Quello che è successo al pensiero
del XX secolo è mostruoso, a tratti quasi irreferibile.
La dissoluzione e la decadenza si
sono impossessate anche della filosofia, contaminandola scientemente con il
fine di bacare la mente del mondo, di avvelenare i pozzi a cui la politica e la
civiltà devono abbeverarsi. Il risultato, ahimè, è sotto gli occhi di tutti.
Come questo sia avvenuto è davvero
difficile da illustrare. Più che un saggio di filosofia, serve un espediente
estetico, serve il potere chiarificatore della fiction. Perché le tenebre sono talmente fitte che solo con gli
inventi del poeta si può tentare di trovare un senso generale alla catastrofe
continuata.
È per questo che chiunque voglia
farsi un’idea a quel che è successo alla Cultura italiana del Novecento dal
dopoguerra ad oggi dovrebbe passare per la lettura dell’agile romanzo breve
orora pubblicato da Solfanelli Un treno
nella notte filosofante, di Edoardo Allori, pseudonimo del più grande
filosofo cattolico vivente. Un breve racconto che ambienta in colori kafkiani
densissime conversazione filosofiche.
Perché la forma narrativa atta a
descrivere la disintegrazione socioculturale che viviamo - e che, ci dice il
protagonista, è partita da lontano, almeno dal Seicento - assomiglia molto a
certi incubi: insensati, paurosi, teatri della nostra impotenza. Viene da
pensare all’incipit di un grande, enigmatico film di Ingmar Bergman, Il Silenzio. Un viaggio in treno per un
paese sconosciuto, lo spettacolo assurdo della realtà che muta fuori dai
finestrini. Città, pioggia, file di carroarmati...
Anche nel libro c’è un treno da
prendere, un treno che però non ci porta più a destinazione... il treno viene
bloccato a metà del percorso, e dobbiamo smontare perché giovani facinorosi
urlano all’emergenza, e ci spingono per indottrinarci a teorie folli e omicide,
nel trionfo della decomposizione delle idee, nel sincretismo dello sfascio
totale.
La metafora ferroviario-filosofica è
puntuale e calzante come poco altro.
La cultura odierna è oramai un
mortifero spettacolo bifronte: dal palco, ci narcotizza con idee blasfeme ed
assassine. Nel retropalco - e questo è uno dei punti salienti del racconto - vi
sono editori che, tra filosofi ed intellettualoidi adoranti, compiono cerimonie
di sacrificio umano nel nome dei demòni, sgozzando i loro stessi poveri adepti.
Capiamo quindi che quelli che stiamo
vivendo non sono tempi comuni. Il creatore ci ha immessi in un’epoca dove
l’umanità desidera estinguere se stessa, e questo è un mistero che va
affrontato.
Metabolizzare tutto questo è quasi
impossibile, se non si ha la Fede. La Fede che scaccia l’incubo, e riporta
sulle cose il chiarore salvifico del Logos.
La Fede che ci porta alla
destinazione finale, il Cielo.
Al di là del tremendo messaggio
filosofico, il libro va letto come stupendo memoriale di un secolo di vita
culturale italica. In ispecie per chiunque si interessi di Cultura di destra,
vi troverà gustosi e illuminanti racconti di sessanta anni di storia filosofica
ed umana. Nelle memorie del protagonista quando si parla del “bunker”, si fa
riferimento all’oramai lontanissimo nella memoria Movimento Sociale Italiano.
Sono irresistibili le pagine in cui
si tratta del «Barone nero, il viaggiatore dadaista la cui audacia ha superato
l’idealismo». «Il barone seguiva un ideale guerriero, Guénon pensava (cito a
memoria) che la realizzazione consistesse in un perfetto equilibrio tra gli
aspetti maschile e femminile, attivo e passivo, tra lo yang e lo yin. Sosteneva
che non per nulla lo stato primordiale è simboleggiato dall’androgino. Il
barone, nonostante tutto, era contrario alla transessualità. E questo spiega
perché la potente editoria iniziatica, ella certamente capisce a quale genere
di iniziazione alludo, ha imposto Guénon sul mercato librario ma ha ostacolato
la diffusione delle opere del barone». L’analisi della fallacia del pensiero di
questo barone è spietata soprattutto con il suo maestro: «Guénon parla di
principio illimitato, e per illimitato intende incondizionato dalle determinazioni
primordiali, come essenza, sostanza, essere. Nel principio superiore, Guénon,
contempla ciò che si oppone all’essere. Il divino, nella sua opera, coincide
perfettamente con Shiva, il potere della distruzione, la fomite dell’antivita».
Il lettore avrà capito che il
«Barone nero» è in realtà barone Giulio
Cesare Andrea Evola, detto Julius per meriti letterari. il protagonista ricorda
di quando da giovane viene ammesso, con una torma di amici entusiasti che
piombano a Roma senza dormire per l’eccitazione, al cospetto del barone, che li
accoglie nel suo attico umbertino con una impietrita marzialità che riesce ad
emanare perfino in sedia a rotelle: «Un mito romano. Alle pareti corde,
piccozze e lo stemma del club alpino. Quadri futuristi e dadaisti. La
governante ci precedette attraverso una sala ingombrata da scaffali carichi di
libri e di polvere (...) Sulla vecchia scrivania quaderni, riviste, e la
Reminghton a doppia tastiera, prezioso pezzo di modernariato (...) Due
savonarole scomodissime, un’insidiosa poltrona da sonno. Si capiva che la
camera era luogo di sedute filosofanti. Alle pareti ritratti di una donna in
varie posizioni (...) Una tradizionalista brasiliana dotata di magici poteri.
Il nostro amico romano ci aveva avvisato: il maestro usava quella poltrona per
mettere i suoi ospiti incauti alla prova del sonno. Sedemmo. Seguì un silenzio
duro e spietato. Michele, sulla poltrona, incominciò a soffrire. Il lieve
strabismo del barone ci irretiva. Quando fu servita una bevanda al tamarindo il
barone incominciò a deplorare l’alto prezzo della carne e a suggerire
improbabili picchetti reazionari davanti alle macellerie (...) Dopo che dalla
funivia del Monte Rosa un evolomane troppo serioso fece getto delle ceneri del
barone, si seppe che egli apparteneva all’esercito dei morti di fame e che la
padrona di casa, una matura gentildonna appassionata di tantrismo teorico,
ometteva di riscuotere l’affitto». E via così con altre indomabili invettive
autobiografiche.
La scrittura è elegante e
lucidissima tanto che tutto il libello può essere letto in filigrana come una
raccolta di aforismi fulminanti.
Sono sante parole quelle sul gobbo
di Recanati: «La sua poesia esprime magnificamente l’odio gnostico contro la
vita (...) Una buona scuola dovrebbe educare la gioventù al disprezzo verso
Leopardi».
Sono precise, e attualissime, quelle
sulla civiltà germanica: «Secondo me il tono fondamentale della cultura tedesca
è il sacro lutto. E l’Eros greco è soltanto una maschera funeraria (...) Io
ritengo che l’opposizione tedesca alla romanità sia una figura della guerra
alla vita. Il mondo romano si esprime attraverso la solarità di San Tommaso e
di Giotto. L’universo
germanico ha partorito i pensieri
notturni di Lutero, Böhme, Hölderlin».
I tedeschi vivono una catastrofe
storica e meta-storica che ha infettato il mondo intero: per i germanici la guerra, purtroppo, fu «perduta
dall'esercito, non dal cattivo genio della Germania. Il loro stemma è la morte:
faranno cadere tutte le illusioni illuministiche. Nel 1934 il vescovo di
Colonia ha fatto pubblicare un libro nero, che documenta, con rigore, che le
fonti della filosofia
nazista si trovano nella gnosi
massonica e nella teosofia dell’India. Le parole di san Gregorio Magno sono
sempre attuali: Gog iste Gothus est quem
iam videmus exisse de quo promittitur nobis victoria. La guerra riprenderà
dopo la fine della Germania nazista. Hitler sta facendo bruciare la parte
migliore della gioventù tedesca nella fornace. Quando questa Germania sarà
consumata si faranno avanti gli intellettuali, i senza principi, i figli
dell’ignavia, quelli che il pesante gergo delle caserme definisce vaselina. La
Germania diventerà la capitale della perversione. Sono loro i futuri interpreti
del demone giovane di cui ho parlato. Quel giorno la lotta sarà disperata,
perché tutti crederanno nella fine del male». Parole profetiche. La scuola di
Francoforte, Daniel Cohn-Benedict, Angela Merkel sono il frutto inferiore di
milioni di buoni tedeschi sacrificati al nulla. Un frutto che nessuno dovrebbe
assaggiare, ma che viene distribuito all’Europa tramite Bruxelles e dai
supermercati della grande distribuzione culturale. Buffa eterogenesi dei fini:
come da sogno hitleriano, comanda sempre la Germania, ma è una Germania di una
razza infima.
L’autore lancia generoso miriadi di
altre fulminazioni. Marcione,
Heidegger, Frank, Spinoza, Buber, Simone Weil, Benjamin, Scholem, Taubes,
Mircea Eliade, Chatwin, Bakunin, Wagner, Bataille. E poi ancora: Wilhelm
Reich, Pol-pot, Ernest Jünger...
I più svergognati sono i nostri
coevi conterranei, ammantati con nomi di fantasia
Possiamo dare al lettore dei
ragguagli: Chiappallarghi potrebbe essere un cattedratico del gruppo De
Benedetti condannato per plagio. Il professor Zulo, con probabilità così
chiamato per meriti deretanici, è un celebrato estorista. Alain Depastera è un
neodestro neopagano. Elio Vaselinas è un articolista di un giornale
berlusconianp. Idro Lapo Ceneretti è un autore adephiano homeless-chic.
C’è anche la politica. C’è, ad
esempio, Walter Meltroni. C’è il “costruttore d’Affori”, che è Silvio
Berlusconi. Mario Collinari (stramba ma densa condensazione anche di
Colli-Montinari...), «l’economista ineconomico», «l’arnese di Giorgio Salernitano» è con
grande probabilità l’orrido ex-premier imposto a questo paese da quello che il
libro chiama «culocrazia».
Rosati è il famoso editore di libri
a tinte pastello da cui trasudano voglie di cerimonie assassine, che - pare
suggerirci il libro - queste liturgie di sangue le vive in prima persona.
Una menzione speciale va dedicata
alle pagine in cui si rievocano - tra la tragedia e la poesia esistenziale più
sublime - anni pubescenti sconvolti dal sangue delle vendette partigiane. Il
prete di cui si narra è Monsignor
Boldrini, intrepido direttore di Renovatio.
Allori è un uomo che non ha avuto
paura di guardare negli occhi l’abisso di un secolo intero. Un uomo che,
nell’annichilente sconquasso di cui è stato testimone, una certezza ce l’ha:
«Io sono convinto che non riusciranno ad affondare la barca di Pietro. La Chiesa
non va a fondo, neanche se i marinai fanno buchi nella chiglia (...) Il
cardinale Ercole Consalvi ricordò a Napoleone che i preti ci provano da duemila
anni ad affondare la barca di Pietro».
Come non cogliere: se a distruggere
il Soglio non ci sono riusciti in due millenni i preti che ci stanno dentro,
come posso riuscirci la tribù di intellettualoidi pagani che abbiamo innanzi
negli ultimi cinquanta anni? Non c’è nemmeno bisogno della filosofia per
capirlo: non prevalebunt.
Roberto Dal Bosco