Testimonianza e riflessioni di un “figlio del
sole” dell’Alta Italia
Io non credo, è vero all’obiettività assoluta della storia, questa vecchia
favola, quest’antico mito tante volte smentito e negato. Ma io credo fermamente
che si possa fare storia solo entrando in un
rapporto d’intima unione, d’interiore consonanza col passato, solo
rianimando e rivivendo in sé lo spirito, il senso, il valore, l’ordine e la dialettica peculiare degli eventi
trascorsi...
La storia è presente solo in quanto
sia ricreazione e risuscitazione di quello che è l’unico, l’inconfondibile
passato.
GIOVANNI SPADOLINI
Ritratto
dell’Italia moderna (700-900)
Vallecchi, Firenze 1948.
1. L’adesione alla Fiamma Tricolore: una scelta iscritta
in un dna personale e familiare.
La sezione provincale del Msi veronese era stata
costituita uffcialmente il 2 febbraio del 1947, da un gruppo composto da
Angelo Savoia e Arturo Marchese ambedue reduci dal Campo di concentramento
inglese dei Non-cooperatori n. 25 di Yol
(India).
A costoro si erano uniti gli studenti: Ennio Beltrame,
Fabio Saccomanni, Livio Valentini ed un sottufficiale della Guardia
Repubblicana: Giovanni Zurlino. La prima sede fu un appartamento affittato al primo piano di
un edificio in via San Rocchetto, nel centro storico di Verona che sarebbe
poi devastato da inferociti partigiani
comunisti, qualche mese dopo.
Mi sono iscritto al Fronte Giovanile del Msi, il 17 marzo del 1947 a Verona, la città dove
avevo raggiunto la mia famiglia, colà trasferitasi nell’estate del 1944 da
Modena (luogo natìo del mio casato) per
sfuggire alla persecuzione dei partigiani locali.
La mia
era una famiglia di fascisti d’antica data: mio padre Mario ed il fratello
Primo, erano iscritti al fascio di San Prospero, nella bassa modenese, fin dal
1920; ed ambedue avevano partecipato
alla marcia su Roma, il 28 ottobre 1922, con gli squadristi di Modena.
Nato il
20 novembre del 1927, io ero stato battezzato con lo stesso nome dello zio paterno
Primo, morto nel 1925 per i postumi di una feroce aggressione da lui subita da
parte di un gruppo di socialisti inferociti nell’estate del 1924.
Il 16
settembre del 1943, mi
ero iscritto alla federazione del Fascio repubblicano modenese, costituita da
pochi giorni.
Il 2
novembre mi ero presentato alla caserma dell’8º Reggimento Bersaglieri di
Verona per arruolarmi del 1º battaglione “Benito Mussolini” costituitosi il 9
settembre e già operante, dal mese
d’ottobre, contro il corpo partigiano di Tito che cercava di espandersi
nell’alto goriziano, vulnerando la frontiera orientale d’Italia.
Il 3
novembre del 1945, rientravo in patria, dopo aver trascorso sei mesi di dura
prigionia in Slovenia (campo di concentramento di Bovnica, nella piana di
Lubiana, definito dall’arcivescovo trtistino dell’epoca, Monsignor Santin, il
“campo dei morti viventi”), dov’era stato tradotto il Battaglione bersaglieri,
bloccato da ingenti forze dell’armata partigiana jugoslava, il 30 aprile 1945
vicino a Caporetto mentre - rimasto
isolato - tentava la ritirata verso Udine.
Questi
precedenti, mi collocavano in quel “popolo dell’abisso” citato da Antonio
Carioti, quale luogo dell’esperienza psicologica della sconfitta e della
persecuzione vissuta dai reduci della Repubblica Sociale Italiana.
L’iscrizione
al nascente Msi, era dunque una scelta naturale, iscritta nel mio dna personale e familiare.
Il
Fronte Giovanile, in quei primi mesi del 1947 era guidato dall’universitario
Giorgio Martinat, figlio di Giulio: un
generale degli Alpini, caduto eroicamente in terra russa, a Nikolajevca, nel 1943, alla testa del
Battglione “Edolo”. Fui quasi subito chiamato a far parte del direttivo
giovanile e presi contatto con altri
dirigenti giovanili del Triveneto.
A Verona
l’attivismo giovanile era animato da: Ivan Benito Romei, dalmata, già alpino
della divisione “Monterosa” nella Rsi, fratello del comandamte sommergibilista
Romeo Romei, medaglia d’oro caduto nella guerra sottomarina nel 1942.
Romei
sostituì ben presto Martinat alla guida del costituendo Raggruppamento
Giovanile Studenti e Lavoratori del Msi.
Con
Romei, desidero ricordare: Raimondo Meloni, Piero Tomasich ed il fratello
Bruno, guida carismatica del gruppo goliardico “San Marco” nell’Università di
Padova; Livio Valentini, Eugenio
Chiarelli e Raimondi Meloni ambedue feriti leggermente nella manifestazione di
Trieste del marzo 1953; l’ex maró paracadutista Franco Annatelli.
Tutti
costoro, con una scarsa decina di altri iscritti, difesero coraggiosamente la
sede del Msi in via San Rocchetto, aggredita da una folla scatenata di
antifascisti nel novembre del 1947;
i quali
l’invasero, nonostante la strenua resistenza dei difensori, e la
distrussero.
A Padova
conobbi Cesare Pozzo e suo cugino Gianni Maria, allora laurenado in lettere e
filosofia, cofondatori della sezione locale assieme a Gaetano Rasi; il quale mi
farà conoscere succesivamente il Prof. Marino Gentile, del quale sarei divenuto
allievo, frequentando le sue lezioni di filosofia nella prestigiosa facoltà di
lettere alloggiata nel celebre palazzo
del Liviano.
Marino
Gentile, triestino di nascita ma ormai patavino d’adozione, era stato
consulente di Carlo Alberto Biggini, ministro dell’Educazione Nazionale durante
la Rsi. Nell’immediato dopo guerra il Prof. Marino Gentile frequentava un
cenacolo intellettuale che fiancheggiava il Msi, appena costituito.
Tale
cenacolo s’era formato ai margini dell’antico Ateneo patavino dove, secondo la
vulgata antifascista primeggiavano dopo il 1945 solo nomi “politicamente
corretti” come: il grecista Manara Valgimigli (socialista), il penalista
Giuseppe Bettiol (democristiano), il farmacologo Egidio Meneghetti (Partito
d’Azione), il latinista Concetto Marchesi (comunista).
Quel
cenacolo, dove si coltivava un pensiero differente da quello settario
dell’antifascismo dominante, era composto da: Mario Ferraboschi, docente di
diritto canonico ed avvocato prestigioso, nel cui studio professionale Gaetano
Rasi sarà poi giovane praticante; Luigi
Pezzolo, docente di scienza della finanza collegato alla Facoltà di Economia
dove spiccava, all’epoca, un grande economista antimarxista come Marco Fanno;
Francesco Apergi, docente di diritto commerciale; Gerardo d’Ambrosio, ingegnere
e preparatissimo economista aziendale.
2.- La costituzione del Msi nel Triveneto e la situazione drammatica della Venezia
Giulia e dell’Alto Adige.
A
Venezia la sezione del Msi era stata fondata dal conte Paolo Foscari (47
anni) d’antica famiglia patrizia
veneziana; il quale era accompagnato da Edgardo Beltrametti, aspirante filosofo
che si dedicherà, poi, al giornalismo
specializzandosi nelle problematiche militari, dal giovane toscano Gastone
Romani, da Michele Di Bella, profugo
dall’Egeo, il quale si guadagnava da vivere, allora, come “arsenalotto”
(operaio nell’Arsenale locale), da Giulio Raiola (che svolgerà poi una carriera
giornalistica).
La
sezione di Bolzano viene aperta dal diciannovenne Silvio Poggio, bolognese, già
bersagliere volontario del 1º Btg. “Benito Mussolini”; il quale cederá presto la segreteria all’Ingegnere
Delfino Ardizzone (classe 1901), coadiuvato dai fatelli Andrea e Piero Mitolo,
la cui azione simbolizzerá negli anni, la strenua battaglia per la difesa
dell’italianitá di quella terre di confine.
Silvio Poggio assumerá la guida del Fronte Giovanile.
A
Trento, apre la sezione locale René Ceccon (26 anni), funzionario municipale.
Nel
settembre il trentunenne Arturo Bonomi,
apre la sezione a Treviso, assieme a Francesco Montagner, Carlo Mion, Gino
Florian, Anna Maria Cusin.
Alessandro
Biancuzzi costituisce la sezione di Udine e Romeo Sartori (ventunenne) quella di Vicenza, che presto eleggerà come segretario il
commercialista Pietro Marchetto. Ai
primi del 1948 Andrea Borgato apre la sezione provinciale di Rovigo e Fernando
Bacchetti (trentenne, reduce dal campo non cooperatori di Yol) quella di
Belluno.
Il 29
giugno del 1947 si svolge a Padova il primo rapporto politico-organizzativo del
Triveneto, presieduto da Paolo Foscari, con l’intervento di Achille Cruciani
(un perugino di 26 anni che opera a Milano), segretario della Delegazione Alta
Italia.
Durante
la riunione si esamina la drammatica situazione della Venezia Giulia, dove il
territorio soffriva una spartizione provvisoria che aveva assegnato agli
Alleati angloamericani la cosiddetta Zona A,
comprendente Trieste, Gorizia, una
parte dell’altipiano carsico, ed una fascia di territorio compresa fra
il confine del 1915 e gli altiopiani della sinistra del fiume Isonzo.
La Yugoslavia di Tito dominava invece la parte
orientale della provincia di Gorizia, tutta l’Istria e la cittá di Fiume: si
trattava della Zona B che finirá poi definitamente assegnata alla Federazione
yugoslava compresa la cittá di Pola.
La
situazione in Alto Adige si stava facendo alquanto precaria, dinnanzi a gruppi
di austriacanti, nostalgici dell’impero asburgico che ribattezzavano l’Alto Adige come“Sud Tirol” ed esigevano uno
statuto speciale
René
Ceccon a Trento ed i fratelli Mitolo a Bolzano, reagiscono proponendo la
leale collaborazione delle
popolazioni di parlata tedesca e ladina con la popolazione italiana, nel quadro
dell’identitá nazionale del territorio, ribadita fin dal 1938, “l’anno in cui il popolo germanico riconobbe
come intangibile la linea di confine segnata dallo spartiacque alpino”.
Ceccon
propone di raccogliere le due province dell’Alto Adige sotto l’antica
denominazione di “Regione Alpina delle Alpi Retiche”. Tutti i gruppi giovanili
del triveneto vengono attivamente impegnati per conservare e difendere
l’identitá nazionale messa in discussione tanto in Venezia Giulia come
nell’Alto Adige e compromessa da una politica di debolezza del governo
nazionale.
Trieste
costituisce la posizione piú avanzata e cruciale del neonato Movimento Sociale,
dove fin dal 28 ottobre del 1946, i Far (Fasci d’azione rivoluzionaria) avevano
issato un tricolore con il fascio littorio sul campanile della cattedrale di
San Giusto. Anche a Trieste sono giovani e giovanissimi ad alzare l’insegna
della Fiamma Tricolore.
Annalisa
Terranova, ricorderà molti anni dopo (25 giugno 2015), recensendo il libro Trieste a Destra, che “senza il legame
con l’associazionismo patriottico triestino, l’Msi non sabebbe stato l’Msi”.
Il
fondatore della sezione triestina è l’industriale Giuseppe Sonzogno, affiancato da un pattuglia di giovani
animosi: Alfio Morelli, Claudio De
Ferra, Franco Petronio, Fabio Lonciari, Luciano Lucchetti, Francesco Paglia.
Francesco
Paglia, che aveva difeso durante la Rsi, i confini orientali, quale volontario
del Btg. “Mussolini” nel goriziano,
cadrà sotto piombo inglese assieme a Pierino Addobbati (militante della
“Giovane Italia”) e ad altri quattro triestini il 6 novembre del 1953, durante
l’insurrezione popolare che reclamava la fine del cosiddetto “territorio
libero” amministrato dagli inglesi, ed il
conseguente ritorno di Trieste alla madre patria.
Nelle
elezioni politiche del giugno 1953, il giornalista triestino Carlo Colognatti,
segretario missino poco piú che
quarantenne, sarà eletto deputato per il collegio di Udine-Gorizia-Belluno nel giugno
1953.
Nella
stessa tornata elettorale gli eletti del
MSI passano dalla esigua pattuglia di 7
parlamentari dell’aprile del 1948 (sei deputati ed un senatore) a 29 deputati e
9 senatori.
Viene
eletto, nel collegio veneto di
Verona-Vicenza-Padova-Rovigo, Cesare
Pozzo, (25 anni ) ferito, assieme a Fabio De Felice, durante la manifestazione
seguita al grande comizio di Augusto De Marsanich al Politeama Rossetti di
Trieste (8 marzo 1953).
Candidandosi alle elezioni, Cesare Pozzo aveva
ceduto il comando della federazione patavina al
patrizio veneto conte Alvise Loredan.
La lista capeggiata da Pozzo, vede tra i
candidati il conte Emo Capodilista (allora inedito intellettuale, di peculiare valore
speculativo) che Massimo Cacciari riscatterà da un ingiusto oblìo negli anni
novanta.
Emo Capodilista risulterà tra i primi dei non eletti.
3. – IL
Raggruppamento Giovanile Studenti
e Lavoratori.
Nel maggio del 1947, lascio Verona dove rimane la mia
famiglia, e mi trasferisco a Milano, da un parente che mi offriva un impiego amministrativo in
una piccola azienda edilizia operante
nella ricostruzione della capitale lombarda
che si rialzava lentamente dalle distruzioni belliche.
A Milano
frequento la locale sezione, dove conosco i dirigenti della Delegazione Alta Italia
del MSI, guidata dal Prof. Ernesto Massi un triestino di 37 anni, Gianluigi
Gatti laureando in medicina, dall’Avv.
Manlio Sargenti, dal Prof. Salvatore Caltabiano, (già giudice del tribunale dei
minori) e dal Prof. Achille Cruciani, segretario.
Provenienti, tutti, dall’esperienza della Rsi, costoro si
riunivano nella sede di Via Radegonda, nel centro cittadino, in un vecchio
palazzo salvatosi dai bombardamenti bellici,
il cui accesso era protetto da un paio di cavalli di frisia decorati da
parecchio filo spinato.
Quando
giunsi a Milano, la squadraccia della “Volante Rossa” aveva assassinato da poco
il giornalista Aldo De Agazio, fondatore e direttore del settimanale “Meridiano
d’Italia” che andava pubblicando un interessante servizio giornalistico sull’uccisione
di Mussolini e sulla sparizione del “cosiddetto oro di Dongo”
In tasca
al giornalista assassinato il 21 marzo
1947, si rinviene una lettera firmata da Giorgio Almirante (datata 1 febbraio),
dove si affidava al povero De Agazio una missione delicata ed urgente.
“Abbiamo avuto notizia – scriveva
Almirante a nome della Giunta nazionale del Msi di cui, allora, era il segretario esecutivo – che il cardinale Fossati di Torino ha convocato parecchie persone e
personalità allo scopo di addivenire alla fondazione in Piemonte di squadre di
resistenza anticomunista. Tu capirai cosa significa e cosa può significare ciò.
Affidiamo quindi a te la missione di andare a Torino, possibilmente con altra
persona di tua fiducia, di farti ad ogni costo ricevere dal Fossati e di
prospettargli la possibilità che il Msi collabori con lui. Gli puoi dire –
perchè è vero che i gesuiti di qua ci conoscono, ci approvano e ci
appoggiano.[...] Non ci siamo rivolti al nostro incaricato di Torino perchè la cosa è troppo delicata e interessante.
Vedi tu, con il tuo diplomatico tatto, il modo migliore per condurla in porto.
Comunque tieni presente che a Torino potrai appoggiarti – se vorrai – all’ing.
Giovanni Volpe (figlio di Gioacchino) presso il quale funziona la nostra sezione”.
Da questo documento emerge quale fosse il clima in cui
doveva operare il Msi nell’Italia del centro-nord.
Il
segretario giovanile milanese, Enrico Fiorini, ex-parà del Btg. “Nembo” della
Rsi, mi chiamó nella sua giunta giovanile, dove conobbi Mirko Tremaglia e
Giorgio Pisano che calavano quasi ogni giorno, uno da Bergamo ed uno da Como,
per concordare con il gruppo milanese l’azione di proselitismo in Lombardia e
dintorni.
La
delegazione Alta Italia aveva da poco avviato la pubblicazione di un settimanale
- Avanguardia Sociale, diretta da
Salvatore Caltabiano - dove si era aperto un
esame interessante del nostro recente passato, al quale io stesso
partecipai con una cruda critica al gerarchismo burocratico del ventennio
fascista.
In una
dei miei primi articoli, avanzavo, assai ingenuamente – lo riconosco, oggi –
una proposta di pacificazione tra fascisti ed antifascisti, scrivendo con
giovanile retorica:
“Gioventù al di quà e al di là della Linea
Gotica riunisciti, ritrovati, svesti l’intransigenza, l’isolamento, il rancore
covato, la prevenzione, privati del piacere della vendatta e fanne un rogo.
Levati i calzai ed entra nelle fiamme, poi con cuore puro, unita, compatta,
balza decisa, oltre la Gotica, ad incontrare l’Italia”.
Cito questo passo per dimostrare che i combattenti della
Rsi non attesero cinquant’anni – come farà poi l’ex comunista Luciano Violante
nel 1996 – per offrire, a partire dagli
ex-combattenti dei due fronti contrapposti, la pacificazioe della Nazione
Italiana lacerata drammaticamente dalla guerra civile 1943-45.
Ma quell’appello restò senza risposta, con le conseguenze
che conosciamo. Anzi esso fu violentamente osteggiato dal fronte
dell’antifascismo militante capeggiato dal Partito Comunista Italiano, che il 19 gennaio 1947, interruppe una cerimonia
promossa all’Università di Roma, dallo storico Piero Operti, già partigiano
monarchico, mutilato di guerra e medaglia d’argento al valor militare
conseguita nella guerra 1915-18.
La riunione che si doveva svolgere nella facoltà di Giurisprudenza
per la riconciliazioine fra reduci della Rsi e combattenti partigiani, con il
sostegno del quotidiano romano “Il Tempo”, venne interrotta violentemente da un
comando comunista guidato da Cino Moscatelli che la fece fallire.
Ripresi
la critica al gerarchismo improduttivo - che aveva inaridito gli slanci del
fascismo durante il regime del Ventennio
- su un periodico giovanile promosso alla vigilia delle elezioni del
1948 da Tremaglia, Pisanò, Fiorini e da me; lo
intitolammo “Vent’anni – periodico
di bonifica integrale”, riprendendo la testata del giornale di Guido Pallotta.
Il mio
articolo apriva il periodico con un titolo provocatore: “La caduta degli Dei” dove - con baldanza giovanile alquanto
incosciente, e mettendoli tutti nello stesso sacco - attaccavo i gerarchi fascisti, da quelli del
Gran Consiglio ai più modesti gerarchi di provincia.
Quell’
articolo voleva suonare un campanello d’allarme contro personaggi opportunisti e screditati del passato (il
riferimento era indirettamente rivolto specialmente all’ex qualunquista Emilio
Patrissi, con il quale il Msi, allora,
stava trattando).
Mi preoccupava
l’insorgere, nel nuovo e giovane movimento della Fiamma, di un certo autoritarismo, una eredità del
passato considerata una forma di corruzione dell’autentico principio
d’autorità, invece da preservare.
Quell’articolo
non piacque ad Angelo Berenzi, giornalista colto, già direttore del quotidiano di Vicenza
durante la Rsi, collaboratore anch’egli
di Avanguardia Sociale.
All’uscita
del congresso provinciale del Msi milanese (13
giugno 1948), Berenzi mi affrontò rimproverandomi di essere stato
ingeneroso verso modesti gerarchi provinciali, molti dei quali pagarono poi,
dopo il 25 luglio 1943, errori ed abusi non loro.
La nostra discussione finì in una discreta
trattoria di Porta Venezia, dinnanzi ad un generoso bicchiere di vino, che
segnó una leale e profonda amicizia che
mi legò poi ad Angelo Berenzi per tutta
la vita.
Nel
congresso provinciale milanese avevo presentato, assieme ad Enrico
Fiorini, un documento che si richiamava
all’etica del “senso eroico della vita”
accompagnato però dalla “rinuncia alla
prassi dittatoriale del fascismo”, perchè lo scopo da perseguire doveva
essere:“il fermo e leale proposito
dell’inserimento degli ex-fascisti nello schieramento democratico del Paese”.
Tale
inserimento non doveva significare adesione alla deteriore partitocrazia
moderna, bensì la ricerca di un “nuovo umanesimo del lavoro” (con un
riferimento esplicito al pensiero dell’ultimo Gentile”), al fine di costituire:
“una comunità d’individui con uguali diritti ed uguali poteri, senza sfruttati e
sfruttatori, regolati nei loro rapporti da leggi imparziali liberamente
espresse attraverso gli organi legislativi”.
Dal 27
al 29 giugno di quell’anno partecipai, quale delegato eletto del Msi milanese
al 1º Congresso Nazionale tenutosi nella Sala Tarsia di Napoli, dove -aprendosi la seduta inaugurale - presentai una mozione di saluto al
Maresciallo Graziani, quale “simbolo
dell’onore e delle glorie militari nazionali”, allora incarcerato.
La
mozione d’ordine era firmata, inoltre, da Enrico Fiorini per Milano, da Bartolomeo Zanenga ex parà del
“Nembo” per Belluno, dal ex-bersagliere Rsi Livio Valentini per Verona, dal
giovane volontario dalmata Pompeo Mariani, per Varese.
Nel
settembre del 1948, esaurito il tentativo di una professione amministrativa per
la quale non era tagliato, rientravo a Verona, assumendo la guida del locale
gruppo giovanile.
Nel 1949 conseguivo, da studente privatista,
l’abilitazione magistrale per iscrivermi succesivamente alla Facoltá di
Magistero dell’Universitá di Padova, dove avevo la fortuna di conoscere Marino
Gentile, grande maestro di pensiero che avrebbe modellato profondamente la mia - ancora acerba, allora - personalitá
intellettuale.
Dal 12
Al 13 marzo partecipo alla 1ª Assemblea Nazionale del Raggruppamento Giovanile
Studenti e Lavoratori, che già dal novembre del 1947 aveva sostituito il Fronte
Giovanile.
Roberto
Mieville – ferrarese, giovanissimo ufficiale carrista in Africa settetrionale, catturato dagli americani a Enfidaville (1943, Tunisia) durante la
ritirata del corpo italo-tedesco dal fronte
libico - era stato prigioniero non-cooperatore ad Hereford negli Stati Uniti,
da dove era rientrato in patria nel 1946 indossando la camicia nera.
Mieville aveva aderito fin dalla fondazione al
Msi, dove alla fine del 1947 aveva assunto la segreteria della nuova formazione
giovanile, dotandola di una certa autonomia politico-organizzativa che
garantiva il suo collegamento al Msi, attraverso un cordone ombelicale
costituito dalla presenza istituzionale del responsabile giovanile sia nelle
rispettive direzioni provinciali che
nella direzione nazionale della Fiamma.
Quell’autonomia -movimentata da forti discussioni
ideologiche tralignate in piú d’una
occazione addirittura in qualche scontro fisico – sarà poi abolita dal IVº
congresso del partito a Viareggio (1954).
I delegati provenienti dalla province furono alloggiati in
quell’occasione nella foresteria del Foro Mussolini, che Roberto Mieville era
riuscito – non ricordo come – a conseguire.
La giunta nazionale
giovanile uscita da quell’assemblea per affiancare Mieville comprendeva, tra
gli altri, Giuseppe Ciammaruconi, Mario
Tedeschi, Enrico De Boccard, Giorgio Pisanó, Mirko Tremaglia, Gianfranco Finaldi, Marcello Perina, Angelo
Nicosia.
Si trattava di un
gruppo umano raccolto attorno alla rivista Architrave,
diretta da Guido Scotto e dal giornale quindicinale L’Assalto, di cui direttore
era Ciammaruconi.
La politica giovanile di questo gruppo si distingue per un attivismo
pragmatistico, con certa inclinazione per le idee di una “sinistra nazionale”
che s’ispira al programma sociale della Rsi.
Per i rapporti tra Raggruppamento giovanile e partito,
quella prima Assemblea nazionale, nel suo documento finale, afferma di
accettare l’origine e la fisionomia del partito, “nel quale come giovani si
sentono inseriti”, ma subito dopo avverte che questi giovani ritengono
d’avere una funzione politica altresì
verso la gioventù italiana per assolvere la quale debbono acquistare “una individualità più caratteristica ed acentuata” di quella che finora hanno avuto.
Durante l’Assemblea
Giovanile, mi incontrai con Achille Billi (classe 1929), delegato del gruppo
giovanile romano e che avevo conosciuto (novembre 1944) nel Btg. Bersaglieri
Mussolini, essendo stato inquadrato nella mia stessa compagnia.
Un mese
dopo il nostro incontro a Roma, Billi verrà trovato assassinato, sulla
riva del Tevere, imbavagliato con un fazzoletto tricolore. Non si seppe mai chi
lo avesse ucciso, ma i sospetti andavano verso qualche agente di Tito
infiltrato tra profughi politici anticomunisti yugoslavi che si muovevano in
Italia.
Achille Billi non fu la sola vittima della sua fede
politica. Prima di lui erano stati assassinati: Brunilde Tanzi, giovane
ausiliaria nella Rsi, uccisa nel centro di Milano; sempre a Milano, il
giornalista Franco De Agazio, del quale già s’è detto. Lo studente Vittorio
Ferri, era stato linciato a Pisa da un gruppo di comunisti, inferociti per
l’attentato al loro capo Palmiro Togliatti. Infine il 31 ottobre del 1949, era
stato ucciso Francesco Nigro, bracciante agricolo, segretario della sezione
missina di Melissa (Crotone), durante un’occupazione di terre incoltivate.
L’esito
dell’ all’assemblea giovanile di Roma, - svoltasi all’insegna del motto
“Italia, svegliati” - mobilita la gioventù missina in tutto il territorio e mi
consente nuovi contatti con giovani
attivisti e dirigenti dell’Alta Italia: Roberto Garufi, Sergio Pessot, Piero e
Franco Vassallo, Alessandro Guarnieri e
Piero Catanoso a Genova; Piero Turrini a
Savona; Titta Dal Cero e Dina Festa ad Imperia; Guido Giannettini a La Spezia;
Roberto Melchionda e Marcello Mainardi ed Elio Barucco a Brescia; Carlo Casalena,
Gianni Rebaudengo, Giampiero Martelli,
Mario Marcolla a Torino; Piero Buscaroli,
Giampaolo Vita-Finzi, Romano Ricciotti, Bruno Bosso, Sergio Nanni a
Bologna¸ Gianni Alberto Rinaldi a Ferrara.
Poco
dopo l’assemblea di Roma, la Giunta giovanile nazionale soffre una crisi dovuta
al seguente episodio.
Discutendosi
in Parlamento l’adesione al Patto Atlantico, proposto alle nazioni occidentali
dagli Stati Uniti, nel clima di guerra fredda che divideva l’Unione sovietica
con tutti i suoi satelliti, dal cosidetto “mondo libero”, il gruppo
parlamentare del Msi aveva deciso di votare contro, pur attribuendo al loro no
un significato non pregiudizievole.
In tal
modo i parlamentari della Fiamma raccolgono la volontà del mondo giovanile
missino che aveva manifestato
compattamente la sua avversione a quel Patto,
considerando che tanto il filoamericanismo come il filobolscevismo erano
facce dello stesso male, non i termini di una scelta.
Il
deputato palermitano Guido
Russo-Perez del gruppo parlamentare del
Msi, si dissociò alla Camera dai suoi colleghi, dichiarando di votare a favore.
Egli venne quindi affrontato da alcuni dirigenti
giovanili, tra cui Giulio Caradonna,
Giuseppe Ciammaruconi, Mario
Tedeschi, Enrico De Boccard e ricevette un paio di ceffoni. Gli aggressori di
Russo-Perez furono sospesi dal partito,
mentre Mieville - per solidarietà con i suoi collaboratori - si dimise
dall’incarico di segretario del Raggruppamento Giovanile; e venne sostituito da Cesco Giulio Baghino come Commissario nazionale.
Baghino
costituì una nuova Giunta nazionale composta da quattro residenti a Roma:
Giorgio Borghetti, Maria Teresa Magno, Bruno Colletti, Bartolomeo Zanenga,
bellunese che stava facendo pratica giornalistica nella capitale; e da
esponenti dei gruppi giovanili periferici,
sparsi sul territorio: Michele M. Di Bella (Venezia) Carlo Amedeo Gamba
(Padova), Carlo Casalena (Torino), Giorgio Pisanò (Milano), Primo Siena
(Verona), Vito Cusimano (Catania), Angelo Nicosia (Palermo), Armando Epifani
(Taranto), Enrico De Angelis (Napoli).
La nuova
Giunta indisse per il 23-24 settembre del 1950 la seconda Assemblea nazionale,
convocandola nella rossa Bologna, in audace sfida al socialcomunismo.
Il
documento finale - dovuto in gran parte alla penna brillante di Carlo Casalena
- emesso da quella assemblea - traccia una strategia politica e dottrinale
riassunta nella consegna “Dallo scontro alla conquista”.
Questa
strategia viene raccolta da tutti i gruppi giovanili; i quali lanciano una
offensiva frontale nelle scuole medie
superiori, nelle universitá, in sedi politiche e culturali, sfruttando
ottimamente la disposizione impartita da comunisti, socialisti e democristiani:
aprire le propie sedi ai giovani d’ogni
colore, per sottrarli all’azione di conquista lanciata dalla gioventù del Msi.
In queste occasioni i protagonisti vittoriosi dei dibattiti che s’accendevano, erano sempre
gli esponenti giovanili della Fiamma, che s’imponevano per preparazione storico-culturale, abilità
dialettica, spirito critico e sorprendente capacità dottrinale.
A
Brescia, il sottoscritto riusciva a”scippare” letteralmente alla gioventù
democristiana una conferenza del sociologo Achille Ardigò, mentre a Padova gli
universitari del gruppo goliardico “San Marco”, guidati da Bruno Tomasich
rompevano l’assedio politico-culturale fino ad allora imposto in quel glorioso
Ateneo, affermandosi con prestigio nella goliardia locale.
Analogamente, i giovani del Raggruppamento
s’imponevano in altre località come Piero Buscaroli a Bologna, Casalena a
Torino, Milano, Genova. Michele Di Bella, con Cesare Pozzo a Venezia; e così in
tutt’Italia.
Come
riconoscerà poi Enzo Erra, in una sua
testimonianza allo scrittore Carioti, gli avversari invitavano i giovani
missini a discutere perchè erano divenuti una forza politica reale, nuova, che
dominava le scuole medie ed era assai influente nelle università.
In
coincidenza con l’assemblea nazionale di
Bologna, erano uscite due riviste giovanili, Imperium a Roma e Cantiere a
Verona, considerate da Antonio Carioti - nel libro da lui dedicato al
“sessantotto nero” de Gli orfani di Salò - “due
importanti iniziative culturali”, la seconda delle quali sarà organo ufficioso
del settore studi e cultura della Giunta nazionale guidata da Cesco Giulio
Baghino.
L’Assemblea
giovanile di Bologna elegge una nuova Giunta nazionale che riconferma i
seguenti dirigenti della anteriore Giunta Commissariale: Casalena, Siena,
Pisanò, Nicosia, Borghetti, Maria Teresa Magno, ai quali si aggiungono Silvio
Vitale ed Adriana Palomby (Napoli) e Mirko Tremaglia (Bergamo).
4.- Le correnti giovanili, tra “ Figli del Sole” e “Visi
pallidi”.
Due correnti
correnti ideali, due maniere di
considerare la politica movimentarano gli albori del Msi.
La prima, definita
altresì “corrente sociale” si richiamava
ai posulati della Rsi: Italia-Repubblica-Socializzazione, e propugnava una
specie di “socialismo nazionale” incentrato in uno Stato del Lavoro
antimaterialista.
La seconda corrente era più possibilista, incline ad una considerazione etica dello
Stato, aveva una visione sociale corporativa nell’ambito di una società
organica, definita altresì “corrente intellettualistico-aristocratica”.
La prima
corrente sembrava comoda nell’
isolamento politico, per non contaminare la purezza della propria identità; la
seconda propendeva per una attenzione strategica con altre forze politiche
nazionali ed anticomuniste per una
politica cosiddetta “d’inserimento”.
Alla
“corrente sociale”, nell’ambito giovanile corrispondeva grosso modo
l’orientamento dei “visi pallidi”, mentre i “figli del sole” erano considerati
piuttosto prossimi alla corrente “aristocratico-intellettualistica”, sia pure
con trasversalismi che in varie occasion s’incrociavano.
Le
definizione di “figli del sole” e “visi pallidi” s’impone al congresso del Msi
convocato a L’Aquila dal 26 al 28 luglio
del 1952. Essa si deve ad un giornalista
del Tempo, Giuseppe Antonio Longo. Il
quale cogliendo nel pallore dei secondi “i
segni di una macerazione interiore”
li paragona “alle sinistre eretiche e minoritarie” in una cronaca del congresso
inviata al suo giornale.
Sono
soprannominati “figli del sole” dai loro oppositori, invece i primi, ritenuti “bizzarri e
presuntuosi”, a causa del loro interesse
per gli studi esoterici e delle civiltà antiche.
In
questo caso si trattava di un nomignolo affibbiato alla corrente
considerata “evoliana” all’interno del
Raggrupamento giovanile, ma che raccoglieva non solo seguaci di Julius Evola,
bensì giovani gentiliani (come Carlo Amedeo Gamba), tradizionalisti
scaligeriani (come Enzo Erra, seguace di Massimo Scaligero) e tradizionalisti
cattolici (come Fausto Belfiori, Gianfranceschi ed il sottoscritto).
Sarà
proprio Enzo Erra – anni dopo – a spiegare, al riguardo:
“Non era necessario essere evoliani in senso
stretto o – come si cominciò a dire, prendendo per buono un motto derisorio
degli avversari - figli del sole per
sentirsi parte di un mondo opposto ad un altro, portatori di una concezione
spirituale e morale in aperto contrasto
con il materialismo e l’edonismo che trionfavano ovunque, dopo la vittoria
congiunta delle potenze democratiche dell’ovest e comuniste dell’est.
Coincidevano con questa scelta di campo ideale e civile, altri impulsi che
ricadevano nella stessa direzione, pur venendo da fonti diverse, alcune delle
quali in fiero contrasto con il nocciolo delle teorie evoliane, e con la
struttura piú generale del suo sistema”.
Più
avanti, Erra precisa: “Il richiamo alla
tradizione, ad esempio, risuonava con
forza in ambienti monarchici e
legittimisti (riferiti però, a dinastie diverse); i quali per più motivi
storico-istituzionali erano in dissenso con quanti direttamente si riferivano
alla Rsi, e influiva anche in settori cattolici più legati all’ortodossia e
meno esposti alle tentazioni moderniste”.
Erra aggiunge, infine, che
l’ispirazione spiritualista del “figli del sole” interessava altresì “pensatori
e gruppi idealistici gentiliani e
persino hegeliani, che erano in rotta di collisione con Evola, sul diverso
piano del dibattito filosofico”.
Ma qual era l’origine del
nomignolo “figli del sole”?
Discutendo su possibili risoluzioni del problema sociale
–argomento di scottanti discussioni all’interno del Msi - sembra che Evola, di buon umore, avesse
commentato ai giovani della redazione di “Imperium”,
che una soluzione buona poteva essere quella dei guerrieri sciti.
Ed aveva
raccontato loro questa storia: “I guerrieri sciti, rimasti per 28 anni
lontani dalla loro terra natía per aver
tenuto l’impero dell’Asia Minore, desiderarono rientrare in patria, trovandola
occupata da una schiatta di schiavi usurpatori. I quali furono vinti non da
armi classiche (spade, lance, frecce), ma solo dall’uso della frusta. Infatti
quando i guerrieri sciti, considerati “figli del sole”, schioccarono le loro
fruste sugli schiavi nemici, costoro chinarono la schiena, arrendendosi”.
La storiella raccolta dall’ambiente giovanile tradizionlista, era sciorinata polemicamente come una
soluzione della “questione sociale”; e faceva andare in bestia i giovani contraddittori social-progressisti.
In
occasione del Congresso dell’Aquila, la direzione del Raggruppamento Giovanile
- ormai saldamente in mano alla corrente giovanile di Enzo Erra - emana due
ordini del giorno.
Nel
primo, il “carattere rivoluzionario” del
Msi é visto come il presupposto
essenziale per poter svolgere, in sede tattica, “la politica che le
contingenze renderanno, di volta in volta, necessaria”.
Dichiarazione questa che si differenzia sostanzialmente da
coloro che all’interno del Movimento contestano l’alleanza elettorale del Msi con i monarchici - alleanza sostenuta dalla segreteria di
Augusto De Marsanich - e che aveva permesso il grande risultato nelle elezioni
amministrative nel Mezzogiorno d’Italia, dove la coalizione missino-monarchica
aveva conquistato i municipi di Napoli, Salerno, Benevento, Bari, Foggia e
numerosi centri minori.
Quel
documento giovanile inoltre “rifiuta
nella maniera piú decisa la
concezione e la prassi di una ”dialettica interna di partito impostata in
termini di destra e di sinistra”.
Affermazione,
anche questa, che punta a delegittimare coloro che criticavano la politica di
De Marsanich, considerata compromissoria, perché protesa all’espansione verso
altri ambienti di destra.
I
giovani “figli del sole” inoltre rigettano la distinzione tra progressisti e
conservatori, perché considerano che la radice fascista é alternativa ad ogni
dottrina egualitaria, sia essa liberale o comunista. Si sostiene, quindi che l ’originalitá di
tale radice consente, a chi se ne senta erede, di avventurarsi nelle manovre politiche piú
spregiudicate, senza rinunciare alla meta rivoluzionaria finale.
La
strategia di Enzo Erra, cerca di coniugare – come si vede - una politica
pragmatista delle alleanze con l’intransigenza dottrinale di fondo, perché egli
– come teorizzerá poi nei suoi libri – ritiene che il fascismo sia stato
pensiero ed azione, per cui la politica in concreto é “intervento”: pensiero tradotto in azione,
o non é.
In base
a questo pensiero si spiega – a mio avviso – la decisione di diversificarsi dagli altri due schieramenti: uno guidato
da De Marsanich, Michelini, e Almirante
(mozione di centro: “Per l’unità del Movimento”) e l’altro da Massi (mozione di sinistra: “Per una
Repubblica sociale”), presentando una lista
della corrente dei “figli del sole”, al IV° congresso del partito che si
svolgerá per mozioni contrapposte a Viareggio dal 9 all’11 gennaio del 1954.
La
mozione dei giovani - inizialmente denominata “Estrema Destra”, titolo obiettato da Pino Rauti, che rifiutava
questa etichetta – restò identificata dal sottotitolo “Per una grande Italia, per una nuova Europa” .
La lista
presentata da questa mozione, venne capeggiata da Pino Romualdi, seguito da
Ernesto De Marzio - personaggio sempre sensibile verso i “figli del sole”,
soprattutto quelli d’ispirazione cattolica – e dal suo amico sardo Giovanni
Maria Angioy. Cosicchè Enzo Erra dovette accontentarsi d’essere il quarto
capolista.
Antonio
Carioti, nel suo libro dedicato ai
“Ragazzi della Fiamma” (I giovani neofascisti e il progetto della
grande destra. 1952-1956), afferma che il documento congressuale dei “figli
del sole” rivelava – parole sue –“una ferrea ispirazione antidemocratica” ed
esaltava uno Stato fondato sul puro principio d’autorità e gerarchia, dove il
principio di libertà individuale era concepita in funzione del bene comune
Ma, con
tutto il rispetto che si merita Carioti, la sua mi sembra una lettura piuttosto
affrettata e superficiale.
Esaminate
in profondità, le idee espresse in
quella mozione – alla quale aveva dato un sostanziale contributo Carlo
Costamagna, che si candidava anch’egli accanto ai “·figli del sole” –
richiamavano due fondamentali principi dottrinali: uno tratto da Giambattista
Vico e l’altro dalla scuola organicistica
di Vienna rappresentata da Otmar Spann e Walter Heinrich; i quali negli
Anni Trenta avevano collaborato alla rivista “Lo Stato” diretta da
Costamagna.
Il
principio vichiano era: la società (e quindi lo Stato, quale comunità
organizzata) non sorge da un contratto, come sostiene Rousseu, padre nobile
della democrazia moderna nutrita di cultura illuminista. La società, e quindi
lo Stato – secondo Vico - si costituisce per “diritto naturale eterno che
scorre nel tempo”, e i suoi
elementi essenziali sono: “la famiglia, la giustizia, la religione”.
La
mozione dei “figli del sole” - in analogia trasparente con il principio
vichiano - afferma: “La sovranità non
proviene allo Stato da un’investitura dal basso, ma è attributo originario,
connaturato ai fini ch’esso deve attuare”.
A sua volta la scuola organicistica viennese sosteneva che
l’appartenenza alla comunità civile e nazionale, non sgorga da un contratto, nè
da una volontà astratta, ma dalla natura costitutiva dell’uomo, per cui essa
proponeva una riedificazione dello Stato moderno dal profondo e dall’alto.
Questa posizione dottrinale emergeva nella mozione dei
“figli del sole” laddove essa affermava: “In
uno Stato così concepito, la rappresentanza sarà rappresentanza di virtù, di
competenze, d’interessi e sarà rappresentanza non di popolo, ma delle
associazioni politiche, morali, culturali e professionali nelle quali il popolo
acquista concretezza di esistenza ed
evidenza di lineamenti. Questa rappresentanza non si arrogherà il diritto di
definire l’interesse generale, che non
può risultare nè dalla somma d’interessi particolari, nè dal compromesso fra
essi; ma darà allo Stato gli elementi di valutazione politici ed economici e
provvederà alle funzioni regolamentari ad essa dallo Stato devolute”.
Appare assai significativo
notare – in questa rilettura –
l’uso del plurale nelle “associazioni politiche”, che di fatto esclude
la relegazione della rappresentanza in un partito unico.
In questo modo, la mozione giovanile con una formula
originale si apriva al pluralismo politico
senza aderire al pluralismo partitocratico.
Originale altresì la conclusione del documento, dove si
legge:”Il Msi, per i principi che proclama, per l’eredità che rivendica, deve assumersi la tutela degli interessi
della collettività minacciata dallo scatenarsi di contrastanti egoismi che
stanno consumando il tessuto connettivo della società nazionale. Oggi che le
pretese appoggiate dalla forza del
denaro o dalla forza del numero, prendono il nome di diritti e trovano il
sollecito patrocinio dei partiti politici, il Msi per dare espressione politica
alle preoccupazioni di milioni d’italiani, deve qualificarsi come il partito
del dovere nazionale”.
I “figli del sole” sono stati considerati dei
“neofascisti” radicali, ma mi sembra chiaro che il loro neofascismo
dottrinalmente era già qualcosa di diverso da quello pigramente nostalgico,
esibito da altre componenti del Movimento Sociale.
La loro intransigenza nasceva da una motivata ostilità
verso il fascismo burocratico del Partito nazionale fascista, nella
consapevolezza che l’antifascismo vigente ripeteva gli aspetti spurii e
negativi del fascismo-regime: conformismo politico, carrierismo, ipocrisia.
Consapevolezza sintetizzata da Giuseppe Prezzolini nella
graffiante definizione dell’antifascismo quale: “’incancrimento degenerativo del fascismo” e che induceva Giacomo
Noventa a precisare: “L’antifascismo è
una setta interna al fascismo”.
Allora - anch’io
“figlio del sole” - mi sentivo, come i miei camerati, un rivoluzionario:
neofita, però, di una rivoluzione intesa
come l’intendeva, a suo tempo, Berto Ricci su Il Selvaggio del 15 dicembre 1926: “Successione di aristocrazie
e ringiovimento della nazione”. E mi sentivo eretico, come lo era stato
Berto: eretico e protestario verso il
fascismo storico, per aver impedito l’avvento di un fascismo puro.
La corrente giovanile riusciva a Viareggio, giusto
giusto, a raggiungere il quorum minimo
di 120 voti e portava in Comitato Centrale – oltre a Romualdi, De Marzio,
Giovanni M.Angioy, Costamagna - una agguerrita
pattuglia di 15 giovani: Enzo Erra, Fabio De Felice, Cesare Pozzo, Angelo
Nicosia, Carlo Casalena, Pino Rauti, Franco Petronio, Carlamedeo Gamba, Silvio
Vitale, Enrico De Boccard, Primo Siena, Giorgio Ciarrocca, Giano Accame, Vito
Cusimano.
Però lo stesso congresso, votava a maggioranza la perdita
dell’autonomia del Raggruppamento giovanile, con la soppressione delle elezione
dal basso dei suoi organi direttivi centrali e periferici; e stabiliva un controllo del partito su tutta
l’organizzazione giovanile.
Tomaso Staiti di Cuddia, anni dopo, commenterà amaramente:
“L’autonomia dei giovani creava nel Msi
una gran confusione, ma era un segno di vitalità. Purtroppo i partiti,
maledetti loro, vogliono sempre controllare tutto”.
Perduta l’autonomia del Raggruppamento giovanile, inizierà
una frantumazione lenta che si
concluderà con la diaspora politica dei “figli del sole”; essa culminerà dopo
il Vº Congresso nazionale del Movimento
(Milano, dicembre 1956) e che porterà Arturo Michelini alla segreteria del Msi
(riconfermato, successivamente fino al suo decesso: 15 giugno del 1969).
Infatti, l’esito del congresso di Milano induce Pino
Rauti, con i suoi seguaci a lasciare il Msi, per costituire il “Centro di studi
politici Ordine Nuovo”. Successivamente se ne andranno per diversi motivi:
Giano Accame, Cesare Pozzo, Fabio De Felice.
La sinistra interna viene a sua volta indebolita con
l’uscita di Ernesto Massi, Manlio Sargenti, Franesco Palamenghi-Crispi Giorgio
Pisanò, Mirko Tremaglia.
L’eredità dei “figli
del sole” sarà raccolta in parte dalla Associazione Studentesca “Giovane
Italia”, guidata negli anni Cinquanta da Fausto Gianfranceschi e
successivamente da Massimo Anderson e Pietro
Cerullo, fino alla sua fusione
nel 1970 con il sopravissuto Raggruppamento
giovanile, per dar vita ad una
formazione unica: “Il Fronte della Gioventù”.
L’Associazione studentesca diverrà una fucina d’iniziative
culturali ed attivistiche che mettetrà in luce
molti giovani di valore, tra i quali, spiccheranno: i fratelli Adalberto
e Romolo Baldoni, Giuseppe Tricoli, Mario Marcolla, Gianfranco Legitimo,
Pinuccio Tatarella; il quale – intervistato negli Anni Novanta da Adalberto
Baldoni – dirà:
“La Giovane Italia
fu una doppia contestazione al sistema dei partiti già imperante e alla
incapacità dei responsabili del mondo scolastico di risolvere i problemi della gioventù. Fu un contenitore
arioso di proposte, di riscoperte e di contestazioni. Fu una fucina
straordinaria di vivaci ed anarchiche intelligenze, con una coralità d’impegno
e di tensione non più riscontrabili nei
successivi movimenti giovanili”.
5.-La
cultura come impegno politico.
S’ è imposto come luogo comune, divulgato soprattutto
dagli avversari, che la cultura sarebbe stata
la grande assente nel Msi e dintorni.
È una tesi che non ho mai accettato. Attorno al Msi -ed all’area detta di “destra” che lo ha
contornato- vi è stata sempre una
“visibilità della cultura” anche se mediante
un approccio “eterodosso”. Basta guardare alla proliferazione di giornali,
riviste e pubblicazioni varie, collegate direttamente o indirettamente, con la
varie correnti politiche esistenti all’interno del Msi.
Voglio
ricordare qui solo alcuni titoli e
testate di queste pubblicazioni
-(l’economia del tempo, non permette altro in questa sede) – che
dimostrano invece la vivacità e la consistenza di temi culturali che
circolavano all’interno ed attorno al movimento della Fiamma Tricolore:
Il
Pensiero Italiano (rivista mensile, patrocinata da Costantino Patrizi come
editore) e la Casa Editrice L’Arnia: presenti
tra il 1947 ed il 1953; Nazione Sociale, che
faceva capo ad Ernesto Massi; I settimanali: Rivolta Ideale, Asso di Bastoni, Meridiano d’Italia; Il Nazionale di Ezio M. Gray, Rosso e Nero di Alberto Giovannini; I Vespri d’Italia di Alfredo Cucco; Il Picchio Verde a Catania di Orazio Santagati.
I giornali
quotidiani: L’Ordine Sociale, quindi
Il Secolo d’ Italia e Il Popolo Italiano; i rotocalchi Domani, Barbarossa, Cronaca Italiana; la
rivista mensile Occidente di Ernesto
De Marzio; la rivista internazionale Europa
Nazione di Filippo Anfuso e le riviste Nazionalismo Sociale di
Edmondo Cione a Napoli,
Rivista Romana di Vanni
Teodorani e l’Italiano di Pino Romualdi
a Roma.
La
stampa giovanile: Vent’anni, a
Milano; La sfida e poi Imperium a Roma; Cantiere a Verona; Repubblica
Sociale di Delfino e Belfiori a Roma;
La Sberla Michele Di Bella a
Venezia, Risveglio Nazionale di
Cesare Pozzo e Gaetano Rasi a Padova, Il
Reazionario di Piero Buscaroli a Bologna; Architrave e L’Assalto a
Roma; Riscossa a Salerno, La Fiamma di Silvio Vitale, a Napoli.
Le due correnti dottrinali che prevalevano nel Msi si ispiravano a due
maestri del pensiero: Giovanni Gentile e Julius Evola.
Giovanni
Gentile – come ha osservato un intellettuale cattolico di sinistra quale Giovanni Tassani – possedeva tutte le
caratteristiche per “esercitare culturalmente un ruolo baricentrico” tra le
spinte contrapposte entro il Msi: il risorgimentalismo mazziniano del “pensiero
ed azione” che si sposava infine con una dimensione neo-cattolica per
soddisfare tanto la tematica dei corporativisti alla De Marsanich, come quella
dei “socializzatori” alla Massi.
Un
gentilianesimo militante era quello della rivista “Studi Gentiliani, per un
Umanesimo del Lavoro” diretta a Pisa da Vittorio Vettori; il quale
organizzerà nel 1955, in
Santa Croce a Firenze, il primo grande convegno di “Studi gentiliani” del
dopoguerra con l’adesione di notevoli cultori del pensiero filosofico del tempo
(Bontadini, Sciacca, Stefanini, Diano, Cione, Spirito, Guzzo, Marino Gentile) e
lo scultore Francesco Messina.
Secondo
Tassani “Di spirito costruttivista
gentiliano appare colma – altresì – la
rivista Cantiere” (promossa dal sottoscritto, con la condirezione di Carlo
Casalena e Carlo Amedeo Gamba, dal 1950 al 1953), ma con un impegno culturale
che si sforza d’innestare nel proprio arco ideologico la componente evoliana
dell’ ideale eroico, per “cauterizzare – osserva ancora Tassani –le tentazioni
viste come demagogiche e parolaie della sinistra socializzatrice missina”.
Cantiere publica (marzo-aprile 1951) una “Carta della gioventù”
stesa da Evola su un canovaccio preparato dal sottoscritto. Questa “Carta” sarà
recepita poi – con adeguamenti adattabili ad un orientamento accentuatamente
cattolicizzante – quale documento fondamentale dalla “Giovane Italia”.
Come
chioserá posteriormente Marcello Veneziani, Evola ha insegnato alla gioventù di
destra a leggere il fascismo in chiave critica, per scongelare il neofascismo
dall’ibernazione nostalgica”.
Attraverso
i suoi “gruppi di studio”(26 agosto 1951) Cantiere
cercherà addirittura una convergenza tra il transidealismo eroico di Evola e l’idealismo attualista di Gentile,
per attingere al contributo d entrambi.
A Cantiere pubblicato con periodicità
irregolare, subentra Carattere
(1955-1963) che accentua una ispirazioine cattolico-ghibellina che trasferisce
lo spirito di una cultura militante, ad una Romanitas
“onde Cristo è romano”.
Tutto
ciò dimostra che nel Msi, anche nei primi tempi difficili, si alternava il
pensiero all’azione.
6.- Contro
il formalismo nostalgico, per una progettualità
il futura.
Fin dai suoi albori, la gioventù soprattutto – a mio
avviso - si caratterizzò per la denuncia di falsi unanimismi all’interno del
Msi, per il superamento di un nostalgismo formalista e sterile, per una azione
politica fondata su solide analisi delle realtà circostanziali, mirando ad un
progetto di civiltà orientata da una nuova visione della società.
Nell’antifascismo
settario dell’Italia nata dalla Resistenza essa individuò un altro nostalgismo:
quello per il modello debole di una società liberaldemocratica;
nostalgismo speculare a quello di un
neofascismo ridotto a ritualismo
folkloristico, carente di progettualità futura.
La
consegna lanciata da Augusto De Marsanich – Non
rinnegare. Non restaurare - fu raccolta, superando la cronologia
storica dei tempi recenti, per radicarla in una revisione politico-dottrinale
risalente all’intera storia italiana nell’ambito della civiltà europea.
E la storia della Rsi, in tale prospettiva,
veniva considerata come l’eresia libertaria del regime fascista del ventennio;
da essa sgorgava il progetto di civiltà alternativa al marxismo ed al
capitalismo selvaggio, la spinta a ribellarsi al conformismo di una società
molle, socialmente ingiusta e crudele, prona all’’idolo di fango” del
materialismo.
Furono i
giovani del Msi, peculiarmente i “i
figli del sole”, che già nei primordi
della vita di partito, osarono parlare – talora persino in modo provocatorio –
di destra e di estrema destra nel senso classico di una destra dello spirito, di una destra politica, aristocratica nel
senso del merito e non del sangue. Una destra rispettosa del capitale quale
frutto del lavoro; e perciò antitetica al capitalismo rapace e speculatore,
ugualmente sovversivo come la sinistra
marxista.
Considerata
la dittatura mussoliniana come un capitolo biografico chiuso, irrepetibile
nella storia italiana, la gioventù del Msi ha propugnato – contro la democrazia
cifrata, eredità nefasta della cultura illuminista –una democrazia olistica ed
organica, direttamente funzionale al valore preminente delle libertà concrete,
quale conquista spirituale della persona nell’ambito della società politica.
Denunciò
l’espansione di uno statalismo burocratico come una degenerazione dello Stato,
del quale ha sempre rivendicato la dignità e l’essenza. Proclamò il riscatto
della Nazione Italiana, umiliata dal Trattato di Pace del 1947, reclamandone
l’unità di destino, nel quadro di una rinascita dell’Europa dei Popoli.
Tutta
una tematica, come si vede, che scaturiva da una costante elaborazione dottrinale, sorretta da vigile
attenzione per l’evoluzione della realtá sociopolitica nazionale ed
internazionale.
Da qui,
la sollecitazione di uno spirito critico capace di suggerire risoluzioni
adeguate ai tempi, secondo un concreto progetto di civiltà: simbiosi di libertà
e autorità, di tradizione e sviluppo, concerto d’elites e convocazione di
popolo, dove la responsabilità di vertice è sempre sorretta da un libero consenso
di base.
Progetto,
questo, che conteneva in sè – e tuttavia
contiene - tutta la modernità
possibile, collocandola però in un contesto
di critica radicale alle contraddizioni
e debolezze della realtà
contemporanea. Progetto che al tempo stesso tracciava la via per transitare in
una postmodernità tuttora incerta e confusa, senza naufragare nel deserto delle
idee e degli ideali.
Questo
fu il sogno perseguito dal Movimento Sociale Italiano – nonostante debolezze ed
errori, incertezze e talora contraddizioni,
presenti nella natura umana dei suoi protagonisti: dirigenti e militanti. Un
sogno che fu, ad un tempo, una necessità
politica.
Siamo
dunque orgogliosi delle nostre radici, della nostra milizia politica necessaria
– come riconobbe (1983) un avversario bilioso come l’ex fasciata partigiano
Giorgio Bocca, dinnazi alla settaria ipocrisia degli avversari “che divideva gli italiani fra la grande maggioranza dei buoni democratici e la cattiva minoranza dei missini”,
per ammettere subito dopo, a denti stretti: “Dunque, politicamente, si può tranquillamente ammettere che il Msi
doveva nascere e che ha svolto una funzione utile di vaso di raccolta del
popolo della destra”.
Il Movimento Sociale Italiano fu necessario, anche e
soprattutto perché - e non sembri un paradosso – fu “una forza di libertà”.
Così lo
riconobbe il politologo Gianni Baget Bozzo su Panorama del 2 aprile 2009:
“Il Msi
conservò il senso della nazione Italia e della patria quando gli schemi della
guerra fredda imponevano la divisione tra Occidente ed Unione Sovietica. Svolse
così un compito importante e per questo fu discriminato e combattuto. Ma
contribuì a mantenere il fondamento
dell’unità culturale del Paese. Fu un elemento di differenza e quindi, appunto,
perchè emarginato e perseguitato, una forza obiettivamente di libertà.[…]
L’egemonia comunista della cultura italiana trovò una resistenza nella cultura
di destra e nell’identità politica del partito della fiamma”.
Durante un cinquantennio il Msi cercò di lanciare un ponte
dove far transitare quanto restava di
riscattabile del passato per inverarlo in un progetto nuovo di società libera, germinata da un seme
antico.
Quel
progetto resta tuttavia vigente
nell’attesa che - prima o poi - venga
raccolto dalle nuove generazioni, con la stessa passione con la quale abbiamo
vissuto una avventura umana nutrita di principi alti e di valori forti,
testimoniando fedeltà - in un mondo ossessionato dal tornaconto e dall’utilità
materiale - agli ideali dell’Italia perenne.
Primo Siena
A.CARIOTI, Gli orfani di Salò. Il “sessantotto nero” dei giovani neofascisti nel
dopoguerra 1945-1951. Mursia, Milano 2008, p.181.
Cfr. Al riguardo, si rimanda a: ELISABETTA CASSINA WOLF, L’inchiostro dei vinti - stampa e ideologia
neofascista-1945-1953. Mursia, Milano 1912. Specialmente si veda il cap.
ottavo: “Alcune considerazioni sulle diverse correnti ideologiche del
neofascismo italiano” (p.268-322).
Cfr. ENZO ERRA, Tradizione e Intervento. Saggio
riportato con altri nel “corollario” annesso a: JULIUS EVOLA, Orientamenti. Undici punti. Edizioni di
Ar, Salerno 2000. Pp. 76-77.
La storia dei guerrieri Sciti,
tratta da Erodoto (libro di Melpomene) per bocca di Gabriele D’Annunzio, sará
quindi raccontata da Percivalle Doria
(pseudonimo di Giano Accame) sul n. 5 (ottobre 1954) del periodico Il Reazionario diretto da Piero
Buscaroli a Bologna.
Cfr. A. BALDONI, La destra in Italia: 1945-1969. Ed.
Pantheon, Roma 1999., p. 442.
G: TASSANI, Le culture della destra italiana tra dopoguerra e centrosinistra nella
rivista Nuova Storia Contemporanea. Marzo-Aprile
2003¡. Ed. Le Lettere, Firenze., p.136.
M. VENEZIANI, La rivoluzione conservatrice in Italia.
Sugarco Ed., Milano 1987, 210.
G. TASSANI, Op.cit p. 143.