mercoledì 29 giugno 2016

FRANCESCO MERCADANTE NON SBANDA SOLTANTO (di Piero Nicola)

Io non sono nessuno. Ma, come chiunque, possiedo la facoltà razionale elementare e, per dare certi giudizi storici, logici, religiosi, resi necessari dalla difesa della verità, non ho bisogno né di erudizione, né di titoli accademici, e tanto meno della diplomazia con cui assicurarsi uno stato sociale, appoggi, amicizie convenienti per non trovarsi isolati. L'isolamento non mi spaventa affatto. Essendo libero anzitutto interiormente, posso attaccare la libertà malintesa, la dignità umana artefatta, la morale e il diritto democratici o umanistici o dei cattolici da barzelletta.
 Premesso questo chiarimento, ho ascoltato il discorso del signor F. Mercadante, uomo ricolmo di benemerenze (chi ne ha tante, oggi è automaticamente squalificato) moderatore ad una presentazione di Una mitologia eroica del Fascismo, saggio recentemente pubblicato da G. A. Spadaro per i tipi di Solfanelli; il quale ascolto mi ha reso lieto di ignorare quasi tutto dell'esimio Mercadante. Ciò che ha detto è più che sufficiente per scacciarlo dalla ideale società degli uomini giusti e veri figli della Chiesa. Non interessa nemmeno conoscere il suo tasso di infedeltà all'ortodossia.
  Terminando gli interventi dal bancone dei relatori, Giuseppe A. Spadaro ha dovuto manifestare il suo sconcerto, rilevando le contraddizioni del presidente. Questi ha inteso mettere fuori gioco il fascismo per certi suoi barbari provvedimenti liberticidi, disumani, antistorici, attenuando la complessiva condanna di fatto con una stolta archiviazione della prova data dal Regime, e diluendo il veleno, sia dottrinale, sia del rinnegamento (egli fu giovinetto convinto mussoliniano), in lodi rivolte all'autore del saggio.
  Ciò che disgusta non è tanto l'aver tributato elogi a chi ha negato, nel libro, le sue conclusioni; disgusta la sicumera marcescente e la crassa erroneità delle sentenze. Non serve entrare nel merito dell'opera commentata, che lascio alla bella recensione, già qui comparsa, di Piero Vassallo. Per altro, dispiace che pensatori di vaglia cedano al compromesso affidandosi alla collaborazione, supposta autorevole, di caporioni intellettuali che li tradiscono tanto maldestramente quanto, purtroppo, efficacemente, davanti a un pubblico spesso suggestionabile.
  Che cosa ha decretato colui che troppo assomiglia ai soloni del dialogo impossibile (sia esso intrattenuto con presunti compagni di viaggio e sotto l'egida della grande cultura), fautori della società dei veritieri con gli erranti e coi menzogneri? Costui ha stabilito che all'Italietta giolittiana succedette un'altra Italietta, e che ci si deve licenziare in pace dal fascismo come ci si licenzia, per esempio, dal futurismo. Costui ha deplorato assolutamente che Gramsci fosse costretto a chiedere a Mussolini (il quale acconsentiva) di poter "leggere l'ideologia tedesca". Il Regime avrebbe così dimostrato la sua inciviltà, un "mostruoso paternalismo", in cui non è possibile vivere: "L'intellettuale (sic) deve chiedere il permesso" per esercitare la sua attività, la sua missione!
  Siamo in pieno delirio liberal-modernista. Il nemico dovrebbe avere diritto allo stesso trattamento dell'amico, per giunta quando è un nemico di Dio e della Verità.
  Il cattivo giudice parla di "cose orrende" attribuendo a Padre Agostino Gemelli la promozione del concetto di "razzismo spirituale". Osserva che l'ebreo Giorgio del Vecchio lasciò la cattedra piangendo, discriminato al di là del criterio dovuto al razzismo spirituale. Ma tale osservazione è sommaria, quasi venisse da un antifascista viscerale. Il suo storicismo gli impedisce di considerare le ragioni del ghetto, attuato o approvato dalla Chiesa. Per lui, i nefasti provvedimenti furono dettati da meri motivi politici.
  Inoltre il Mercadante colpisce il libro presentato, laddove approva la dottrina della rivista "Gerarchia". L'idea sacrosanta di ordine gerarchico (come vige nella Chiesa e nell'esercito, essa giova altrettanto alla società civile cui non è dato di restare in quiete) secondo lui "mette il piede sulla faccia della classe inferiore", dell'"uomo comune", del "gregge". Sarebbe "preistoria", "non ha attinenza con il vero slancio etico della civiltà occidentale". Egli se la prende con la definizione "paccottiglia egualitaria", che l'autore affibbia al mondo libero democratico, e chiede dove, con simile ideologia sarebbe andata "a finire l'emancipazione della donna nel Ventesimo Secolo". "Ai quindici anni del Ventunesimo Secolo, quale vitalità può avere questo passato?".
    Con le sue sintesi parziali, ingiuste e sconsiderate, nella migliore delle ipotesi il moderatore, omone delicato,  assomiglia a quegli intellettuali che non reggono e straparlano, trovando nell'opera una pecca che urta il loro pensiero orgoglioso e cristallizzato. Essi vogliono che l'opera sociale e politica  realizzata difettosamente, o condizionata da circostanze irripetibili, sia inservibile, un arnese da mettere in soffitta, tutt'al più in una bacheca, anziché preservarne i pregi per una costruzione attuale o successiva. Questi scienziati pretendono dalle realizzazioni storiche un'impeccabilità umanamente irraggiungibile, salvo il loro rifarsi da modelli assai meno che imperfetti, antichi e contemporanei, dimostrando d'essere scienziati naufragati nella propria miseria morale.


Piero Nicola

sabato 25 giugno 2016

Il 1916 sul fronte italiano: La vittoriosa difesa sugli Altipiani e la conquista di Gorizia (di Paolo Pasqualucci)


Sommario:  1. La falsificazione del Ricordo.  2. La Grande Guerra l’abbiamo vinta, scusateci se ci siamo permessi.  3.  La Battaglia degli Altipiani, fallita “Spedizione punitiva”.  4.  La conquista di Gorizia.

Il centenario della Grande Guerra, che fu la nostra IV Guerra d’Indipendenza, grazie alla quale riuscimmo, con il doloroso ed eroico sacrificio di un’intera generazione, a completare l’unità territoriale della Nazione contro il nostro plurisecolare  nemico asburgico, è stato finora ricordato in modo a dir poco inadeguato per non dire deformato se non addirittura vergognoso.   Nell’atmosfera da fine di una civiltà oggi  sempre più diffusa - fine nelle corruttele più sfrenate e nella vacuità spirituale più completa - il pacifismo gaglioffo dominante (quello amico di tutti i vizi) non poteva che ricordare il centenario della nostra partecipazione a quella guerra con la pappa del cuore delle litanie sui “morti invano”, sull’“inutile massacro”, sul “dolore”, sulla “compassione” per il gran numero di feriti e mutilati - insomma con dolciastre e “politicamente corrette” lacrime sulle sofferenze prodotte da quella tremenda guerra; lacrime ipocrite poiché l’individuo che professa il “politicamente corretto” è di un egocentrismo assoluto, pensa solo e sempre a se stesso, ai suoi diritti, ai suoi desideri.

1. La falsificazione del Ricordo

Non si vuole più credere allo Stato né alla nazione e nemmeno al popolo, come valori che esprimono realtà spirituali, sociali, storiche per le quali occorre anche combattere e morire, esaltando al loro posto l’individuo senza patria e senza religione del “villaggio globale”, cui si vogliono attribuire tutti i diritti e nessun dovere, a cominciare dal chimerico “diritto alla felicità” – felicità, ovviamente, materiale, da conseguirsi nel miglior modo possibile in questo mondo, alla svelta e ad libitum.   Come si poteva celebrare degnamente una guerra condotta, da tanti giovani che vi dovettero partecipare, all’insegna della “religione della Patria” e dei conseguenti ideali di riscatto morale, sacrificio, disciplina, dovere, onore, virtù militari?  Tutte cose perfettamente sconosciute nell’epoca della “civiltà elettronica”.  Bisognava concentrarsi solo sugli aspetti negativi:  l’ottusità e l’insensibilità di certi generali e ufficiali; la durezza della vita nelle trincee; le numerose morti per malattia o in prigionia; le sofferenze dei civili; lo squallore delle retrovie; le deficienze, anche gravi, della nostra organizzazione militare;  le episodiche ribellioni; gli imboscati…
 La falsificazione del significato si fonda anche sull’ignoranza.  Ignoranza dei fatti storici, essendo notoriamente la storia una delle discipline più bistrattate dall’odierna incoltura.  Et pour cause, dato che l’ edonismo dominante, nel suo radicale nichilismo, deve far piazza pulita anche della vera cultura e in primo luogo dell’esatta conoscenza della storia:  conoscenza spesso scomoda, che ci impedisce di adagiarci in un presente senza tempo, come se fossimo figli di nessuno e autorizzati a vivere come tanti Robinson Crusoe.
Un filosofo tedesco contemporaneo, il discusso prof. Peter Sloterdijk, noto per una sua Critica della ragion cinica (1983), alcuni anni fa ha sostenuto, in un discorso polemico sulla “riconciliazione franco-tedesca”, che l’Italia era un caso classico di cattiva coscienza nei confronti del proprio passato perché aveva voluto tramutare una guerra persa in una falsa vittoria:  infatti per noi la I g.m. era finita con la sconfitta di Caporetto[1]. L’armistizio ci avrebbe trovati sul Piave e sul Grappa, ancora a leccarci le ferite ben nascosti dietro le divisioni francesi e britanniche inviate a soccorrerci?  Il suddetto filosofo non deve esser molto ferrato nelle Istorie. E non è il solo, visto che anche a livello di istruzione superiore, c’è chi ritiene oggi, in Italia, che la Grande Guerra noi l’abbiamo persa a Caporetto!  Lì sarebbe malamente finita per noi la brutta avventura![2]
Si tratta di una bugia colossale, nella quale, per quanto riguarda noi italiani, sguazzano due subculture:  quella variegata della sinistra vulgar-marxista, radicaloide, femminista, cattolica e  pacifista, antiitaliana per amore della rivoluzione e dell’umanità nuova da costruire, del “dialogo” e delle “aperture”; e quella, forse meno variegata, del c.d. “tradizionalismo”: ultramontano, austriacante e neoborbonico, antiitaliano in nome di un’idea di “tradizione” rimasta ferma alla (pseudo) Donazione di Costantino e al Sacro Romano Impero.  Questo “tradizionalismo”, saltabeccante tra Filippo il Bello e Bonifazio VIII, Julius Evola e il Principe di Canosa, sta vivendo il suo quarto d’ora di celebrità da quando sono esplose le autonomie e le Leghe, insomma  da quando sembra esser rinato in modo virulento il  particolarismo italico di antica, infausta e comunale memoria, fattosi ora araldo entusiasta di una “Europa delle regioni”, che qualcuno spera si trasformi domani o dopodomani in una messianica riedizione dell’Impero.

2.  La Grande Guerra l’abbiamo vinta, scusateci se ci siamo permessi

 Lo sfondamento di Caporetto (24 ottobre 1917), tra Plezzo e Tolmino, nei monti dell’alto Isonzo, dovuto soprattutto agli errori dei nostri comandi dimostratisi impreparati (per vari motivi) di fronte alla nuova tattica del nemico basata sull’infiltrazione, invece che sul consueto, sanguinoso e spesso sterile assalto frontale, ci costrinse a far arretrare di colpo tutto il fronte, schierato in un lungo semicerchio alcuni km al di là dell’Isonzo, appunto da Tolmino sino al mare.  Altrimenti, gli austrotedeschi, scendendo rapidamente lungo il corso del fiume, avrebbero chiuso le nostre forze in una gigantesca sacca.  Cominciò così la ritirata, alla quale si mescolarono mezzo milione di friulani in fuga, contribuendo enormemente ad un caos che  si estese sino alle retrovie, costituite (negli eserciti di allora) da centinaia di migliaia di uomini.  La III armata, schierata da Tolmino al mare poté  tuttavia ritirarsi in buon ordine, lasciando al nemico solo l’artiglieria pesante.  Giunta sul Piave, ricostituì la linea assieme ai resti della II, quella del generale Capello, travolta dall’offensiva nemica, e a quella più piccola (la IV) scesa dal Cadore in relativamente buono stato.  Con circa 35 divisioni ancora in grado di combattere sostenemmo con successo la c.d. “battaglia d’arresto” contro circa 50 divisioni austrotedesche, usurate dall’avanzata ma col morale alle stelle e decise a chiudere la partita; battaglia difensiva durissima e decisiva che durò  un mese e mezzo, dagli Altipiani al Grappa al Piave, dal 10 al 26 novembre e dal 4 al 25 dicembre, vinta con le nostre sole forze, con l’apporto dei “ragazzi del ‘99”, non con l’aiuto di francesi ed inglesi, che comunque costituirono alle nostre spalle una fondamentale riserva strategica: 5 divisioni francesi e 6 inglesi, giunte in tutta fretta e poi ridottesi rapidamente a 5 (2 francesi e 3 inglesi).  I nostri alleati entrarono in linea quando avevamo già stabilizzato il fronte da soli[3].
Dopo questa battaglia, ci fu quella detta del Solstizio, nel giugno del 1918, con la quale l’Austria-Ungheria cercò la vittoria finale e decisiva sul nostro fronte.  La sua poderosa offensiva, nonostante un buon successo iniziale, fallì completamente di fronte alla nostra tenace resistenza e da quel momento il suo esercito cominciò a disgregarsi, mentre aumentava la crisi del fronte interno.  Ad un nemico indebolito, con l’impero che si stava dissolvendo, per il crollo della Bulgaria e l’avanzata verso l’Ungheria degli Alleati (l’Armata d’Oriente, nella quale combatteva anche  una  forte divisione italiana,  di circa 45.000 uomini), il Regio Esercito (51 divisioni) e le cinque divisioni dei nostri alleati, più una cecoslovacca e un reggimento americano, diedero poi il colpo di grazia con la battaglia di Vittorio Veneto, esattamente un anno dopo Caporetto, battaglia che durò  cinque giorni.
Questi sono i fatti.  Oggi, nel clima antipatriottico dominante, non si vogliono ricordare e comunque, se ricordati, dispiacciono ai molti che  coltivano la denigrazione del proprio Paese come sport preferito. E dispiacciono sicuramente a tutti quei “tradizionalisti” italiani che quest’anno celebrano la morte di Francesco Giuseppe, penultimo imperatore austro-ungarico, spentosi appunto un secolo fa, in piena guerra; una guerra provocata soprattutto dagli incredibili errori dei suoi ministri e dei loro colleghi tedeschi, che non seppero contenere la crisi balcanica del 1914 nei suoi limiti regionali.  Questi “tradizionalisti” rimpiangono evidentemente il bel tempo antico quando l’Italia era divisa in Stati e staterelli inani e disarmati, pellagrosi e malarici, e le guarnigioni dell’esercito del defunto imperatore, oltre al Lombardo-Veneto, puntellavano principati, ducati, granducati consumati dalle tarme nonché l’ormai decrepito Dominio Temporale delle Sante Chiavi, impervio ad ogni riforma costituzionale, come dimostrato dal fallimento dell’ultimo e più radicale tentativo, quello di Pio IX nel periodo 1846-1848.  Un nemico acclarato dell’Italia, Sua Maestà “imperiale e apostolica”.  Dopo la perdita del Veneto, avvenuta nel 1866, il suo governo emanò su sue istruzioni “misure contro l’elemento italiano in alcune regioni della Corona”, volte a favorire la penetrazione tedesca e slava nelle stesse[4].

3. La Battaglia degli Altipiani, fallita “Spedizione punitiva”

Si iniziò il 15 maggio e durò circa un mese, raggiungendo il culmine nei primi diciotto giorni (15 maggio – 3 giugno).  Sulla carta, il piano austroungarico era semplice e nello stesso tempo “napoleonico”: sfondare le nostre linee difensive muovendo a sorpresa dagli impervi Altipiani (Asiago, Sette Comuni), lanciarsi a freccia giù per le vallate, sboccare in pianura “tra l’Adige e il Brenta” e prendere da tergo il nostro esercito, schierato quasi tutto tra Belluno e l’Isonzo, per annientarlo in una grandiosa Battaglia di Vicenza.  Il maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, che aveva approvato il piano, comandante in capo dell’Imperial Regio Esercito, aveva chiesto 8 divisioni ai tedeschi, 4 delle quali da impiegare direttamente nell’offensiva.  Gli furono rifiutate, anche perché la Germania non era in guerra con l’Italia (le avremmo dichiarato guerra il 27 agosto successivo, sempre più premuti in tal senso dai nostri alleati). I tedeschi non credevano alla riuscita di un’offensiva di quel genere e non volevano distogliere forze dal fronte di Verdun, dove imperversava dal 21 febbraio di quell’anno un’offensiva che, ad intervalli, sarebbe durata senza nulla concludere sino a dicembre[5]. Pur scettico sulle prime, Luigi Cadorna, comandante supremo italiano, di fronte alle ripetute informazioni sull’imminente, grande offensiva,  cominciò tuttavia a radunare una forte armata allo sbocco delle valli, traendola via via dal fronte isontino, lasciato audacemente indebolito, dall’interno del paese, dal corpo di spedizione in Albania.  Da questa armata Cadorna inviava poi le divisioni che mandava in successione  a sorreggere le difese sugli Altipiani.   Non all’altezza fu invece il comando italiano sugli Altipiani, che non provvide ad un tempestivo schieramento difensivo in profondità, pur ordinato da Cadorna.  Così il nemico, realizzata la necessaria superiorità locale, soprattutto in artiglierie, attaccò con 14 divisioni scelte (tolte in parte dalla Galizia, regione a Est dei Carpazi, e dall’Isonzo) penetrando a cuneo per una profondità di ben 20-25 km nel nostro dispositivo e raggiungendo, dopo duri combattimenti, l’ultima nostra linea difensiva prima della pianura, dove fu fermato.  Fallito l’obiettivo strategico dello sbocco in pianura, mentre si stava profilando il contrattacco italiano, si ritirò con abile manovra di circa 10-12 km, sgombrando Arsiero e Asiago distrutte, attestandosi su posizioni difensive forti e sempre potenzialmente pericolose per noi, tenute praticamente sino alla fine della guerra.  Da esse l’Imperial-Regio mosse all’attacco due volte, durante la “battaglia d’arresto” seguíta alla nostra ritirata dall’Isonzo e durante la battaglia del Solstizio, ma fu sempre di nuovo fermato dai nostri e anche respinto.    
Si disse e lo si ripete ancor oggi, specialmente da parte di studiosi stranieri, che gli italiani furono salvati dai russi, dall’offensiva scatenata il 4 giugno dal generale Brussilov in Galizia, che aveva sfondato ampiamente il fronte austro-ungarico già dopo due giorni di combattimenti, provocando il pronto richiamo di diverse unità austriache dalla battaglia degli Altipiani e l’interruzione dell’offensiva.  Ma un imparziale studio delle date e delle testimonianze, come scrisse il generale Faldella, dimostra che l’argomento è del tutto fallace. Naturalmente, Cadorna si aspettava un’offensiva russa di alleggerimento, questo tipo di aiuto fu attuato diverse volte tra gli alleati dell’Intesa (ne facemmo anche noi).  Ma quando Brussilov si mosse, secondo un piano già approntato dal marzo precedente con l’accordo dei suoi alleati, l’offensiva austro-ungarica si stava già arenando.
Nelle sue memorie, il generale Erich von Falkenhayn, il Capo di Stato Maggiore tedesco che aveva negato a Conrad le 8 divisioni, scrisse:  “Nei primi giorni di giugno e, invero, prima che si iniziassero gli avvenimenti nella metà meridionale della fronte orientale [l’offensiva di Brussilov] fu evidente che non si poteva procedere nell’attacco [sul fronte degli Altipiani] né era possibile mantenersi nella posizione a cuneo da esso raggiunta”[6].  
Spiega il generale Faldella:  “Gli attacchi austro-ungarici furono continuati fino al 17 giugno.  La prima conseguenza che la sconfitta sul fronte orientale [Brussilov attaccò il 4, come si è detto] avrebbe dovuto avere, sarebbe stato, logicamente, il ritiro delle divisioni dalla fronte italiana.  Invece fino al 20 giugno il numero delle divioni impiegate tra Val Lagarina e Val Brenta rimase inalterato poiché il 9 fu inviata verso oriente la 61a divisione che stava arrivando allora dalla fronte Giulia e il 13 giugno fu ordinata la partenza per la Galizia della 48a divisione, che però era stata sostituita dalla 9a divisione.  Soltanto dopo il 20 giugno e cioè dopo che era stato ordinato di cessare l’offensiva e di ritirarsi sulla linea arretrata di difesa, furono inviate in Galizia altre due divisioni.  L’opinione che l’offensiva austro-ungarica fosse già fallita quando Brussilov attaccò è sostenuta anche da storici austriaci, come l’italofobo Pichler, capo di Stato Maggiore della 11a armata [una delle due che partecipò all’offensiva]…”[7].

L’offensiva imperial-regia, dopo l’inizio folgorante grazie alla superiorità numerica e nell’artiglieria, che letteralmente spianò le nostre deboli linee avanzate,  non era riuscita a conquistare Passo Buole (le Termopili d’Italia, come si disse), Coni Zugna e il Pasubio, pilastri della nostra difesa e si incartò, dall’altra parte degli Altipiani, sul Cengio, ultimo baluardo prima della pianura. Il nemico ne conquistò gran parte, anche per un errore tattico di un nostro generale, ma poi vi si fermò, il 3 giugno, attardandosi a ripulirne i boschi dai nostri che vi continuavano a combattere.
“Con il trascorrere dei giorni si addivenne non soltanto ad un equilibrio numerico delle forze, ma al conseguimento di un sensibile e crescente vantaggio da parte italiana per la progressiva immissione nella battaglia, a partire dal 3 giugno, di unità prelevate dalla 5a armata, frattanto radunatasi nella pianura veneta.  Il serbatoio umano e di armi costituito da questa grande unità [10 divisioni di fanteria, 2 di cavalleria per 179.410 uomini e 15.690 quadrupedi, riunita con un eccezionale e rapido sforzo logistico] non consente dubbi ragionevoli sul fatto che, si fosse o meno verificata l’offensiva del gen. Brussilov sul fronte orientale, ed anche se avesse trovato impiego la 61a divisione frattanto giunta nella zona di Trento, la partita si era praticamente conclusa con il mancato sfruttamento del successo conseguito con l’occupazione del nodo di M. Cengio verificatosi ai primi di giugno”[8].
E anche se fosse riuscito a scendere in pianura, l’Imperial Regio avrebbe trovato ad attenderlo non il vuoto ma diverse e robuste divisioni italiane. 

La propaganda austriaca proclamò esser questa Campagna del Tirolo una “Spedizione punitiva” (Strafexpedition) per il nostro “tradimento” della Triplice Alleanza. Il Trentino era per gli austriaci il Tirolo del Sud italiano.  L’accusa era ingiusta.  Tutti sapevano che l’alleanza nostra con l’Austria era sempre stata apparente, minata da contrasti e diffidenze continui, da interessi nazionali inconciliabili.  Proprio il maresciallo  Conrad per due volte aveva tentato di imporre la sua idea di un attacco preventivo contro di noi (allora suoi alleati), la seconda volta (nel 1908, al tempo del terremoto di Messina) con l’interessamento di elementi dello Stato Maggiore dell’Esercito Svizzero, aspirante alla conquista della Valtellina.  Gli austriaci ci avevano tenuto volutamente all’oscuro del demenziale loro ultimatum del 23 luglio 1914 alla Serbia, mettendoci di fronte al fatto compiuto.  Erano coperti dai  tedeschi, i quali si erano rifiutati (il 28 luglio) di partecipare con noi ad una conferenza di pace delle Potenze europee proposta in tutta fretta dalla Gran Bretagna il 24 luglio, per scongiurare la guerra imminente, dichiarata da Vienna alla Serbia lo stesso 28 luglio.  Eravamo usciti il 4 maggio del 1915 dall’Alleanza (di fatto già morta nell’agosto del ’14), dichiarando guerra ben tre settimane dopo alla sola Austria-Ungheria il 23 e varcando il confine il 24.  Austriaci e tedeschi erano da tempo preparati all’evento, che soprattutto i tedeschi avevano cercato di scongiurare premendo invano sugli austriaci affinché ci facessero qualche concessione territoriale per comprare la nostra neutralità, concessione da riprendersi poi a vittoria finale ottenuta. Gli austriaci non ci prendevano sul serio, disprezzandoci in quanto “nazione militarmente debole e codarda”, come disse il conte Tisza, ministro ungherese, cui bastava fare la faccia feroce per tenerla a bada[9]. Vienna ci fece alla fine offerte apparentemente generose ma l’11 maggio del ’15, sapendo che non potevamo accettarle perché ci eravamo già impegnati il 26 aprile precedente con gli Alleati a Londra ad entrare in guerra entro un mese (la notizia era stata diffusa dai francesi e da parte della stampa internazionale, oltre ad esser nota per le vie interne dello spionaggio militare).  

4.  La conquista di Gorizia.

La presa di Gorizia fu diretta conseguenza dell’esito positivo per noi della Battaglia degli Altipiani.  L’esercito i.r. aveva assottigliato il suo schieramento sull’Isonzo al fine di costituire le due armate (11a e 3a – Gruppo di Armate Arciduca Eugenio) che avevano attaccato sugli Altipiani.  In Galizia, la falla fu tamponata con l’invio e il ritorno di alcune divisioni i.r. e soprattutto grazie all’intervento dei tedeschi.  Approfittando del difficile momento del nemico, che si trovava sbilanciato tra fronte italiano e dell’Europa Orientale, con il punto più sguarnito nel basso Isonzo, il generale Cadorna, manovrando con sorprendente velocità per linee interne, ricondusse le sue divisioni dalla pianura veneta al fronte isontino, investendo di sorpresa con una grande offensiva il Campo trincerato di Gorizia.  Si ebbe così la Sesta Battaglia dell’Isonzo.  La ridente cittadina giuliana, subito al di là dell’Isonzo, era al centro di un munito “campo trincerato” che “constava di due parti fondamentali: la linea avanzata sulla destra dell’Isonzo (testa di ponte), appoggiata ai due caposaldi del  Sabotino e del San Michele; e quella arretrata, dietro l’Isonzo, saldata, da un lato, al Monte Santo e al San Gabriele, e dall’altro all’Hermada [che bloccava la via per Trieste].  Insomma, la difesa austriaca sul basso Isonzo s’appoggiava a quattro pilastri, due anteriori e due posteriori”[10].   
La “linea arretrata”, da 3 a 5 km a est di Gorizia, era già predisposta da tempo e assai solida.  Il Regio Esercito godeva di una netta superiorità numerica e, forse per la prima volta, di un buon numero di artiglierie, il cui tiro fu anche diretto in modo migliore che in passato.  L’attacco italiano fu portato con grande slancio iniziale, dal 6 al 9 agosto, per esaurirsi gradualmente contro la “linea arretrata”, il 17 successivo.  Furono conquistati il Sabotino e il San Michele, e l’8 agosto Gorizia.  Le perdite furono ingenti, soprattutto contro la “linea arretrata”.  Nei primi giorni della battaglia, sembrò addirittura che si potesse produrre uno sfondamento decisivo del fronte nemico.  Ma così non fu. 
Secondo Piero Pieri ci fu un errore di impostazione, nel senso che l’attacco, invece di avere un obiettivo principale e uno secondario, ne ebbe due entrambi principali, cosa che produsse una dispersione delle forze (e la necessità della pausa di un giorno) che impedì di incalzare subito il nemico che si ritirava sulla seconda linea, impedendogli di consolidarvisi.
“L’azione offensiva, attuata con forze ridotte, doveva svolgersi contro la testa di ponte austriaca, accompagnata da un’azione vincolatrice sul Carso, contro il San Michele; e si risolse invece in due attacchi d’uguale intensità.  Entrambi erano alla fine coronati dal successo, grazie ai criteri più razionali, al maggiore impiego d’artiglieria, e alla sorpresa, ma senza l’azione fulminea e travolgente e senza l’adeguato sostegno di riserve fresche, che avrebbe consentito una vera rottura e il tempestivo sfruttamento di questa, con una penetrazione di parecchi km entro la valle del Vipacco, la quale avrebbe potuto porre in grave crisi tutto lo schieramento austriaco sull’Isonzo.  Non solo, ma la battaglia, degenerata in un tremendo logorio di forze, portava le nostre nuove linee a ridosso di posizioni ancora più forti di quelle austriache del Sabotino e del San Michele, su una fronte più estesa e da fortificare ex novo”[11].
Nonostante il mancato risultato strategico di vasto respiro e le gravi perdite, il successo fu innegabile.  Il nemico aveva perduto “una testa di ponte formidabile, costituente un minaccioso sbocco offensivo verso la pianura friulana”.  Pertanto, migliorò notevolmente tutta la nostra situazione difensiva sul basso Isonzo[12].   Ci furono poi i benefici morali dell’impresa, da Pieri così riassunti:
“Per la prima volta, dopo quindici secoli di storia, un esercito tutto italiano sconfiggeva in una grande battaglia un esercito straniero; e per la prima volta  dopo più di tredici mesi di guerra nostra, e dopo ventiquattro di guerra mondiale, si cominciò a condurre la guerra secondo i dettami della sanguinosa esperienza.  Il morale della nazione e dell’esercito ne uscí sollevato, la vittoria ebbe larga eco in tutto il mondo; e, quale conseguenza diretta o indiretta, in quello stesso agosto una bella divisione italiana sbarcava a Salonicco, il governo italiano dichiarava finalmente guerra alla Germania, la Romania dopo tante incertezze entrava in guerra a fianco dell’Intesa”[13].
In effetti, la presa di Gorizia fu l’unica vittoria offensiva dell’Intesa nel 1916.  Più importante, nel quadro strategico generale fu la vittoria difensiva  dei francesi nella tremenda battaglia d’attrito di Verdun e quella nostra parimenti difensiva nella Battaglia degli Altipiani.  Quella conquista ebbe comunque notevole risonanza, sul piano psicologico e propagandistico, anche perché la massiccia offensiva britannica sulla Somme aveva guadagnato, in quell’estate terribile, solo pochi km di terreno, perdendo nel nefasto giorno d’inizio (il 1° luglio), oltre 57.000 uomini, ben 19.000 dei quali caduti[14].
L’entusiasmo per la presa di Gorizia, successiva alla vittoriosa difesa contro Conrad sugli Altipiani, fu immortalato nei versi, al tempo assai celebri, del poeta  toscano, volontario di guerra, Vittorio Locchi, scomparso poi a 28 anni il 15 febbraio 1917 in Egeo con l’affondamento della nave che trasportava parte del  suo reggimento in Macedonia.  Poeta popolare, toscaneggiante, il Locchi, in molta sua produzione, ma non privo della capacità di immagini suggestive e potenti.  Contro i gufi dell’antiitalia e gli ipocriti del “politicamente corretto”, voglio chiudere questo ricordo del 1916 sul fronte della nostra guerra con alcuni versi de La Sagra di Santa Gorizia:

Era tutto un arcobaleno
la cupola d’aria del Carso.
Brillavano le petraie
come ossami calcinati,
Lontano l’Alpi Giulie
parevano domi incantati.
….
E se il Calvario
non fioriva, se non fioriva
il Carso, sempre in tormento
sotto la furia dei colpi,
ci fiorivano tutti i cuori
seminati dalla speranza.
Si diceva: “Si va:
Questa volta si va davvero!
Salteremo l’Isonzo
come caprioli;
chi ci terrà
quando sarà l’ora?
Tutti vogliamo esser primi
a baciare il manto celeste
di Santa Gorizia…
Notte del 7 agosto
chi ti dimenticherà?
Che numero aveva il reggimento
fra cui passai nella notte
balenante, lungo la strada
bianca di Gorizia?
E venne l’ordine di avanzare.
L’ombre nere si levarono
dai lati della strada,
i lampi illuminarono
la selva dei fucili;
e il reggimento si sparse
pei campi come un volo
d’uccelli
verso l’aurora.

Paolo  Pasqualucci




[1] Dal Corriere della Sera del 31 dicembre 2008:  “Si è parlato all’epoca di vittoria mutilata, ma la prova dell’Italia è stata una sconfitta travestita da vittoria”.  A causa di questa falsa coscienza, di questa menzogna, si è giunti alla “tragedia del fascismo”, sempre secondo lo Sloterdijk. Già:  avremmo dovuto perdere per davvero, così non ci sarebbe stato il fascismo, Male Assoluto!
[2] “Aneddoto di poche settimane fa.  Un dottorando di laurea magistrale (quinto anno di scienze politiche) menzionò in sede di esame la sconfitta dell’Italia nella I g.m. ‘Lei si riferisce alla vittoria mutilata’?, gli chiese il professore che lo interrogava.  ‘Ma no, a Caporetto, che ci ha messo fuori combattimento!’, rispose lo studente, il quale ignorava che Caporetto fu una grave sconfitta, ma non l’unica né la più grave subíta dagli eserciti alleati nella Grande Guerra e che non determinò lo sbandamento e l’uscita dal conflitto dell’Italia”(Maurizio Serra, L’idea sbagliata della nazione “sbagliata”, in ‘Nuova Storia Contemporanea’, 2009, XIII, 3, pp. 5-10; p. 6). 
[3] La cosa fu onestamente riconosciuta dal generale tedesco Krafft von Dellmensingen, autore del geniale piano che portò allo sfondamento di Caporetto, e dalla Relazione Ufficiale austriaca, la quale scrisse che il Regio Esercito, “se pur sostenuto moralmente dalla prospettiva di aiuti alleati, trovò in se stesso la forza di imporre l’alt agli eserciti avversari.  E così poté verificarsi il fatto che un esercito presunto in dissoluzione divenisse di nuovo, nel volgere di poche settimane, un avversario da tenersi in conto, che si mostrò determinato a non considerare assolutamente come perduta la partita” (citato da Pier Paolo Cervone, Vittorio Veneto, l’ultima battaglia, Mursia, Milano, 1994, pp. 77-78, corsivo mio).  Non male per un esercito che avrebbe visto finire ingloriosamente la sua guerra con la disfatta di Caporetto.  I reparti alleati entrarono in linea solo il 4 dicembre ma combatterono solo il 30 dicembre (riconquista francese di un tratto della dorsale del monte Tomba), ad offensiva nemica praticamente esaurita, perché il nemico non attaccò nei loro settori (Emilio Faldella, La Grande Guerra, vol. II:  Da Caporetto al Piave, Longanesi, Milano, 1965, pp. 284-285).  
[4] Il verbale del Consiglio dei ministri dedicato a questo argomento, tenutosi a Vienna il 12 novembre 1866,  è citato da Mario Toscano, Il negoziato di Londra del 1915, in ‘Nuova Antologia’, nov. 1967, p. 318.  Ricordo che durante il regno del “cattolicissimo” Francesco Giuseppe avevano ripreso lena e si erano potenziate le tendenze “giuseppine” ossia liberali e anticlericali:  si ebbero l’introduzione del matrimonio civile e di tribunali civili per la discussione delle relative cause; di un diritto di famiglia piuttosto ugualitario che, dal punto di vista patrimoniale, trasformava il marito in una sorta di tutore della moglie e dei figli;  misure che implicavano l’equiparazione dei culti;  la sottrazione al clero del monopolio dell’istruzione, tranne che per l’insegnamento religioso.  Disdegnando il dogma dell’infallibilità pontificia proclamato dal Concilio Vaticano I, l’imperatore aveva rimesso in discussione il Concordato del 1855. Pio IX protestò inutilmente contro le leggi e le misure anticlericali.   
[5] La richiesta di truppe tedesche da parte di Conrad si basava anche sul fatto che, pur non essendo in guerra con noi, i tedeschi (violando il diritto internazionale)  avevano mandato nel 1915 il Corpo Alpino Bavarese (30.000 uomini) a sostenere per alcuni mesi i territoriali austriaci che difendevano il Trentino dai nostri non insistiti attacchi e impiegavano loro sottomarini (all’occorrenza con bandiera imperial-regia) contro il nostro traffico mercantile in Adriatico e nel Mediterraneo.  Furono anche catturati prigionieri tedeschi ma il nostro governo fece finta di nulla, cosa che irritò profondamente i nostri alleati. Sul punto: Saggio introduttivo di Gianni Pieropan a Schneller, 1916. Mancò un soffio, cit., pp. 22-27 et passim.  
[6] Emilio Faldella, La Grande Guerra, Longanesi, 1965, vol. I, p. 208, per la citazione. 
[7] Op. cit., pp. 211-212.  L’offensiva russa impedì che la 61a divisione i.r. accorresse sugli Altipiani, quando l’offensiva stava vivendo gli ultimi sussulti.  Si sarebbe comunque trattato di un aiuto del tutto insufficiente a sfondare, di fronte al numero in progressivo aumento delle divisioni italiane.  Su questa battaglia, fondamentale:  Karl Schneller, 1916.  Mancò un soffio.  Diario inedito della Strafexpedition dal Pasubio all’Altopiano dei 7 Comuni, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Pieropan, traduz. dal tedesco di Giorgio Pasetto, Arcana Editrice, Milano, 1984. Il tenente colonnello austriaco Karl Schneller fu l’autore del piano operativo dell’attacco.  All’ottima introduzione del Pieropan, il testo aggiunge numerosi brani tratti da diari e lettere di parte austriaca, tedesca, italiana.  Un’idea assai valida della battaglia, sotto forma di diario-racconto, la dà anche il famoso:  Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu (Einaudi, 1945, 1970 ma scritto nel 1936-1937), al tempo valoroso ufficiale volontario della Brigata Sassari, aspramente impegnata nella lotta.    
[8] Schneller, 1916.  Mancò un soffio, cit., dal commento di Giani Pieropan, nella sezione “Elencazione ed analisi degli schieramenti”, pp. 397-410; p. 406.  Ci furono ancora violenti attacchi  il 7, il 12-13 e il 15-16 di giugno, ma si trattava ormai di colpi di coda isolati.  Il molto citato, storico americano John  R. Schindler, Isonzo.  Il massacro dimenticato della Grande Guerra, tr. it. di Alessandra Di Poi, Libreria Editrice Goriziana, 2002, dedica un’analisi breve e superficiale alla battaglia, per concludere ripetendo la ben nota falsa vulgata:  “L’Italia quindi aveva respinto quello che per Conrad avrebbe dovuto essere un colpo fatale.  In verità l’Italia si era salvata grazie alla sorprendente vittoria russa all’est, che ebbe anche la conseguenza di stroncare l’offensiva tirolese a metà del suo corso” (op. cit., p. 231).   Come ha ricordato qualcuno, lo sfondamento iniziale di Brussilov fu reso possibile anche dal fatto che Conrad aveva ritirato quattro fra le sue migliori divisioni dal fronte orientale proprio per impiegarle contro di noi nel Trentino.   
[9] Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del 1915.  Come l’Italia decide la sua guerra, Il Mulino, 20092, p. 95. 
[10] Piero Pieri, L’Italia nella Prima Guerra Mondiale [1915-1918], Einaudi, Torino, 1965, pp.  111-112.
[11] Pieri, op. cit., p. 116.
[12] Op. cit., pp. 116-117.
[13] Op. cit., p. 117.  L’entrata in guerra della Romania fu dovuta assai più alle vittorie russe in Galizia che alla conquista di Gorizia, che potrà comunque aver pesato anch’essa.  La dichiarazione di guerra alla Germania non era ulteriormente procrastinabile, di fronte alle ripetute pressioni dei nostri alleati e delle loro opinioni pubbliche, soprattutto di quella inglese, con la stampa che cominciava a trattarci da infidi e traditori.  È interessante notare che, in un recente libro di uno storico inglese sulla nostra guerra, ancora poco conosciuta dal pubblico straniero,  la frase di Pieri sulla grande vittoria tutta italiana dopo tanti secoli contro un poderoso esercito straniero, viene riportata come se il Pieri l’avesse riferita alla Battaglia di Vittorio Veneto e non a quella di Gorizia [!], trasformandola così in un esercizio di vuota e scorretta retorica, dato che a Vittorio Veneto un ruolo importante fu svolto dal Corpo britannico ivi impegnato in un’armata mista italo-inglese, comandata da Lord Cavan (cfr. :  Mark Thompson, The White War. Life and Death on the Italian Front. 1915-1918, Faber & Faber, 2008, p. 365).  Il libro del Thompson è scritto secondo l’impostazione “politicamente corretta” attuale, che non comprende affatto (ed anzi disprezza) le nostre esigenze di unità e sicurezza nazionali, tutta intenta a dimostrare i suoi pregiudizi ideologici: l’asserita inutilità della terribile prova ed inoltre il carattere particolarmente nefasto di una guerra supposta progenitrice del fascismo.  Questi storici leggono la nostra guerra alla luce del posteriore avvento del fascismo, per loro forma del Male Assoluto, il che è estremamente scorretto, soprattutto sul piano storico.  Su Vittorio Veneto, scrive invece il Pieri:  “Così l’Italia terminava l’ardua prova con una grande vittoria.  Vittoria certamente agevolata dalla disgregazione crescente dell’esercito austro-ungarico; ma questa era pur sempre il risultato di tutta la tremenda lotta continuata con mirabile tenacia per tre anni e mezzo…”(Pieri, op. cit., p. 198).
[14] La Battaglia della Somme, della quale si celebra parimenti il centenario, soprattutto in ambito anglosassone, durò dall’1 al 20 luglio e dal 12 al 20 settembre, portando alla conquista finale di 12 km di terreno, guadagno strategicamente ininfluente, minimo in proporzione allo sforzo immane e sanguinoso prodotto (in modo simile a quasi tutte le nostre Battaglie dell’Isonzo).   

Negli affari vince Caino (recensione di Emilio Biagini)

 Il Prof. Gotti Tedeschi offre con questo saggio una nuova lucida analisi della gloriosa società dalle “magnifiche sorti e progressive” che ci affligge e che ha il suo più brillante successo nella creazione di ingiustizia e di oppressione dei più deboli, gravati da crescenti tasse, meno opportunità di scelta, fallimenti di aziende, perdita di posti di lavoro, disoccupazione, disorientamento sociale con droga e simili, e non ultima la catastrofe previdenziale. Il tutto è immediata conseguenza di disonestà e burocrazia divoratrice ideologizzata. Un semplice esempio ben noto a livello microeconomico: i “vincoli eterni” di urbanizzazione che stanno assassinando il settore edile, accompagnati naturalmente dal sinistro sbavare contro la mitica “rapallizzazione”.
Dove mancano idee forti (e intelligenti) il comportamento (egoistico e sgangherato) influenza il pensiero (che diventa egoistico e sgangherato a sua volta). Ed ecco fanno la loro comparsa le idee che fanno comodo ai Caino: il relativismo morale e il nichilismo. Idee diaboliche entrate in concorrenza con le idee forti del Cristianesimo, dimostrando l’efficacia della legge di Gresham: la cattiva moneta scaccia la buona, anche nel campo delle idee. I falsi profeti si riconoscono dalle conseguenze che provocano, e quali conseguenze provoca il materialismo evoluzionista che fa da inevitabile sostegno al relativismo morale e al nichilismo?
Sia permessa una piccola diversione per afferrare il reale significato e le perverse implicazioni della superstizione materialista evoluzionistica che l’autore cita solo brevemente. Va subito detto che nessuno ha mai visto la nascita di una nuova specie, né in natura né in laboratorio. Gli unici esperimenti per creare nuove specie sono falliti: i miserabili tentativi di Miller con i moscerini dell’aceto, compiuti settant’anni fa e presentati tuttora come “successo” dell’evoluzionismo. L’unico, perché nessuno ha più osato tentare alcunché di simile. Quegli esperimenti, aggredendo i poveri moscerini con radiazioni ionizzanti e sostanze alchilanti per forzarne le mutazioni geniche sono riusciti soltanto a produrre moscerini rovinati e nessuna nuova specie.
Come insegna l’insigne storico Roberto De Mattei, l’evoluzionismo è un’ideologia che si fonda su (mal interpretata) scienza, e scienza che a sua volta si basa sull’ideologia: un perfetto circolo vizioso sostenuto da sconfinata arroganza accademica e vigliaccheria arrivistica. I cordoni della borsa che alimenta scuole e università sono in mano a finanzieri Caino, burocrati Caino, politicanti Caino (spesso non eletti da nessuno o eletti grazie a raffinatissimi e democraticissimi brogli). Chi dissente non fa carriera, e gli onnipresenti scandali (regolarmente soffocati) nei concorsi a cattedre dimostrano quale affidamento si può fare sulle auliche sciocchezze che discendono dall’Olimpo accademico, dove i bonzi tengono le loro danze tribali, incensandosi a vicenda, citandosi a vicenda e recensendosi a vicenda, con una regolarità da far invidia alle più collaudate cosche mafiose.


Ecco perché l’evoluzionismo funziona: grazie ad una ben oliata macchina di propaganda, la cui prima menzogna è che il vile Cattolicesimo reazionario sarebbe l’ostacolo oscurantista all’affermazione della luminosa scienza evoluzionista, Nulla di più falso: Darwin non è mai stato messo all’Indice. In linea di principio non vi sarebbe niente di eretico nell’idea che la creazione abbia proceduto per successivi stadi evolutivi. Le obiezioni all’evoluzionismo sono sempre state solo ed esclusivamente scientifiche. Se l’evoluzionismo è scientificamente un disastro non è certo per colpa dei cristiani.
Tuttavia la sgangherata teoria (o piuttosto ipotesi non dimostrata) funziona, non per motivi scientifici ma politici, e funziona strettamente accoppiata al malthusianesimo (da cui Charles Darwin era letteralmente stregato): e l’osceno accoppiamento ha generato il mostriciattolo dell’ambientalismo. Ma attenzione, non tutto l’evoluzionismo è “buono” per Caino, come dimostra la tormentata storia di un’ipotesi costantemente in lite con la realtà. L’evoluzionismo darwiniano, basato sulla competizione che “genererebbe nuove specie”, subì una prima durissima sconfitta con l’affermarsi della genetica, fondata dal geniale abate agostiniano Gregor Mendel, e riscoperta decenni dopo la morte di Mendel, cui nessuno prestò inizialmente attenzione perché era “soltanto un povero frate”. La genetica, una scienza solidamente fondata, dimostrava la stabilità delle specie.
I Caino cercarono di correre ai ripari imbarcando le genetica nel barcone evoluzionista che faceva acqua da tutte le parti, e inventarono così il neodarwinismo, in cui “mutazioni casuali” formerebbero nuove varietà sempre più diversificate sulle quali agirebbero la “competizione” e la “selezione naturale” dell’ambiente fino a formare varietà così diverse da non essere più capaci di incrociarsi riproduttivamente, ed ecco le nuove specie: teoria irreparabilmente contraddetta dal fatto che tutte le specie sono ben individuate; non vi sono le innumerevoli forme di transizione che sarebbe lecito aspettarsi, non vi sono “anelli di congiunzione”. Fra parentesi, il famoso Archaeopteryx non congiunge affatto rettili e uccelli: come ha dimostrato il fisico Fred Hoyle, l’ Archaeopteryx è un patetico falso, probabilmente fabbricato da Ernst Haeckel, noto autore di parecchi altri falsi che gli fruttarono molto denaro, col quale riusciva perfino a mantenere un’amante. Haeckel è pure l’inventore della stessa parola Ökologie, “ecologia”.
Peggio ancora: numerosissime specie hanno continuato ad esistere senza subire modifiche per decine o centinaia di milioni di anni durante i quali sono avvenuti drastici cambiamenti ambientali. Per tappare questi enormi buchi nella credibilità dell’evoluzionismo alcuni biologi hanno inventato l’evoluzione “per equilibri punteggiati”, ossia a salti: idea assurda perché sarebbe come dire che d’improvviso una coppia di anfibi potrebbe produrre un rettile e da una coppia di rettili potrebbe nascere un uccello, ma che per lo meno supera la difficoltà della mancanza di “anelli di congiunzione”. I biologi promotori di questa idea erano solidamente atei e politicamente corretti, cercavano solo di raddrizzare un evoluzionismo in crisi nera, e non erano certo vilissimi integralisti cattolici, ma ciononostante vennero ferocemente perseguitati dai colleghi Caino come se fossero stati biechi agenti del Vaticano, e infine costretti all’abiura, pena la perdita della cattedra e della pensione. Perché?
Il motivo è che la loro teoria dell’evoluzionismo “a salti”, per quanto solidamente atea, elimina la competizione darwiniana, la quale è l’unico puntello ideologico che offra ai Caino politici ed economici una parvenza di giustificazione della loro esistenza e dell’oppressione che esercitano sul mondo.
L’ideologia di Darwin servì fin all’inizio a giustificare l’oppressione colonialista e imperialista britannica (irlandesi, neolatini cattolici, indiani, cinesi, negri e altre “razze inferiori” dovevano essere grate all’Herrenvolk britannico che si prendeva cura di loro), mentre l’ideologia di Malthus giustificava l’oppressione domestica dei poveri che affollavano gli “slums” creati dalla rivoluzione industriale (colpa loro se erano poveri, erano troppi). Poi venne adottata da altri Caino: nazisti, comunisti, poteri forti, finanza usuraia globale.
L’ambientalismo serve poi a montare accuse contro la Chiesa, “colpevole” di aver sostenuto che l’uomo deve dominare la terra (che va invece idolatrata), serve a sabotare innovazioni e sviluppo, serve ad espropriare territori sempre più vasti, i cosiddetti “parchi naturali”, sottratti all’uso della gente ad arbitrio degli “illuminati” Caino per promuovere l’oscena idolatria della natura.
I Caino trionfano con l’aiuto delle eresie che fanno dilagare la corruzione morale: (1) ribellione di Lucifero, (2) eresia pelagiana che negava il peccato originale, (3) panteismo che portò a idolatrare l’ambiente (vedi il neoplatonismo eretico introdotto dai greci fuggiti a Firenze nel Quattrocento davanti all’avanzata ottomana), (4) riforma protestante con effetti devastanti sul matrimonio (degradato da Sacramento a mero contratto) e sull’etica economica (ricchezza come segno dell’“elezione” divina nel calvinismo, più ancora che come dono di Dio) e crollo delle dinastie cattoliche a vantaggio di quelle protestanti (e perché i banchieri fiorentini furono rovinati e quelli genovesi no? perché i fiorentini per loro disgrazia dovettero trattare coi filibustieri inglesi che li derubarono, mentre i genovesi ebbero la fortuna di trattare con i gentiluomini spagnoli), (5) marxismo, (6) eresia naturalista di Rousseau che fece inaspettatamente diventare “buona” la natura, (7) ulteriore eresia naturalista che generò i Robespierre, (8) americanismo che propose come nuova virtù la capacità di creare ricchezza e dichiarò superate obbedienza, umiltà, mortificazione, povertà scelta (virtù “medievali”), (9) eresia modernista con il suo agnosticismo che liquidava la religione come orpello irrazionale da cancellare.
Questa classificazione degli orrori rivoluzionari è più ampia e comprensiva di quella di Plinio Corrěa de Oliveira che prevede quattro stadi: (1) riforma protestante, (2) rivoluzione francese, (3) marxismo, e (4) il funesto Sessantotto che portò all’anarchia morale, alla disgregazione della famiglia e alla grottesca pagliacciata del gender. La classificazione del Gotti Tedeschi, oltre ad un maggior dettaglio, ha il merito di individuare esplicitamente le radici teologiche del disastro, partendo dalla ribellione originaria di Lucifero, fonte di ogni male, che nella teorizzazione di Corrěa de Oliveira rimane implicita.
Comodissimo questo capitalismo malthusian-darwiniano: la povertà non si risolve promuovendo l’iniziativa e lo sviluppo con opportune innovazioni sociali e tecnologiche, ma con lo sterminio malthusiano; i ricchi sono ricchi perché sanno competere meglio, non è colpa loro se sono più bravi. Oggi il capitalismo malthusian-darwiniano promana soprattutto dagli Stati Uniti e dai loro satelliti, specie Gran Bretagna e Germania, e ha decretato tabù la dottrina cattolica, che si sforza di relativizzare.
Dai frutti si riconoscono i falsi profeti. E infatti, intorno agli anni Ottanta, la finanza prende il sopravvento sull’economia reale mentre si riduce l’attitudine delle famiglie al risparmio. Crollano le nascite e il risparmio viene incanalato nell’accrescimento dei consumi individuali perché i Caino non vogliono rinunciare alla loro naturale vocazione di ingrassare senza limiti. Meno risparmio affluisce alle banche, vi è meno credito disponibile, meno ricavi e utili, così il sistema bancario inventa i “derivati”.
Per ricostruire un capitalismo fondato sull’economia reale occorrerebbe riscoprire la dottrina sociale della Chiesa. Le leggi naturali in economia non sono state inventate dal Cristianesimo ma Dio le ha stabilite in natura per il bene dell’uomo, come insegna Benedetto XVI in Caritas in Veritate. Cristo stesso non disdegnava affatto i ricchi. La “Chiesa povera” va interpretata: dev’esserlo nel senso di mantenersi distaccata dalle ricchezze, ma per evangelizzare ha bisogno di una forte base economica.
Sarebbe stolto incolpare il capitalismo e la proprietà privata per la crisi: ciò non farebbe che agitare i vecchi fantasmi del totalitarismo comunista o dei “livellatori” inglesi del Seicento, che precorsero gli orrori del ventesimo secolo. Non è la proprietà privata a generare i vizi, ma sono i vizi che deturpano l’uso della proprietà. Il ciclo perverso è stato provocato dalla decisione immorale di bloccare le nascite, realizzata soprattutto con il diabolico aborto libero: l’associazione tra l’abbassarsi della curva di natalità in corrispondenza dell’anno di adozione delle leggi abortiste salta agli occhi nelle statistiche demografiche di qualsiasi paese. Le “strutture architettoniche” della società globalizzata sono gnostiche, negatrici della morale cattolica, alla quale si vuole togliere il diritto di proporsi perché pericolosa ai Caino. Andrà vietata nelle scuole, in famiglia (la disgregazione della famiglia è prioritaria nell’offensiva dei Caino), sotto l’accusa di essere portatrice di pericolose superstizioni.
La gnosi trionfa purtroppo in tutti i campi: (1) in filosofia col relativismo e il nichilismo, (2) in antropologia col ridurre l’uomo a un prodotto dell’evoluzione derivato da “un bacillo”, (3) in sociologia col malthusianesimo anti-natalità, (4) nelle scienze che hanno fatto passare l’idea di un cattolicesimo nemico della scienza, (5) in natura col negare la distinzione maschio-femmina, (6) in religione imponendo l’ambientalismo gnostico come credo universale e l’animalismo come nuovo dogma (e ormai siamo anche alla “liberazione delle piante”, attendiamo con ansia la “liberazione dei minerali”), (7) in economia proclamando l’autonomia morale degli strumenti economici.
La gnosi contraddice la Genesi, la creazione uomo-donna, la missione di moltiplicarsi, utilizzare la terra e assoggettare ogni altro essere vivente. La gnosi sconfessa il mistero dell’unità e trinità con la promessa panteistica che l’uomo sarà come Dio, assurdità demenziale e contraddittoria, sbandierata nel momento stesso che la superstizione evoluzionista riduce l’uomo a un animale. E queste sono le basi del mondo moderno: un delirio di ululanti menzogne al servizio di Caino senza scrupoli. Ogni tentativo della Chiesa di “adattarsi” al mondo moderno è destinato al fallimento perché non ci si limita ad adattare la forma con cui presentare la dottrina, ma si pretende di rendere malleabile la dottrina stessa, partendo dalla grottesca illusione del “papa buono”: “La Chiesa non ha più nemici”.
“Non essendoci più tempo, si dice, per riconvertire il mondo dovendo pertanto accettare la realtà, la realtà forzerà la dottrina, che accetterà di adattare la morale e permetterà all’etica di ‘non imporre gravosi sacrifici o persino torture all’uomo’ e diverrà un’etica opportunistica, non etica, incompatibile con la verità, persino incompatibile con la vera libertà responsabile di fare il bene. Così si riuscirà a trasformare il cattolicesimo in una mera etica sociale utile, una onlus che si occupa di poveri e migranti senza evangelizzare, una caricatura della religione che produrrà una brutta caricatura anche dell’uomo.” (p. 28).
Ma riscuoterà gli applausi dei Caino e dei loro volonterosi lacché: politici, burocrati, giornalisti politicamente corretti, teppaglia dei centri sociali. I Caino hanno bisogno di farla finita col peccato perché il senso del peccato crea una fede integralista e pericolosa per i conflitti che può scatenare nel mondo globale. La deriva della Chiesa favorisce tutto questo. Infatti guai a citare la sacrosanta condanna di San Paolo alla sodomia, non si parla più dei Quattro Novissimi. Giuda si sarebbe “salvato”, come si sarebbe “salvato” l’altro ladrone, al quale al quale Gesù crocifisso non ha rivolto la parola, e da qui la beota idea secondo cui il silenzio di Dio potrebbe indicare che non vi fu condanna, quando invece è proprio quel terribile silenzio ad annunciare che quell’anima è morta ed è inutile parlarle. L’unica virtù apprezzabile, l’unica opera di misericordia è l’accoglienza dei migranti e la tutela dell’ambiente (notare che una parte dei migranti è costituita da disgraziati che stavano a casa loro e che sono stati espulsi per deliri ambientalisti come “conservazione dell’ambiente e della biodiversità” e “abbattimento dell’anidride carbonica”; sono i cosiddetti “profughi climatici”), mentre la famiglia, che è centro di tutto, viene ignorata, anzi si fa di tutto per distruggerla.
Ecco gli obiettivi dei Caino: omogeneizzazione delle culture, relativizzazione delle religioni dogmatiche, freno immediato della natalità, creazione progressiva di stati più globali opposti a quelli nazionali, orientamento accelerato al mercato globale. Organismi privilegiati per questo distruttivo progetto sono l’Onu, la Fao, il Wto, l’Unesco, la Banca Mondiale, il Fmi. Essi sono affiancati da operazioni di diplomazia parallela (banche d’affari, crollo del Muro di Berlino, Tangentopoli che servì a liquidare i politici non di sinistra dato che gli strumenti migliori per i Caino sono appunto i sinistri). Come modelli di convincimento ufficiali operano think tank, fondazioni e media, e le ben pubblicizzate conferenze internazionali. Il tutto naturalmente a spese dei contribuenti. Il famigerato rapporto Kissinger del 1974, desecretato negli anni Novanta, fornì la traccia per il criminale piano di abbattimento delle nascite con le relative catastrofiche conseguenze.
Ed ecco i grandi risultati: (1) crollo delle nascite in Occidente; (2) crollo economico compensato da consumismo, delocalizzazione produttiva, invecchiamento della popolazione, crescita delle tasse e del debito delle famiglie; (3) rottura del mondo in due aree: Occidente consumatore e non più produttore, Oriente produttore e non ancora consumatore; (4) crisi economica e squilibri geopolitici.
Come rimediare? È molto difficile, perché si continua a negare l’evidenza e si pretende di curare gli effetti, mentre sarebbe indispensabile agire sulle cause. Tre son i problemi principali: (1) degrado ambientale (“risolto” mediante un’esaltazione acritica dell’ambientalismo neomalthusiano e gnostico), (2) nascite (un problema che ha la stessa origine del precedente e la stessa soluzione sbagliata e incoerente, propagandata con l’idea beota della “decrescita felice”), (3) famiglia (il diabolico piano dei Caino mira precisamente a distruggerla, ed ecco perché questo problema non viene neppure discusso). La Chiesa stessa non sembra capace di offrire una guida coraggiosa e sicura: il Sinodo sulla famiglia propone infatti “una forma confusa e confondente di accoglienza dei divorziati ai sacramenti” (p. 42), e in questo modo i sacramenti medesimi vengono relativizzati, insieme alla dottrina.
Ma il centro dell’uomo è Dio, e perfino l’arte lo testimonia: perduto Dio, l’arte perde il suo centro e degenera, come ben notò Karl Schefold, e non solo l’arte ma tutto l’uomo perde il centro e gira a vuoto. La miseria morale andrebbe invece sconfitta con i sacramenti, la preghiera e il magistero della Chiesa. È il cielo che dà senso alla terra, non viceversa. Ma la terra, mediante l’azione dello stato, pretende di imporsi al cielo. Infatti lo stato scoraggia la vita spirituale, gestisce (male) quella intellettuale e impone, col consumismo, quella materiale. L’adozione del dualismo metafisico e la separazione di Dio da Cesare, subordinando Dio a Cesare porta alla disumanizzazione dell’uomo.
Così vediamo realizzarsi la profezia apocalittica della caduta di Babilonia, che è poi tutta la terra, sulla quale “i mercanti piangeranno e faranno lutto per causa sua, perché non ci sarà più nessuno che comprerà le loro merci” (Apocalisse 18, 11). Alla fine i Caino e la turba sterminata dei loro lacché pagheranno il trionfo di un’ora con un’eternità di orrore, insieme ai preti viziosi e mentecatti che non parlano più dei comandamenti, del giudizio e dell’inferno, insieme ai prelati vigliacchi che tremano al primo squittire della lobby “ghei” e non davanti a Dio.
Questo prezioso pamphlet di Gotti Tedeschi, nella sua ultraconcentrata piccolezza di sole 48 paginette, rappresenta un formidabile pugno nello stomaco alle falsità vili e interessate che stanno portando il mondo alla rovina. Solo l’adozione del rimedio cattolico proposto in quest’opera potrebbe impedire al diavolo di realizzare la sua grande aspirazione. Quella di poter dire a Cristo, al momento del grande Giudizio: “Guarda per che razza di idioti ti sei fatto crocifiggere.”
EMILIO BIAGINI


ETTORE GOTTI TEDESCHI
Negli affari vince Caino
Società Europea di Edizioni Il Giornale

Fuori del coro

UNA PIÙ UNA MENO... (di Piero Nicola)

Bergoglio ne ha fatta un'altra. Ci siamo abituati. Lo scempio della morale e della dottrina cattolica dovuto a lui è già avvenuto. Qualunque cosa egli vi aggiunga, il risultato cambia poco. Basta demolire una sola colonna portante per far crollare l'Edificio. Il danno riguarda quelli che gli credono, ma sono tanti!
  In effetti, l'ultimo guasto prodotto dal forse-Anticristo quasi non ha fatto notizia. Anche il rumore sollevato dagli osservatori della nostra parte sembra perdersi nella monotonia. Tuttavia non è bello lasciare che silenzio e dimenticanza presto ricoprano le malefatte.
  Che cosa ha dunque combinato chi ha ridotto l'eresia a un'unica falsa "eresia", che sarebbe la puntuale e severa richiesta di rispettare i dogmi? Egli ha ora dichiarato che la convivenza dei componenti la coppia è preferibile a un affrettato matrimonio sacramentale. Se fosse sussistito qualche dubbio su una licenza concessa al concubinato, ora possiamo dormire tranquilli. A questo riguardo ogni incertezza, suggerita dai solerti interpreti dei documenti bergogliani (che maliziosamente si offrono a un'esegesi), è venuta meno: possiamo respirare a nostro agio.
  Gli scrupolosi continueranno osservare che Bergoglio emana sentenze (coerenti, continue e universali) stando ai piedi dalla Cattedra; ma la sua manipolazione e imposizione di cose serissime (concernenti fede e costumi) né si giustifica col rifiuto, per principio, di dogmatizzare, ossia avendo rottamato il Dogma, né perde il suo potere dogmatico (invertito e distruttivo). La scampano i pochi provveduti, e di questi parecchi soltanto in parte.
  Poiché ci siamo, metto in conto anche la recente e chiarissima esternazione dell'abusivo inquilino di Casa Santa Marta circa gli stranieri dalle molteplici professioni religiose. Egli ha ribadito che devono essere bene accolti tutti indiscriminatamente: cattolici e acattolici, maomettani e animisti: sono uguali per lui, e dovrebbero esserlo anche per noi. Questo disprezzo (eretico) mostrato nei riguardi dei suoi Predecessori e verso la Fede millenaria, verso Cristo medesimo ("chi non è con me è contro di me", Mt. 12, 30), non gli desta alcun turbamento. Disgraziato lui!


Piero Nicola