Stremati e accaldati, reduci da vari
patimenti, essi si gettano come mamma li ha fatti nelle acque d’una spiaggia linda
e sconfinata, che rappresenta il sogno degli odierni vacanzieri.
Nessuno ha mai pensato che i fanti del Regio
Esercito fossero dei pudichi collegiali, sennonché il senso del pudore di quel tempo
rende improbabile un loro bagno in costume adamitico (alquanto ostentato dalla
macchina da presa), e l’improbabilità rende gratuita e losca la rappresentazione.
Il secondo episodio depone molto peggio.
Durante la ritirata successiva al travolgimento della prima linea da parte dei
carri armati inglesi, i pochi supersiti del Reggimento incontrano un generale
occupato a seppellire il proprio attendente, dopo che anche la loro camionetta
è stata colpita e messa fuori uso. L’alto ufficiale rifiuta ogni aiuto, resta
sul posto, finito di ricoprire la salma con sabbia e pietrisco, fa il segno
della croce e si spara.
Il gesto dell’uomo adombra un attaccamento
morboso al suo attendente; e l’umanità del suo volto è per rendere degno questo
suicidio. La scena giustifica la ritirata solitaria dei due, interrotta
dall’attacco nemico. Di nuovo, il caso proposto (la cui scelta, in un lavoro
narrativo, assume inevitabilmente un valore generale) è falso sotto un duplice
aspetto: perché non consta che comandanti di tal fatta ce ne fosse molti, e
perché una condotta di quel genere non meritava la comprensione, tanto meno era
suscettibile di apprezzamento.
Passato attraverso le dure prove della
dissenteria e dell’armamento, del cibo, dell’acqua troppo scarsi, nelle trincee
ardenti per la calura diurna e gelide la notte, la recluta Serra si aggira sul
terreno disseminato di morti e di feriti, dopo l’attacco travolgente e respinto
una prima volta dalla nostra artiglieria.
Siamo alla svolta cruciale, ideologica. “A
scuola ti insegnano: fortunato chi muore da eroe, ma i morti non sono né
fortunati né sfortunati, sono morti e basta”.
Passiamo sopra la nota aggiunta subito dopo, che
lo sceneggiatore mette in bocca al ragazzo circa il puzzo dei cadaveri, e sopra
qualche scena truculenta di ferito e di amputato, ove tutto si riduce alla
disgrazia. La negazione dell’eroismo - che a quella scuola veniva additato, in
fondo, come l’ottimo atteggiamento da assumere davanti alla perdita della vita
nel combattimento - giunge ancora una volta dal punto di vista del soldato
ingeneroso, se non indegno.
La questione è annosa, ma prettamente
moderna. Che cos’è la guerra dei due schieramenti opposti, in trincea o
altrove? Che cos’è per il combattente? Abbiamo testimoni e opere letterarie
antitetiche. Di qui: un Henry de Montherlant, un Piero Operti (Il convito della speranza) e tanti altri che non inorridiscono,
non tremano, non maledicono, non rinnegano né disertano. Di là: un E.M.
Remarque (Niente di nuovo sul fronte
occidentale), un Hemingway (Addio
alle armi), cioè il contrario o meno del contrario, ma sempre qualcosa che
pianta il seme dell’irrealismo fondamentale (la guerra può essere evitata e non
è mai giusta) e del rifiuto codardo, dello scampo fellone. In genere, i
sentimenti e gli argomenti pretestuosi sono gli stessi che negano la santità e
il suo eroismo.
Al riguardo, possiamo avere tre categorie di esseri
umani, implicati o meno nella guerra: colui che bada al meglio, al sacrificio
dovuto e nobile; colui che, pur avendo un’indole imbelle, pregia i valori;
colui che li misconosce e disprezza. Certamente si può rappresentare
artisticamente quest’ultimo individuo, ma si partecipa della sua misera falsità
quando in qualche modo lo si condivide.
La vicenda dei singoli, appartenenti a un
reggimento della divisione Pavia
schierata a lato della Folgore, si
inserisce nella battaglia disperata, sostenuta a cavallo dei mesi di ottobre e
novembre del 1942, contro le preponderanti forze avversarie. Essi, con un
misero gruppo di sopravvissuti, seguono le tappe di un lungo ripiegamento
compiuto quasi esclusivamente a piedi, secondo qualche sommaria disposizione
dei comandi. Raggiunti dagli inglesi che li incalzano, i militari si arrendono
senza che il tenente intervenga o possa intervenire. Tuttavia egli, il sergente
e il fante Serra proseguono nella ritirata per raggiungere i reparti italiani,
con la speranza di far ritorno in Patria. L’ufficiale ferito non regge alla
marcia estenuante e il sergente resta con lui, mentre, sulla motocicletta
trovata nel deserto e fatta ripartire, il ragazzo è inviato solo in direzione
Ovest.
Due parole sulla confezione artistica, che
non smentisce l’uso corrente. La cura del mestiere è innegabile, però le
sequenze ben variate e calibrate cedono al compiacimento formale. Dagli anni
Sessanta si è perduta la misura del ritmo, dell’essenziale, e se oggi i
cineasti hanno ovviato abbastanza alle lentezze esasperate (p.e. di Antonioni e
Patroni Griffi), è tuttavia andata perduta la forte sobrietà richiesta dalla
narrazione cinematografica.
Su internet ho appreso i dati del film:
uscito nel 2002, regista Enzo Monteleone, premiato con tre David di Donatello e
un Nastro d’Argento, riconosciuto d’interesse culturale nazionale dalla
Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività
culturali.
Non ci resta che rimpiangere Divisione Folgore (1954) di Duilio
Coletti e abbastanza La battaglia di El
Alamein (1969) di Giorgio Ferroni, i quali, senza togliere nulla al
realismo, guardarono al meglio e non al peggio, che non emerse in quella
sconfitta gloriosa; né al peggio possibile aderirono in qualche maniera.
Piero Nicola
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