mercoledì 30 settembre 2015

La luce della santità nella vita di San Tommaso d'Aquino

 Il santo è irremovibilmente fermo nei princìpi poiché ha la Fede, mentre è misericordioso nella pratica poiché ha la Carità  infusa. Invece il liberale è molto largo nei princìpi e pronto al compromesso o all'accomodamento dottrinale poiché non ha lo spirito di Fede mentre è rigido e acido nella pratica poiché non ha  la vera Carità soprannaturale”.
 Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange o. p.


 Giravolte mentali e fughe nei dubbi suscitati dal Vaticano II hanno ispirato compromessi liberali con gli eretici e suggerito caramellosi baci sui testi delle religioni elucubrate nelle officine dell'errore e della bestialità.
 L'assenza di difese immunitarie e l'oblio dell'avvertimento lanciato a tempo debito dal cardinale Louis Pie - “non esiste peggior settario e intollerante di un liberale” - sono le vere cause della crisi liberale in atto nella teologia e nella prassi del Vaticano.
 L'alterazione della dottrina e il volo della catechesi in un cielo sentimentale, popolato da pensieri filanti come strisce di carta colorata, hanno ispirato le incaute e veneranti escursioni dei teologi e dei vescovi buonisti nelle biblioteche della modernità e dell'esotismo.
 Tali viaggi hanno alterato il pensiero cattolico, che ora è umiliato e tormentato da una generazione di teologi avventizi, impegnati a difendere con irosa superbia opinioni giornalistiche e squillanti banalità.
 Di qui l'obbligo di riflettere sulle virtù – sapienza e misericordia - che hanno nobilitato la vita e l'opera di San Tommaso d'Aquino. Lo rammenta don Curzio Nitoglia, autore di una pregevole Breve vita di San Tommaso d'Aquino, edita da Effedieffe in questi giorni.
 Il Dottore comune ha corretto “qualche autorità cristiana (specialmente qualche teoria non pienamente sistematizzata dai Padri ecclesiastici) e lo ha fatto interpretando reverenter le loro opinioni o dissentendo educatamente o facendo dire correttamente (specialmente a S., Agostino) ciò che non avevano detto in maniera corretta”.
 Sant'Alberto Magno aveva insegnato all'Angelico il metodo necessario alla soluzione delle dispute, che dovevano essere affrontate e risolte “senza sprecar parole, evitando le ripetizioni, le ampollosità retoriche, le esclamazioni eccessive e gli aggettivi esuberanti”.
 Di qui la tesi sull'umiltà cui è obbligato lo studioso cattolico: “lo studio è anche una penitenza e una disciplina di purificazione, perché preserva la mente dai pensieri inutili e nocivi e castiga il corpo con la fatica che comporta”.
 Ai revisori zuccherosi e agli storditi frenatori dell'opera tomasiana, don Nitoglia rammenta che l'Aquinate, fedele alla tradizione domenicana, fu anche un polemista seriamente impegnato a confutare musulmanesimo e giudaismo, errori ultimamente coperti del timoroso silenzio della gerarchia post-conciliare.
 Al proposito l'autore rammenta che Santo delle Crociate, Luigi di Francia amava molto San Tommaso e lo aveva come consigliere spirituale ed anche come guida per meglio governare”.
 Puntuale è la valutazione dell'opera di San Tommaso, il quale “non solo studiò e commentò Aristotele, ma lo perfezionò, lo sublimò e, in un certo senso, lo trasfigurò senza alterarlo e deformarlo. Si dice comunemente che Aristotele, studiato come è in sé è simile ad un magnifico quadro visto al lume di una torcia, mentre studiato alla luce di San Tommaso è visto alla luce del giorno pieno”.
 Il genio dell'Aquinate rettificò e integrò l'opera geniale di Aristotele dimostrando, con inconfutabili argomenti di ragione, che la Causa prima, da Aristotele contemplata nell'eternità increata, era il perfettissimo Creatore rivelato ai credenti.
 Di qui il giudizio che conclude felicemente il saggio di don Nitoglia: “l'unico vero antidoto al veleno (intellettuale, morale e spirituale) idealistico/moderno e nichilistico/postmoderno è l'Angelico nella sua vita da imitare e nella sua dottrina da conoscere e da spiegare agli altri”.
 Lo studio della filosofia tomista è il primo passo sulla via d'uscita dal fumoso delirio, che spinge i teologi modernizzanti (e al proposito non è possibile tacere il nome del defunto cardinale Carlo Maria Martini) a inseguire i filosofi dopo Cartesio nelle fosse scavate dalla miscredenza e dalle ritornanti superstizioni.

 Piero Vassallo

La fede e la ragione dopo il delirio sessantottino

 Lo stato comatoso della filosofia postmoderna dimostra finalmente che le tenebre non alloggiavano nella Scolastica medievale ma negli occhi della civetta hegeliana, che spiccò il volo in direzione del cimitero francofortese, in cui sono caduti i pensieri a monte delle moderne rivoluzioni.
 Emblema della catastrofe ultimamente inseguita dalla mente rivoluzionaria è il furore sprigionato dall'irrazionalismo sessantottino. Il fine della rivoluzione ultima era evocare l'ectoplasma del pensiero selvaggio e riversarlo nella democrazia giovanile. Di qui l'irruzione della sofistica fulminante, che si manifestò nell'urlo di Herbert Marcuse, secondo cui il principio di identità e non contraddizione è strutturalmente e colpevolmente fascista.
 Priva di identità e in guerra spietata contro la logica, la sofistica si riduce all'illuminazione di una scena desolata, che rappresenta lo squillante trionfo della magia nera, officiata dai banchieri e dagli ectoplasmi politicanti.
 Banchieri ventriloqui, travestiti da pii educatori, tirano i fili di burattini decerebrati, mettendoli al lavoro nei luoghi deputati all'obbedienza alla chiacchiera e alla scrittura medianica.
 La banca, ultimamente, persuade i maestri del vaniloquio laico e/o clericale a benedire e soccorrere i nemici della Cristianità, che attraversano l'ex mare nostrum.
 Allarmata dalla tranquilla, ecumenica invasione dell'errore maomettano, la minoranza pensante del clero e del laicato cattolico comprende la necessità di riflettere sull'urgenza di rivalutare le difese immunitarie attive nel pensiero cattolico.
 Di qui l'attenzione all'opera di San Tommaso d'Aquino, l'ingente eredità scialacquata dalla setta dei modernizzanti, durante gli anni del vano inseguimento delle antichità sofistiche, in discesa rovinosa sulle piste battute dalla sedicente avanguardia cattolica.
 Quantunque nascosta dalle nebbie franco-germaniche, emanate dal concilio Vaticano II, la vitalità della metafisica tomista è dimostrata dal progressivo avvolgimento dei più avanzati sistemi prodotti dal mondo moderno nella spirale sofistica, che, lo rammenta l'autorevole Antonio Livi, ha ultimamente rovesciato il pensiero laico “in una verità di tipo gnostico, incomunicabile perché del tutto priva di agganci con i dati dell'esperienza comune”.  
 Alla modernità caduta nell'ultra-antico, si oppongono il rinnovato interesse per il pensiero dell'Aquinate e l'attività di case editrici attive controcorrente (Studio domenicano, Edivi, Vita & Pensiero, Leonardo da Vinci, Fede & Cultura, Effedieffe, Solfanelli ecc.) che pubblicano le sue opere e/o i commenti di illustri studiosi cattolici (Guido Matiussi, Réginald Garrigou-Lagrange, Cornelio Fabro, Etienne Gilson, Tito Centi, Thomas Tyn, Rosa Goglia, Elvio Fontana, Paolo Pasqualucci)  che ne hanno rivendicato l'attualità.
 La più recente iniziativa della casa editrice Fede & Cultura, intesa alla riconquista della dignità, che appartiene alla filosofia perenne, è una, nuova edizione de La sintesi tomistica, un testo di Garrigou-Lagrange (1877-1964), sapientemente introdotto e commentato da Antonio Livi.      
 La necessità di riabilitare il tomismo, aggredito dal delirio teologico dei neo-modernisti, dipende (lo afferma Livi nella prefazione) dalla esigenza di ristabilire la verità intorno alla ragione e di confutare il delirio postmoderno intorno alla filosofia, che non può provare nulla contro la fede: “San Tommaso dimostra come la filosofia debba essere studiata per se stessa e per stabilire in modo puramente razionale i preambula fidei, accessibili alle forze naturali del nostro intelletto”.
 L'Aquinate ha sostenuto con argomenti inattaccabili,  che “la ragione non può provare nulla contro la fede”, e pertanto ha difeso, contro l'opinione degli averroisti, la libertà dell'atto creatore, la creazione non ab aeterno, il libero arbitrio dell'uomo, l'immortalità personale dell'anima umana.
 Va rammentato che la filosofia di San Tommaso esclude l'eventualità (ammessa da Cartesio) di un inganno prodotto dalle cose create. Garrigou-Lagrange cita al proposito l'argomento che gli scolastici del Seicento, interpretando correttamente la dottrina tomista, hanno rivolto contro il cogito cartesiano, pietra d'angolo del castello in aria costruito dall'oblio della filosofia perenne: “Se il principio di contraddizione non fosse certo, potrebbe darsi allora che io esista e non esista, che il mio pensiero personale non si distingua più da un pensiero impersonale e che quest'ultimo non si distingua più dal subcosciente o persino dall'incosciente”.
 Rilevante è la confutazione, formulata in base alla dottrina tomista, della tesi kantiana sulla causalità: “Dire con Kant che la causalità è soltanto una categoria soggettiva del nostro intelletto equivale a dire che l'assassino non è realmente causa dell'assassinio per il quale è stato condannato”.    

 E' da augurarsi che le poche citazioni tratte dall'ingente apparato di argomentazioni proposte dall'autore, faccia emergere il desiderio di approfondire la filosofia tomista, insostituibile guida degli aspiranti alla liberazione dagli incubi concentrazionari in ostinata circolazione nel cimitero della modernità.

Piero Vassallo

martedì 29 settembre 2015

DEMOCRAZIA NON TOTALITARIA? (di Piero Nicola)

Da varie parti, persone oneste si indignano perché i pubblici poteri domestici o sovranazionali, formalmente democratici, hanno mostrato di essere totalitari. In particolare, questo sdegno crescente si è avuto in occasione delle manovre governative per stabilire leggi e introdurre insegnamenti scolastici in modo sleale, non democratico, carpendo la buona fede del popolo.
  Beata ingenuità! si potrebbe osservare. O in che mondo vivono questi signori dabbene? Sennonché si tratta di persone vigili, colte, che non si fanno irretire e si battono, specie con la penna, per la buona causa della legge eterna. E allora che cosa significa la fiducia da essi riposta nel sistema democratico, nella sua garanzia contro il totalitarismo, o meglio, contro il cattivo totalitarismo?
  Intanto c'è da domandarsi che idea essi abbiano del regime totalitario, visto che di sistemi dittatoriali o oligarchici o comunque autoritari, reali, se ne sono visti e se ne vedono parecchi e molto differenti.
  Si può convenire che le democrazie reali e non teoriche (si dimostra però che la puntuale attuazione della democrazia teorica genera ingiustizia andando contro natura) rendano più difficile prendere provvedimenti contrari al bene comune rapidamente, e servirsi d'una propaganda incontrastata, almeno all'interno del paese. Ma chiunque non s'immedesimi troppo nel sovrano popolare e nelle lusinghe delle libertà di espressione e del diritto di voto, e faccia un buon uso spassionato dell'intelligenza, deve accorgersi che in tutte le democrazie dirige l'orchestra un'oligarchia, più o meno variegata, quasi come avviene nei regimi autoritari, anche autocratici (non c'è sovrano assoluto che possa decidere e dirigere tutto da solo e di testa sua); deve ammettere che i partiti e il governo, di qualunque colore esso sia, determinano l'opinione pubblica, i costumi e, in qualche modo, ottengono quello che vogliono.
  Dunque, la differenza sostanziale tra un sistema politico e l'altro è apparente. A onor del vero, una differenza c'è. In democrazia, i partiti al comando hanno al vertice uomini d'indeterminata provenienza, che non danno altra assicurazione al di fuori della loro abilità politica, ed essendo in competizione fra loro, non v'è certezza alcuna che emergano i migliori. Se poi questi dovessero prevalere, i cattivi e corrotti sono molti: secondo le regole del gioco, mettono i bastoni tra le buone ruote. Inoltre, i reggitori democratici dipendono da un partito, sono condizionati dalle sette, dai poteri forti del paese e ancor più dell'estero. Viceversa un autocrate è molto più libero, e potrà essere ignorante, cattivo, perverso, oppure alquanto capace, saggio e benefico, se non benefico affatto (p.e. un re santo, un sovrano cattolico, come ce ne furono in Francia, Spagna, Svezia, ecc. e, in tempi recenti, un Salazar, fu in discreta armonia con la nostra buona Chiesa).
  Circa i rigori degli stati totalitari, può fare un maggior numero di vittime innocenti il disordine e il machiavellismo degli stati liberali.
  Perciò quei nostri amici che si battono onorevolmente per la giustizia, conviene che si rendano davvero liberi, liberati dal pregiudizio, dal tabù o dal mito della democrazia. Ne saranno fortificati.
  Capisco che qualora manifestassero la loro cognizione delle attuali costituzioni e istituzioni e delle loro fatali messe in pratica, andrebbero incontro a incomprensioni disdicevoli, però la chiarezza interiore, che è in grado di fare il punto con i debiti riferimenti e non con abbagli, dovrebbe evitare di addurre questi ultimi nei giudizi, e si può tacere prudentemente per non destare scandali nell'uditorio impreparato.
  Quali valori, quali vantaggi, quale bene comune sono venuti dalle celebri carte dei diritti del cittadino, dai principi delle rivoluzioni d'America e di Francia, dai sistemi politici da essi generati? Ne sono sortiti empio laicismo, crescente negazione del diritto naturale, sino alle aberrazioni legislative a cui stiamo assistendo. E non si venga a dire che l'arbitrio della sovranità popolare, delle leggi emanate da autorità svincolate dalla rettitudine, che il vizio legalizzato e tanta decadenza delle coscienze derivano dalle manipolazioni della democrazia, dai tradimenti perpetrati ai suoi danni. Sarebbe disconoscere il peccato originale, sarebbe presumere che l'uomo reso arbitro del bene e del male, senza dover sottomettersi alla guida che è custode della vera giustizia, divenga giusto di per se. Purtroppo una finta chiesa ha acconsentito a questa chimera storicistica dell'uomo fattosi accorto degli errori e capace di rettificarsi. Ovvero si è acconsentito alla sciagurata tesi crociana per la quale la libera gara delle forze e delle facoltà consegue l'auspicabile risultato, quasi in virtù d'una selezione naturale.
  I fatti dimostrano a iosa come niente di ciò accada. I lupi in veste filantropica hanno il sopravvento, e il pascolo dei lupi è proprio la democrazia. Non è pessimismo sull'essere umano, è dottrina cattolica priva di edulcorazione, di falsificazione.
  Non sono i padri delle libertà abusive e dell'uguaglianza immaginaria e sovvertitrice ad aver esaltato la natura umana, contro la sua realtà e contro la norma rivelata? Sono loro i campioni del regime democratico. Che cosa c'era da aspettarsi se non corruzione, perversione e il dominio ipocrita e artatamente violento? Quale moderna democrazia si è uniformata alla Legge di Dio, dando buona prova, anziché allontanarsene e rendersi permeabile alle cattive influenze? Ne è una conseguenza il disastro che ci colpisce (progressiva menomazione della famiglia, della identità e della tradizione nazionali, denatalità, malcostume, libertinaggio, mafie invadenti, droga, ateismo, nichilismo, religione falsificata, ecc.).
  Il liberalismo è essenzialmente democratico,  violenta le coscienze, usa anche metodi coercitivi adonestati, e il liberalismo è una giungla democratica, organizzata e condotta da una cricca di senza Dio e senza Patria.
  Le democrazie occidentali hanno abbattuto il nazismo e hanno contribuito alla caduta del comunismo sovietico, ma per sostituirvi la loro perversa egemonia, il loro totalitarismo. Tanto è vero che vogliono rovesciare la democrazia della Russia, perché non sarebbe abbastanza ortodossa, e non è conveniente alla loro dottrina, ai loro interessi, alle loro mire.
 

Piero Nicola

domenica 27 settembre 2015

L'Irredentismo italiano nel sud-est della Francia

 Ringrazio sempre il Signore di avermi fatto diventare professore universitario e come  tale esente dal giuramento di fedeltà alla Repubblica Italiana (intesa come regime)  in caso contrario avrei dovuto dimettermi o sarei stato spergiuro. (Giulio Vignoli)

 Infaticabile studioso e interprete geniale delle censurate e/o dimenticate vicende dei patrioti italiani attivi in territori contesi, Giulio Vignoli è un un degno erede e continuatore dell'opera di nobili scrittori quali Piero Operti e di Giovannino Guareschi.
 Vignoli, infatti, è il capofila della scuola storiografica, che, ove fosse possibile rompere il cerchio della banalità politicante, potrebbe far uscire la politica nazionale dal cerchio del pensiero impotente/urlante, intorno al quale si aggirano e prosperano spettri dossettiani, umbratili marxiani, maghi comizianti a destra, grotteschi arionordici, antichisti da palcoscenico, politologi da campo Hobbit, mezze culture e analfabeti conclamati [1].
 Ai disordinati pensatori, galoppanti nelle piste dell'emisfero destro, Vignoli indica la via maestra della ragion politica: riscoprire e fare proprio quell'amor di patria, che ha nobilitato gli italiani, da San Francesco a Dante, da Petrarca a Vico, dai patrioti italiani perseguitati dagli austriaci agli eroi delle guerre vinte o perdute nel XIX e nel XX secolo.
 L'influsso di studiosi infatuati dalla filosofia della storia elucubrata dai tedeschi ha destato purtroppo i pensieri e gli stati d'animo che rendono incapaci di comprendere il primato spirituale, culturale e civile degli italiani. Infine il patriottismo si è rovesciato nella gastronomia e nella mostra dei monumenti che testimoniano la grandezza di un irripetibile passato.
 L'umiliante scandalo messo in scena dai domenicani, che dimenticano e archiviano l'insuperata filosofia di San Tommaso per gettarsi a capofitto all'inseguimento di chimere tedesche o francesi o addirittura americane, è la misura del disordine mentale prodotto dal contagio della malattia antinazionale, che ci fu trasmessa dai vincitori della seconda guerra mondiale.
 Nel magnifico saggio L'Irredentismo italiano di Nizza e del nizzardo, edito in Roma dalla casa editrice Settimo Sigillo, Vignoli, dopo aver precisato che patriottismo “nulla ha a che fare con nazionalismo e con sciovinismo, così diffuso in Francia”, dimostra le radici dell'avversione al patriottismo, vizio circolante nell'Italia repubblicana: la riduzione del patriottismo al Fascismo, “il Fascismo demonizzato, mostro demoniaco causa di ogni male, demone immondo, non può aver pensato anche a ciò che poteva avere una qualche sua giustificazione.
 Vignoli, autentico patriota non fascista né antifascista, e perciò ammiratore della dignità degli italiani ovunque manifestata, mette il dito sulla piaga che ha tormentato la cronaca repubblicana: quell'avversione all'amor di Patria, che ha intossicato gli antifascisti (salva la impavida minoranza critica, radunata intorno a Gioacchino Volpe, Giorgio Del Vecchio, Balbino Giuliano, Carlo Delcroix, Giovanni Durando e ai già citati Giovannino Guareschi e Piero Operti) nelle opposte schiere di amici della Russia sovietica o dell'Occidente liberale.
 L'avversione del potere politico alla cultura e alla storia italiana governa la mano morta ideologica, che frena e scoraggia la qualunque ricerca della verità storica intorno agli italiani oppressi dai nazionalismi/sciovinismi stranieri.
 Al proposito di esterofilia, Vignoli rammenta un episodio surreale, il comportamento villano dei funzionari italiani in lotta contro le verità storiche sgradite ai francesi: “Per aver tentato di esporre la storia dell'agonia dell'italianità di Nizza ad un convegno presso il Consolato italiano di Nizza venivamo presi per un braccio e letteralmente trascinati via dal microfono”.
 Interessante è la rievocazione del grottesco episodio: “Siccome avevo notato che i relatori italiani non avevano accennato minimamente al perché della scomparsa, dopo la cessione, della presenza culturale italiana a Nizza, accennai alla persecuzione dell'italianità. Non lo avessi mai fatto, l'addetto culturale, certo preside Panattoni, presomi per un braccio, mi trascinava in malo modo via dal microfono”.
 La sgradevole verità emergente dall'episodio narrato da Vignoli conferma che – essendo il nome Patria umiliato dalla cultura repubblicana e retrocesso all'anodino termine paese – il patriottismo non ha cittadinanza nella repubblica nata dalla sconfitta.
 Per inciso: il delirio esterofilo, matrice dell'ideologia della repubblica, spiega le ragioni della gongolante e disarmata leggerezza con cui il governo italiano (complice il frivolo ecumenismo in corsa dissennata nei sacri palazzi) accoglie le avanguardie dell'islam.
 Agli attori recitanti sul sordo palcoscenico dell'esterofilia, Vignoli rammenta che il potere esercitato dai francesi nell'italianissima Nizza attuò una sottile oppressione, intesa a persuadere gli italiani renitenti ad emigrare. Il risultato della persecuzione esercitata nel segno dell'ipocrisia è l'esodo ingente degli italiani: “Si stima che attualmente a Nizza solo il 15% della popolazione sia di origine nizzarda”.
 Vignoli dimostra che l'italianità di Nizza si estinse per effetto della repressione della cultura, “con la congiura del silenzio e la disinformazione, che continua tuttora”.
 Opportunamente Vignoli osserva che la tendenza dei francesi ad addomesticare la verità sulla progettata e realizzata mutazione della nazionalità dei nizzardi, quantunque riprovevole è comprensibile “quella italiana è meno facile da spiegarsi se non con la viltà della Repubblica italiana, nata dalla morte della patria, spiritualmente una repubblica apatride”.
 Il furore anti-italiano circolante nella cultura di regime (lo rammenta Vignoli) si manifesta in un articolo pubblicato nella rivista “Il Veltro, periodico della Società Dante Alighieri, che dovrebbe dovrebbe diffondere la nostra lingua, in cui mi si accusa di creare dissidi fra Italia e Francia (con un libro, addirittura!) di aver citato un non citabile e cioè Ermanno Amicucci, (al rogo, al rogo...) e, ovviamente, di mire nazionalistiche se non proprio fascistiche[2].
 Nella seconda, robusta parte della sua pregevole opera di Vignoli rievoca la vicenda degli italiani renitenti agli appelli “democratici” lanciati dagli occupanti francesi. Le notizie (per lo più censurate dalla fellonia dei governi democratici) saranno prossimaente oggetto di una nota a mparte.

Piero Vassallo




[1]          In via riservata ho spedito al professore Vignoli un triste elenco dei dementi che squillano nelle prime file del desolato centrodestra.
[2]             Ermanno Amicucci (1890-1955) fu direttore del Corriere della Sera durante il periodo della Rsi. Per tale reato fu condannato a morte mediante fucilazione nella schiena. Evitò la fine toccata a Robert Brasillach perché Togliatti, consapevole dell'impossibilità di una maggioranza a-fascista, decretò un'amnistia finalizzata a captare la benevolenza dei fascisti. Amicucci tuttavia non entrò nel numero dei convertiti e svolse un'attività giornalistica scrivendo sul quotidiano anticomunista Il Tempo

L’ULTIMO LIBRO DI PAOLO PASQUALUCCI, FILOSOFO CATTOLICO: “IL CON-CETTO DELLO SPAZIO”

Da anni Paolo Pasqualucci è impegnato nell’elaborazione di cinque tesi preliminari  alla Metafisica del Soggetto, da ricostruire nel solco della tradizione aristotelico-tomistica e quindi del realismo filosofico, oggi vituperato nei salotti esangui del filosoficamente corretto.  Esce in questi giorni, per i tipi di Giuffré, il secondo volume di questa sua lunga fatica, dedicato a Il concetto dello spazio.  È un poderoso tomo di ben 650 pagine.  Allergico alle gaie quanto superficiali, sgangherate seduzioni del “pensiero debole” oggi imperversante, Pasqualucci ci propone audacemente un’ampia meditazione sul “concetto dello spazio”, visto nei suoi aspetti metafisici, fisici, teologici, in quanto concetto che bisogna ristabilire nei suoi giusti termini, quale primo mattone per una ricostruzione della metafisica[1]
Il primo volume della sua ricerca, uscito cinque anni fa per le Edizioni Spes- Fondazione Giuseppe Capograssi, trattava dei limiti del nostro pensiero, quali risultano in primis dall’impossibilità di pensare simultaneamente a due o più cose diverse. I nostri pensieri e stati d’animo sono sempre in succesione nel tempo, mai simultanei tra di loro.  Questa semplice constatazione dimostra che il tempo esiste come dimensione reale, nella quale opera la nostra mente.
Ma si possono scrivere 650 pagine sul concetto dello spazio, si chiederà il lettore, sia pure in uno stile chiaro e lineare, per nulla accademico?  Il libro è in realtà anche una resa di conti speculativa con la teoria della conoscenza del pensiero moderno, con il soggettivismo in essa imperante, da Cartesio, a Kant, a Heidegger, senza trascurare il pensiero scientifico.  Alla concezione dello spazio-tempo di Einstein viene dedicata un’ampia analisi critica, che alla fine ritorna al punto di partenza originario di ogni nostro pensare, ossia al rapporto tra Dio e lo spazio.  Data la complessità e vastità dell’intreccio elaborato da Pasqualucci, la cosa migliore in sede di presentazione è senz’altro quella di esporre una breve sintesi delle sue poche ma illuminanti pagine introduttive, intitolate “Al Lettore”.
“La prospettiva dell’uomo comune che si cerca di far valere qui non è certamente quella di un beffardo empirismo, rutilante ad esempio nell’invettiva del sulfureo Céline, il quale, cito a memoria, scrisse una volta che “scienziati, astronomi scalmanati chiacchieroni…scocciano a morte…sbavano incomprensibili teorie che matematizzano il nulla…astri la cui luce arriva miliardi di anni dopo, nel frattempo già scomparsi del tutto!”.  Il quisque de populo nel quale mi sono immedesimato vuol esser socratico, se così posso dire, quanto al suo metodo:  analizzare pazientemente e porre domande in tutta semplicità, al fine di giungere al vero, anche senza la pretesa di riuscire a spiegar tutto, cosa del resto rivelatasi impossibile agli stessi uomini di scienza.  La prospettiva che chiamo socratica mira perciò a rivalutare nel giusto modo il senso comune quale facoltà del nostro intelletto capace di sostenerlo nel ripristino di una concezione realistica del mondo, di contro al soggettivismo  dominante, avvitatosi nelle ben note spirali nichiliste, anche in ambito scientifico.”
Il primo passo in direzione di questa rappresentazione realistica – chiarisce l’Autore – è consistito “nell’accertamento di una verità, ampiamente dibattuta nel primo volume della Metafisica del Soggetto, ossia che lo spazio fuori di noi è condizione imprescindibile della nostra conoscenza del mondo esteriore, perchè realtà tridimensionale (estensione e profondità) che, di per sè, consente la stasi e il moto dei corpi e dell’energia, e non perchè “forma a priori della nostra sensibilità” (secondo la celebre formulazione kantiana), forma inconsciamente predeterminata, anteriore ad ogni esperienza  concreta dello spazio stesso”.  Il carattere pleonastico dell’apriori kantiano, risulta già dalla constatazione del “fatto stesso del tempo impiegato dall’immagine dell’oggetto esterno a formarsi nella nostra mente.  È il tempo impiegato dalla luce diffusa a percorrere lo spazio che ci separa dall’oggetto, sommato a quello dei processi fisico-chimici che, dentro di noi, si risolvono nell’immagine compiuta della cosa esistente fuori di noi.  Per renderci conto dell’esistenza di questo tempo, basta sapere che la luce non si propaga istantaneamente ma con una determinata velocità:  non occorre presupporre l’esistenza in noi di un’intuizione immediata del tempo, a priori, indipendentemente da ogni esperienza”. 
Partendo da questa deduzione empirica del concetto dello spazio, Pasqualucci sviluppa un confronto serrato con la concezione kantiana della conoscenza e dello spazio (cui dedica tre capitoli, sugli undici dell’opera), “la cui influenza, piaccia o meno, si è fatta sentire sino alle elaborazioni einsteiniane”.  E non si sottrae al confronto con la “spazialità esistenziale” di Heidegger (nel cap. sesto), “ancora considerato il maggior filosofo del XX secolo, il quale cerca di risolvere in chiave appunto esistenziale, di spazio vissuto, il problema della natura dello spazio”.
Ma il confronto essenziale avviene con le concezioni dello spazio dominanti nella fisica moderna e contemporanea, cui sono dedicati tre capitoli.  Essa, ci ricorda Pasqualucci, “alberga dentro di sé una ‘filosofia della natura’ secondo la quale l’immagine del mondo deve ritenersi curva ed anzi deforme come le figure che si scorgano sul pomo di ottone levigato di una rotonda maniglia di porta.   Ciò che a noi sembra diritto sarebbe in realtà incurvato, ma non come la superficie della terra, cranio di ben polita sfera:  distorto a causa della curvatura dello spazio, deformato  dalla materia che contiene.  Mentre le dimensioni di ogni spazio misurato  sarebbero comunque relative al tempo impiegato dalla luce a portarcene l’informazione (spazio-tempo)”.
   Riflettendo sul quadro offerto dal pensiero filosofico e scientifico, che idea dello spazio se ne ricava?  Ed è un’idea univoca?
“Intuizione a priori della nostra “senbilità” lo spazio, oppure asimmetrica “spazialità” del nostro esser-nel-mondo che si disvela nell’Esserci nostro quotidiano nascondendo lo spazio in sé e per sé, ridotto ad irrilevante comparsa?  Oppure, curvilineità della materia-energia che fa di noi stessi una semplice variazione di densità dello spazio-tempo, una transeunte e quasi invisibile increspatura del tutto cosmico eterno ed increato, come sosteneva lo spinoziano Einstein?”.  Di fronte a queste “ardite concezioni, vibranti di una loro profana escatologia”,  unite tuttavia da un comune sostrato, la negazione dell’esistenza di uno spazio in sé vuoto ed euclideo, sottolinea Pasqualucci, non bisogna deporre le armi e rifugiarsi nel “pensiero debole”, quello che usa come alibi  l’ ossessivo ritornello del tenebroso Heidegger sulla “fine di ogni metafisica” (della quale lui sarebbe stato il volonteroso becchino).  Bisogna, all’opposto, combattere ovvero “confrontarsi con quelle complesse e profonde speculazioni prima di ribadire il sano realismo della rappresentazione dello spazio del senso comune mediante una rigorosa deduzione empirica del suo concetto (nel decimo e penultimo capitolo dell’opera), quale concetto di una realtà euclidea che esiste effettivamente fuori di noi e si lascia cogliere innanzitutto mediante il senso della vista”. 
Ma dalle “disquisizioni metafisiche e fisiche”, rileva Pasqualucci, emerge anche un nodo teologico.   Ne ha offerto lo spunto proprio Kant, “quando affermava che chi non accettava la sua concezione trascendentale dello spazio come nostra intuizione a priori (senza la quale non potremmo conoscere lo spazio come realtà che pur esiste fuori di noi), anteriore ad ogni esperienza, rischiava di cadere nello spinozismo cioè nel materialismo di Spinoza, che faceva della res extensa un attributo di Dio.  Spazio, allora, come attributo di Dio e quindi impossibilità di ammettere l’esistenza di un Dio creatore, assolutamente indipendente dalla realtà del cosmo da Lui stesso creato, ivi compresi lo spazio e il tempo?  Bisognava difendere da quest’accusa la concezione realistica dello spazio.  Tale difesa, che ha comportato (nel capitolo quinto) l’analisi critica del concetto dello spazio come “sostanza corporea” in Cartesio e Spinoza, nonché la difesa di quella dello “spazio assoluto” di Newton, ha riproposto di per sé il tema fondamentale del rapporto tra Dio e lo spazio, sviluppato nell’ultimo capitolo dell’opera”.  In tale capitolo, dopo un’analisi del pensiero dei Padri e dell’Angelico sul tema, l’Autore propone di “considerare come sesta prova dell’esistenza di Dio il modus operandi a distanza ma istantaneo della forza di gravità nello spazio, scoperta fondamentale e crux philosophica della scienza moderna e contemporanea.  Annullando nella sua istantaneità sia lo spazio che iI tempo, tale modus si pone al di fuori delle leggi fisiche da noi conosciute, che non riescono affatto a darne ragione, rinviando pertanto all’intervento di un Agente capace di operare in modo soprannaturale.  Un accenno in tal senso si trova, del resto, in una celebre lettera di Newton ad un suo discepolo”.
Chi ritenesse la critica ai filosofi del passato roba da museo, prosegue Pasqualucci, si sbaglierebbe di grosso:  “Einstein ha visto in Cartesio (che identificava corpo e spazio, negando l’esistenza del vuoto) un precursore del suo concetto dello spazio e si è apertamente professato panteista nel senso spinoziano del termine, con le evidente implicazioni teologiche che ciò comporta, a cominciare dalla negazione (espressa, in Einstein) dell’esistenza di un “Dio personale”, e quindi Creatore e Giudice; credenza per le “anime fiacche”, diceva.”  Perciò, “lo spinozismo con il quale Kant minacciava i suoi critici, è riapparso nella visione del mondo dei Fisici contemporanei, intrecciato (sotto spoglie spesso neopositiviste) ad un kantismo di fondo per quanto riguarda il nesso spazio-tempo e una certa tendenza al soggettivismo dal punto di vista metodologico”.    
Per tutti quei cattolici che si lamentano della colpevole sudditanza del pensiero cattolico al sempre più asfittico e declinante pensiero moderno, questo libro dovrebbe comunque rappresentare una lettura che induce alla speranza di una ripresa della vera metafisica.

Piero Vassallo



[1] P. PASQUALUCCI, Metafisica del Soggetto II – Il concetto dello spazio, Giuffrè, Milano, pp. 650, 2015.   Chi ne vuole una una copia in omaggio può rivolgersi a:  Fondazione G. Capograssi, Via Savoia, 86, 00198 Roma, tel.  39-06.855.80.65 fax 06.855.88.32 –- e-mail: fond.capograssi@libero.it.  Sono disponibili anche copie in omaggio del primo volume, intitolato:  P. PASQUALUCCI, Metafisica del Soggetto.  Cinque tesi preliminari – Volume Primo, Ediz. Spes-Fondazione Giuseppe Capograssi, Roma, 2010, pp. 186. 

sabato 26 settembre 2015

L'immaginario islam dei buonisti e l'islam della realtà

 “E' arrivato il tempo di liberarci dal senso di vergogna che oggi  ci porta a disconoscere che l'Italia sia casa nostra, la casa comune di tutti gli italiani, immaginandola come una terra di tutti e di nessuno, una landa deserta, dove chiunque arriva pianta la propria tenda e detta le proprie condizioni, al punto da auto-imporci di togliere i crocifissi dai luoghi pubblici per non urtare la suscettibilità di mussulmani”. (Cristiano Magdi Allam)

Protagonista ed emblema dell'intrepida ma solitaria e disprezzata resistenza alla teologia politica corretta, Magdi Cristiano Allam rivendica e rinnova le argomentazioni confutatorie, al seguito delle quali la Cristianità medievale (si pensi a Dante Alighieri) e preconciliare alzò una difesa, armata dalla sapienza, contro il falso profeta Maometto e i suoi fanatici adepti.
All'esagerata bontà e all'incauta apertura ecumenica di un pontefice sudamericano, disinibito e forse illegittimo, che deposita un bacio sincretista sul corano, Allam risponde affermando il primato della dottrina sulla (disorientante) prassi ecumenica.
Vox clamantis nel deserto clericale, popolato dai buonisti, dai vibranti ridarellari, dai teologi neo cristiani, dai propalatori del delirio in discesa sulle tombali sedi del progressismo e dagli irritanti conduttori di psicodrammi verbosi/rumorosi, mandati in onda umbratile dalle emittenze televisive, Allam tenta di far conoscere agli italiani, intossicati e alterati dalla teologia giornalistica e dall'empiamente pio progressismo, l'aggressivo e tossico contenuto del corano.
Edito dall'intrepida Biblioteca delle libertà, infatti, il più recente saggio dello scrittore cattolico, fin dal titolo (Islam siamo in guerra) rovescia la spietata luce della verità sulle pie e zuccherine illusioni, in corsa sfrenata/accecante nel vuoto mentale, luogo deputato all'incontro della falsa carità con la fellonia pseudo-ecumenica.
Al proposito, Allam cita un giudizio di monsignor Charles-Clément Boniface Ozdemir, un teologo che resiste alle desolanti suggestioni del sincretismo e perciò definisce l'islamismo per quello che esso è: “falsa religione opera del demonio, ispirata da un criminale assetato dal sangue dei cristiani … e di tutti coloro che non si sottomettono all'islam complessivamente condannati come infedeli”.
Al realismo dei teologi, che svelano la verità intorno alla teologia e alla passi degli islamici, si oppongono gli sbandieratori della teologia sincretista.
Angelo Scola, cardinale incappucciato dalla nuova teologia, finge, ad esempio, di non vedere il sangue cristiano, versato dai maomettani, e raccomanda il dialogo con gli assassini, da lui inteso “come frutto dell'amore di Dio e del prossimo”.
Il rugiadoso buonismo di Scola è applaudito e condiviso da Giorgio Napolitano, il quale, imitando l'imitatore Maurizio Crozza, pronuncia un ecumenico sermone, finalizzato a convincere i sudditi che il dialogo con l'islam “sarebbe indispensabile presupposto affinché la società italiana sappia interpretare le sfide del mondo contemporaneo e divenire sempre più libera, aperta e giusta”.
Aperta a cosa? Mah... Opportunamente Allam rammenta che 45 milioni di cristiani sono stati martirizzati dagli islamici nel Ventesimo secolo: “Ogni anno ci sono 105.000 nuovi martiri cristiani, un martire al minuto”.
La teologia del silenzio complice è sfidata dai testimoni del dramma vissuto dai cristiani abitanti nei paesi islamici. Allam al proposito cita padre Douglas Al Bazi, parroco ad Erbil, il quale sostiene, esibendo inconfutabili argomenti, che “l'Isis rappresenta l'islam al cento per cento. Per favore se c'è qualcuno che ancora pensa che l'Isis non rappresenta l'islam, sappia che ha torto. L'Isis rappresenta l'islam al cento per cento. … Quando l'islam vive in mezzo a voi, la situazione potrebbe apparire accettabile. Ma quando uno vive tra i mussulmani tutto diventa impossibile”.
L'avvertimento cade nel vuoto mentale del clero buonista abbagliato dalle manfrine degli immigrati islamici. Nessuno fa caso alle variazioni del profilo basso e cauto degli immigrati, i quali, ogni tanto, emanano segnali veritieri, ad esempio l'aggressione di un sacerdote milanese, seriamente ferito durante un incontro (ecumenico?) con immigrati magrebini, che lo avevano giudicato colpevole di empietà per aver battezzato alcuni loro connazionali.
Purtroppo l'autorità ecclesiastica, dedita all'imitazione della scimmie non vedenti, non udenti e non parlanti a Benares, prosegue imperterrita il cammino ecumenico in direzione della catastrofe incombente. Il risultato della commedia scimmiesca messa in scena dal teologicamente corretto, è la insensata predilezione degli immigrati di fede islamica. Lo testimonia un immigrato egiziano, nostro fratello nella vera fede: “in terra cristiana, che accoglie nel suo seno la Chiesa dei papi, il relativismo è arrivato al punto da far coincidere la spiritualità con l'islam”.

Piero Vassallo


mercoledì 23 settembre 2015

LA TEOLOGIA MORALE DEL SEGRETARIO DELLA CEI (di Piero Nicola)

  Da Il Giornale del corrente 22 settembre, apprendiamo che monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, è intervenuto a una tavola rotonda organizzata dalla giornalista presidentessa della Rai Monica Maggioni, in concomitanza con le cerimonie del Prix Italia (da notare il Prix: grazioso omaggio reso al francese, tanto per cambiare...)
  Il tema non lasciava dubbi sul concetto etico, oltre che sul retoricume della domanda: "Il fenomeno migratorio: coesione o divisione? Il ruolo dei media al servizio del pubblico".
  Il prelato si è esposto, balzando al di là delle giustificazioni della sua opinione sottintesa, dandola evidentemente per fondata e incrollabile, condivisa dal clero fino al suo vertice. Egli ha dichiarato: "Il ruolo del servizio pubblico è dare qualche pugno nello stomaco in più, perché quello è l'inizio della consapevolezza dell'opinione pubblica", a proposito della fotografia del bambino Aylan, profugo siriano naufrago, gettato morto dal mare sulla spiaggia.
  Ci si potrebbe sentire a disagio davanti a una figura retorica di certo poco conveniente, applicata alle spoglie d'un bimbo che ha reso l'anima. Già ci sono stati - non proprio incompresi - coloro i quali hanno deplorato lo scandalo dell'uso di un caso pietoso, alle cui immagini giornali e notiziari hanno fatto fare il giro del mondo a pro della causa dell'accoglienza, che sarebbe dovuta ai migranti imbarcati in traversate arrischiate, molto pericolose.
  L'incisivo Galantino sembra non darsi la pena del sacro riguardo verso i defunti, della spregiudicatezza del mezzo giornalistico da lui approvato, né della strumentalizzazione biasimata da... duri di cuore.
  Ma ciò che conta maggiormente è l'implicito giudizio morale sull'immigrazione di tal genere, avendo egli le spalle ben protette da analogo e parlante atteggiamento tenuto da Bergoglio e sodali suoi, per avventura graditi, a tale riguardo, dai signori della terra.
  Anzitutto va notato, oltre alla qualità del mezzo ("il pugno dello stomaco"), il genere del fine prossimo: un urto emotivo che desti la retta informazione e la retta coscienza.
  Non è molto ragionevole supporre che un'immagine, la quale induce al compianto o al pianto o ad altra reazione suscitata da una realtà pietosa e funebre, sia "inizio della consapevolezza", cioè apprendimento d'un fenomeno umano di vasta portata, ossia il viaggio di genti che con esso mettono la vita a repentaglio. Il fenomeno comporta un esame delle responsabilità, e per compierlo occorre ben altra conoscenza, anzitutto una conoscenza scevra del fattore emotivo. Stando così le cose, chi si compiace del "pugno dello stomaco" e dà per scontato il giusto effetto prodotto è forse ancora in regola con il criterio morale?
  Il pubblico che riceve la dura scossa atta ad orientarlo, come perviene a una risoluzione o convinzione confortata dalle debite cognizioni e dalle conseguenze da trarre, non trascurabili? Esso non è in grado di sapere quali e quanti emigranti siano perseguitati e profughi, quali e quanti, non essendolo, siano sospinti da fame e miseria insostenibile, quali e quanti siano ingannati e costretti all'emigrazione, quali e quanti siano mossi dal semplice desiderio di miglior vita, approfittando dei vantaggi offerti dai paesi in cui entrano, quali e quanti siano temerari e colpevoli nel rischio della pelle, quali e quanti siano disertori delle guerre  o fuggano alla giustizia della loro patria, quali e quanti abbiano il viaggio pagato e altre sovvenzioni non dichiarate. Nessuno di questi casi è improbabile, e mancano al riguardo le statistiche e le loro pubblicazioni.  
  Nunzio Galantino avendo in tasca la soluzione,  fa a meno di statistiche, di ponderate valutazioni e di stima delle conseguenze. Nella sua illuminata saggezza, sa che la misericordia da attuare risponde alla soluzione, sa che il loro grande potere attrattivo necessita soltanto di una spinta robusta per condurre il vasto pubblico all'umano convincimento.
  Nella logica del presupposto galantiniano, trattandosi della carità, entrerebbe la grazia, la sua divina ispirazione. Egli non si sogna di considerarla, perché ormai è noto che tutti gli uomini, essendo stati riscattati, beneficiano ugualmente del favore divino, e la dottrina della grazia è stata archiviata come si conviene; il popolo cova una pletora di uomini di buona volontà
  Andiamo invece al giudizio ultimo sul bene o sul male del comportamento di stati e di cittadini, cattolici o altri, verso l'immigrazione. A sentire il Galantino, il nostro atteggiamento sarebbe tardo, superfluo, sospetto di connivenza con i cattivi insensati. Difatti egli piamente ha aggiunto: "Quanto siamo ridicoli quando ci impelaghiamo in polemiche di bassa lega, l'immigrazione non è Galantino contro Salvini, non c'è niente di più triste che personalizzare un dramma come questo. Il ruolo dell'informazione è mettere davanti agli occhi le storie e quando non lo fa è solo un riempire il tempo". Poi conclude: "L'accoglienza va preparata ed è il ruolo più faticoso: Ogni storia è un bullone e ogni bullone al posto giusto può far camminare la nave dell'umanità".
  Purtroppo Galantino non si accorge di tante storie che rendono l'accoglienza un misfatto. Scampato alle complicazioni di ambienti e studi, egli gode di un'idillica semplicità. Nella sua benevolenza sconfinata, vede in ogni straniero diretto ai nostri confini un disgraziato, pertanto verso di lui è doveroso essere buoni Samaritani e basta così. Nel suo immenso buon volere egli non comprende che la soccorrevole carità individuale, dovuta al sofferente, si conserva con la carità restante: contro il male che egli possa recare a se stesso e agli altri, né considera che il soccorso dovuto dallo Stato a naufraghi o ai privi di cibo e di ricovero, non può essere disgiunto da provvedimenti che impediscano "il dramma", e dai successivi provvedimenti assunti nei confronti delle persone assistite.
  Il punto di partenza resta il bene o il male complessivi e preponderanti che vengono dall'immigrazione.
Essa risulta essere cattiva per questi motivi.
  1) Immette nella nazione ospite genti aventi tradizioni, lingua e costumi differenti, tanto più dannosi in quanto recano una religione incompatibile con il cattolicesimo, e che di certo ostano alla conversione, anzi costituiscono un elemento perturbatore mediante infedeltà o eresia trasmesse, mentre impediscono - o almeno rendono assai problematico - che i nuovi venuti si integrino nella società civile e ne diventino autentici componenti.
  2) Introduce manodopera che accresce la disoccupazione.
  3) Ad essa si deve il notevole aumento dei delitti e dei danni, non ultimi quelli delle illecite esportazioni di denaro.
  A queste ragioni preponderanti, si oppongono argomenti zoppi e insufficienti. I principali sono: i vantaggi derivanti da un miscuglio di etnie e di presunte civiltà (in definitiva, sarebbe come dire che mettere acqua nel vino migliora il vino); il lavoro svolto dagli immigrati che supplisce alle nostre deficienze nel soddisfare le richieste dei mestieri umili (se da noi ci sono disoccupati che rifiutano un lavoro, bisogna metterli nelle condizioni o nella necessità di accettarlo); l'apporto demografico (molti figli degli immigrati - Francia e Gran Bretagna lo insegnano - non si integrano, diventano pericolosi; il difetto della denatalità può e deve essere rimediato dallo Stato).
  Monsignor Galantino sdegna il confronto delle idee, ritiene inutile fatica fare il bilancio. Buon per lui? Preghiamo per l'anima sua.
  Stabilito il male dell'invasione di stranieri (ed invasione è quando una massa eterogenea pretende di stabilirsi all'estero, cioè a casa nostra, ed anche dove si sta meglio, come generalmente accade) occorre provvedere ad eliminarlo, eliminando nel contempo le disgrazie. Se le frontiere nazionali sono chiuse e difese, nessuno verrà. Gli aiuti agli sventurati possono essere forniti altrove, con spese e perdite di gran lunga inferiori a quelli dell'accoglienza.
  Tutto ciò è semplice, onesto, caritatevole. Ma per chi ha saltato il fosso e, sistemato sulla sponda conformista, non si scomoda a ragionare, non c'è evidenza che tenga.
  Rese zerbino della soglia la patria, la civiltà romano-cattolica, la carità composta di amore soprannaturale e di giustizia, spregiata la peste dell'errore religioso e filosofico, dopo aver sommerso questo tesoro con i sofismi teologico-umanitari postconciliari, vi si sbandiera sopra una misericordia falsa, sentimentale, immoralista, ricattatrice di coscienze deboli e viziate.
  La Repubblica dello stesso giorno, ci informa che Galantino, rivolgendosi al clero diocesano torinese, lo ha ammonito dicendo che l'appello del loro arcivescovo per l'accoglienza ai profughi è stato recepito "subito dal basso, generando una risposta di carità contagiosa". A suo avviso, la crisi generale del Paese è antropologica e culturale prima che economica. Bravo! Peccato che la sua ricetta sia il contrario di quella risanatrice. Per lui ci vuole un cambiamento di stile e consuetudini, una conversione pastorale, un rinnovamento (ancora un altro?), una testimonianza cristiana. Appunto quella mostrata "dal basso"!


Piero Nicola

martedì 22 settembre 2015

Il Cristianesimo a Roma

 La casa editrice Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe ha pubblicato in questi giorni due avvincenti saggi storici, Perché Roma di Ennio Innocenti [1], e Mitraismo e Cristianesimo di Giuseppe Biamonte [2].
 Raccolti in un unico volume, i testi dei noti e apprezzati studiosi cattolici si raccomandano ai lettori colti quali contributi necessari al chiarimento dei reali rapporti tra romanità e cristianesimo e tra cristianesimo e religione di Mitra.
 I saggi hanno per fine la confutazione delle tesi dilettantesche e confusionarie intorno all'ispirazione eversiva e anti-romana dei primi credenti nel Signore.
 Si tratta di dicerie infondate, in corsa ostinata e frenetica nei circuiti e nelle piste surreali, dove la esangue storiografia laicista incontra le magiche escandescenze della sinistra nomade e gli esangui furori della destra magica.
 L'orizzonte nel quali si muovono da destra e da sinistra le opinioni intorno al conflitto insanabile tra fede cattolica e tradizione romana, esibisce la curiosa convergenza delle sentenze che discendono (capitombolano) da (presunte) opposte filosofie della storia.
 La cultura progressista contempla un insanabile conflitto tra la civiltà romana e la rivoluzione cristiana (intesa come rivolta plebea contro l'impero reazionario, narrato da Bertold Brecht ne Gli affari del signor Giulio Cesare) mentre la cultura della destra neopagana capovolge il giudizio della sinistra (il cristianesimo, secondo Evola, avrebbe sovvertito il perfetto ordine dell'impero pagano) ma condivide e perpetua l'opinione sull'incompatibilità di cristianesimo e tradizione romana [3].
 Quale via d'uscita dal delirio a due teste matte, Innocenti propone una originale lettura del mondo romano, che fu esecutore d'una missione universalistica voluta dall'Alto: “Fondamento della tradizionale religiosità romana è restata la valutazione della Suprema Divinità come Fatum, ossia Paola o Logos o Verbum, assolutamente trascendente e indiscutibile, cui l'uomo che ne partecipa per la ragione e la creazione, deve collaborare e rispondere”.
 Non per caso il vertice della filosofia romana nel primo secolo dopo Cristo è rappresentato da Lucio Anneo Seneca (Cordoba 4 a. C. - Roma 65 d. C.), filosofo attento al messaggio cristiano e autore di pensieri, che a giudizio di Innocenti, hanno il sapore del Vangelo.
 Al proposito è citato un passo in cui il filosofo di Cordova afferma che “non vive ancora veramente per sé chi non vive per gli altri. Dobbiamo anche saper perdonare coloro che ci hanno offeso persuadendoci che nessuno è senza colpa”.
 Lo studio serio e il sistematico approfondimento della letteratura latina del primo secolo autorizzano Innocenti ad affermare che “il cristianesimo ha potuto diffondersi nell'Impero senza altro rilevante impedimento che la sobillazione giudaica e la scontata resistenza suscitata dall'imperativo della conversione spirituale evangelica. E ci sono indizi probativi che la cultura etnica non mancava di recepire, nel frattempo, dati e frammenti evangelici ben al di là della comunità cristiana” [4].  
 Giuseppe Biamonte, autore del robusto saggio Mitracismo e Cristianesimo Affinità formali e difformità sostanziali,  propone la confutazione delle avventurose tesi (diffuse dalla scuola di Tubinga) finalizzate a dimostrare la identità di sostanza di Cristianesimo e mitracismo.
 Quale introduzione a una seria lettura delle differenze che corrono tra fede in Cristo e mitologie intorno a Mitra, Biamonte cita una sentenza di Giuseppe Ricciotti, il quale suggeriva di evitare il rischio “di affermare una identità di sostanza [tra Cristianesimo e mitraismo] dove era soltanto una vaga corrispondenza di forma e l'altro pericolo cronologico anche più grave di prendere per una dipendenza del Cristianesimo ciò che era una dipendenza dal Cristianesimo”.
 A conferma del giudizio sull'irriducibilità della teologia cattolica al mitraismo, Biamonte cita Giustino e Tertulliano che imputarono al Maligno “l'imitazione mistificatrice dei sacramenti  cristiani” da parte dei seguaci di Mitra. Rammenta infine il detto di Giustino martire: “I malvagi demoni per imitazione [del sacrificio eucaristico] dissero che tutto ciò avveniva anche nei misteri di Mitra- Infatti nei loro riti di iniziazione si introducono un pane e una coppa d'acqua, mentre si pronunciano alcune formule”. 
 Biamonte non esita a segnalare la presenza di frammenti della superstizione mitraica “all'interno di molte conventicole esoteriche-massoniche e associazioni filantropiche, i cui appartenenti, chiamati fratelli, scimmiottando gli antichi rituali, amano in molti casi esibirsi per le loro liturgie, muniti di spade, mantelli e paludamenti vari”.
 L'escursione compiuta da Biamonte negli oscuri cunicoli del delirio neo cataro, fomite e retroscena del laicismo squillante sui tetti della moderna democrazia, dissolve l'incantesimo prodotto dalle mitologie intorno alla modernità laica e progressiva. E indica il cammino percorribile da una cultura di destra finalmente libera dall'influsso zavorrante  e umiliante  dell'esoterismo.

Piero Vassallo



[1]          Ennio Innocenti è un infaticabile studioso, impegnato a ristabilire le verità storiche rovesciate da operatori culturali  che aggrediscono - da destra e da sinistra - le verità del Cristianesimo rilanciando surreali mitologie e suggestioni raccolte nella vasta biblioteca degli eretici antichi e moderni. Di qui un'ingente produzione di testi che contribuiscono alla demolizione di bufale travestite da cavalli di razza: Gesù a Roma, Storia del potere temporale dei papi, La conversione religiosa di Benito Mussolini, Epopea italica, Critica alla psicoanalisi, Vangelo e coscienza, Fatima Roma Mosca, Luigi Calabresi.
[2]          Cultore della materia presso la cattedra di archeologia cristiana dell'Università di Roma Tre, Giuseppe Biamonte è autore di importanti saggi quali Pietro, Damaso, Simmaco e il Liber Pontificalis, Le catacombe di Roma, L'area tra tarda antichità e Medioevo. Attento studioso delle suggestioni esoteriche che impestano la politica della destra post-fascista ha contribuito alla demistificazioni delle leggende intorno alla tradizione proposte da René Giénon e da Julius Evola.
[3]          Giuseppe Biamonte al proposito rammenta che il gruppo dei promotori del destrismo paganeggiante, che faceva capo alla casa editrice GRECE, “fece da sponda, dalla riva destra, ai loro omologhi marxisti, che, sulla riva sinistra, ormai da tempo immemorabile, avevano fondato la demonizzazione della Chiesa e della Religione Cattolica sull'ateismo e sul materialismo storico”.
[4]          Al proposito Innocenti cita i saggio di Ilaria Ramelli, un'affermata studiosa che, fra l'altro, ha dimostrato che Petronio conosceva il Vangelo di Marco. 

sabato 19 settembre 2015

La banalità del male democratico e la debolezza dei suoi oppositori

 L'età avanzata e la relativa immunità contemplata dalla legge italiana consentono di non temere la pena minacciata ai contestatori e agli spregiatori del parlamento nazionale, al tempo di Giovanni Papini stimato quale  teatro in cui si eseguono concerti di sputi, dopo l'importazione del delirio americano, fabbrica di leggi demenziali, sadiche e strutturalmente infami.
 Di conseguenza è un disonore non disprezzare le carte sulle quali sono scritte le leggi, che capovolgono i princìpi del diritto naturale e offendono il Creatore.
 In particolare la bestiale legge 194, votata da una disonesta e laida maggioranza e firmata da alcuni autorevoli cialtroni militanti nella Dc, getta una luce triste sullo stato legislatore e sulla medicina, ridotta a strumento di una denatalità, che indirizza il futuro degli italiani alla senescenza e all'immigrazione islamica.
 Non si esce dal circolo vizioso battuto dalla politica politicante finché non si riconosce che la fonte della disonestà stampata nella legge 194 è il mito della sovranità popolare, asse portante della costituzione repubblicana.
 La legge abortista d'altra parte contempla l'orizzonte sanguinario, desiderato e programmato dai sacerdoti dall'usura, che lavorano assiduamente alla cancellazione delle identità e delle storie dei popoli refrattari all'ideologia, che suggerisce e comanda il sorriso keep smile nell'obitorio a stelle e strisce.
 Il sogno della banca americana contempla la devastazione delle identità nazionali, ovvero quel prodigio della magia nera, che a suo tempo fu descritto dal disegnatore del mago Mandrake, un geniale critico del totalitarismi, che narrava (in quasi profetici fumetti) le imprese di una tirannide capace di annientare i tratti fisionomici delle persone schiavizzate.
 La possibilità di un'uscita dal corteo funebre, in cui gli sculettanti pensieri californiani divulgano le trucide lezioni della banca strozzina, dipende dalla visione dei limiti oltre i quali la democrazia si trasforma in prigione e inferno dei popoli.
 Ora il diritto naturale e il diritto positivo divino segnano i limiti passati i quali le leggi dello stato diventano fomite di un abuso, che trasforma il potere politico in strumento di corruzione e di dissoluzione.
 Al proposito il cardinale Giuseppe Siri rammentava che non ci siamo creati da noi e, pertanto, la legge viene di là della coscienza, in ultima analisi dalla stessa fonte dalla quale abbiamo avuto l'essere.
 Intossicata da una costituzione concepita dal compromesso della verità cattolica con l'errore progressista, la democrazia italiana ha violato più volte la barriera alzata dal diritto naturale e dal diritto divino.
 Incoraggiata da leggi generate dalla fragilità costituzionale, la denatalità, favorita ha prodotto il vuoto anagrafico nel quale irrompe la devastante/festante immigrazione degli islamici.
 Il disordine generato dalle cattive leggi è diventato invincibile a causa della desistenza cattolica e della conseguente latitanza di oppositori intransigenti e qualificati.  
  D'altra parte non è possibile progettare la difesa della dignità nazionale senza liberare i partiti della destra dalle intossicazioni liberali, che giustificano la poligamia dei restauratori presunti e ammirano le meraviglie del sistema americano e della letteratura fantastica.
 La lunga storia dell'insignificanza a destra ha inizio dall'escandescenza magica di Julius  Evola, continua nel pensiero turistico di Armando Plebe e termina nell'equivoco intorno al liberalismo professato da Forza Italia.
 L'uscita dal vuoto, che tormenta la ragione a destra, esige l'emersione dalle acque della diserzione delle personalità capaci di leggere e interpretare la tradizione italiana, dalla scolastica alla scienza nuova fino alla rinascita del tomismo nel xx secolo.   
 La malattia della politica oggi al potere è l'ignoranza e/o il colpevole disprezzo della filosofia italiana, un deficit che avvia un estenuante giro mentale intorno a suggestioni atlantiche, irriducibili alla tradizione nazionale.
 La democrazie avvelenata dall'immanentismo di conio liberale può essere riformata e risanata solamente da una classe politica fedele alla vera tradizione italiana. Il rimanente appartiene all'irrealismo in corsa inutile nei dibattiti televisivi.
 
 Piero Vassallo

POLITICA SPACCIATRICE (di Piero Nicola)

Che differenza c'è tra il commerciante e il politico democratico? Qualcuno dirà: "Quasi nessuna". Invece sbaglia. Il politico, sia parlamentare, governante o amministratore, usufruisce d'un incomparabile vantaggio, giacché la sua mercanzia consiste in programmi, leggi, regolamenti e circolari. Ed egli con altre leggi vecchie e recenti, di sua creazione, può procurarsi l'impunità della sua offerta e della vendita di merci scadute, avariate, allucinogene e che inducono dipendenza, mentre fabbricanti e rivenditori comuni non godono di simile usbergo. Per giunta, essi non dispongono di tv e giornali a tempo pieno.
  Fiduciosi, ingenui idealisti allergici alla realtà, stentano ad accettare l'analogia tra eletti o aspiranti alle cariche pubbliche e grossisti o bottegai. Eppure, allo stesso modo, i rappresentanti del popolo agiscono sul mercato del gradimento di massa, secondo una legge (truccata) della domanda e dell'offerta, per riscuotere porzioni di potere, avendo modo, grazie ai provvedimenti esitati, di gestire il servizio della cosa pubblica nel proprio interesse. Di comune accordo, essi preparano il terreno con accorte campagne pubblicitarie apparentemente generose e filantropiche, seguendo la strategia delle compagnie internazionali da cui dipendono, e che stanno a loro quasi come le manifatture stanno alla distribuzione.  
  Nella persuasiva opera preliminare, i trafficanti politici sono di nascosto associati in un trust, inteso a rendere sviato, molle e appetente il sovrano consumatore. All'esterno, appaiono in concorrenza tra loro, ed anche lo sono come gruppi e individui in interessata competizione, ubbidendo al gioco del sistema. Conducono particolari ricerche di mercato per lo smercio dei rispettivi prodotti, che in fondo hanno uguali caratteristiche, ma rivestono involucri attraenti per i vari gusti.
  Nulla di strano, se nella lotta associata o in quella delle singole ditte determinate a catturare il pubblico acquirente, si insinua la disonestà. Basta che i poteri preposti all'ordine siano cedevoli, ed essa prende piede. Quando poi essi sono nelle mani degli stessi venditori, la corruzione diventa fatale.
  Basta che la tentazione del trust l'abbia formato grande, potente e vastissimo, e già il suo bacillo sleale e disonesto è sufficiente a moltiplicare la frode. Niente e nessuno sta sopra questo monopolio, nessuno lo contrasta. Sia stato all'origine malandrino o debolmente egoista, per sua natura non esita a servirsi di tutti i mezzi disponibili, comprese le organizzazioni criminali, che pure lo condizionano a causa di un certo disordine incontrollato.
  Necessita salvare le apparenze del bene facendo apparire benefiche derrate verminose, attrezzi pericolosi, ma l'accumulo di tossicità inghiottita con alimenti soprattutto immateriali e l'uso degli strumenti proibiti, di falsa utilità, dovranno sfuggire al controllo della generale organizzazione messa in piedi dai somministratori.
  Unico freno a questo regno mercantile infetto, che potenzialmente evolve sino all'incancrenire del suo corpo, è il naturale sentimento del costruire, del dare e avere secondo giustizia, che regola le normali produzioni e rende possibile la convivenza. Tuttavia l'impiego spregiudicato delle contraffazioni è maligno e la fine è soltanto ritardata.
  Intanto ci piace riscontrare come la similitudine convenga a un caso recente verificatosi nella conduzione della cosa pubblica.
  In un paese che ben conosciamo, si è tastato il polso dei compratori, e un sondaggio deve aver rivelato che essi sono restii ad acquistare un nuovo prodotto. Allora si è cercato di spacciarlo diversamente, sotto forma di rimedio al male della cattiva disposizione della mente, sotto forma di medicina dell'anima; forti dell'essersi procurato, mediante l'aggiustamento, il sostanziale appoggio dei sedicenti grandi custodi delle anime.  Ma da qualche parte sono sorti degli obiettori attaccati ai vecchi rimedi, i quali hanno voluto eseguire le analisi del composto, individuando l'artificio che nasconde la sostanza repellente e nociva.
  Poiché il grande fabbricante, che ha conquistato molte piazze mondiali, anche al di là del Vecchio e del Nuovo Continente, preme e mostra impazienza, il suo ministeriale mandatario si è pure spazientito, ha minacciato di appellarsi alla giustizia per la condanna degli insistenti e incauti denigratori del  prodotto. Ma forse l'agente è stato tradito dall'ansia di conservare l'ufficio. I tempi non sono ancora maturi per ricorrere ai tribunali trattandosi di materia soggetta a discussione. La democrazia può diventare un'arma a doppio taglio per gli scaltri che scalpitano. Inoltre, chi gestisce uno spaccio e si dà troppo d'attorno nel voler smerciare, rischia che la gente, frenata da antiche remore tenaci, si insospettisca e vada a mettere il naso nella mistura, levandolo affatto arricciato, con discredito del propinatore.


Piero Nicola