Hanno
destato stupore recenti dichiarazioni di mons. Guido Pozzo, segretario della
Pontificia Commissione Ecclesia Dei, a proposito della celebrazione della Messa
di rito romano antico. In una lettera del 7 aprile 2014 al superiore generale
dell’Istituto del Buon Pastore, mons. Pozzo ha ribadito che l’Ordo Vetus non è
mai stato abolito dalla Chiesa “perché la Chiesa non abolisce una forma liturgica
in quanto tale”. Tuttavia, poiché “l’autorità della Chiesa limita o restringe
l’uso dei testi liturgici”, cosa che si è “verificata negli anni del
dopo-Concilio”, tutti devono obbedire se l’autorità applica tali misure restrittive
anche all’Ordo Vetus, non permettendo di fatto che esso venga celebrato in
certi tempi e/o da alcuni soggetti, nonostante la mancata sua abrogazione.
Non
ci sono finora state, a quanto risulta, proibizioni ufficiali pubbliche,
formali di celebrare l’Ordo Vetus, ma vige e “si ripete fortemente il
consiglio”, privato e non, di celebrare (anche) il Novus Ordo a quei pochi che
hanno avuto l’autorizzazione a celebrare l’Ordo Vetus e di tener presente che
“bisogna mettere in rilievo l’intima convergenza delle due forme” del rito[1].
Dichiaro subito di concordare con coloro che
sostengono non esser la tesi di mons. Pozzo accettabile. Il che
significa: nessun fedele è tenuto ad obbedire al divieto di celebrare (se
sacerdote) la Messa di rito romano antico o di attendervi, se laico.
1. Perché
il Papa dovrebbe proibire la celebrazione di una Messa che esiste da venti
secoli e non è mai stata abrogata? Lo si spiega mai, entrando nel merito della
questione? Il punto essenziale della questione mi sembra essere proprio
questo: perché il Papa, pur senza averla abrogata, dovrebbe proibire
(“restringere”) la celebrazione della Messa di rito romano antico (Ordo Vetus)?
Una Messa il cui Canone risale per costante e consolidata tradizione all’ambiente
apostolico, anzi addirittura a S. Pietro? Messa, dunque, celebrata da circa
venti secoli, nella quale i Papi avevano, com’è ovvio, sempre ravvisato una
perfetta sintonia tra la lex credendi e la lex orandi? Una Messa
non per nulla sempre odiata da eretici di ogni tipo e in particolare da quei funesti
eresiarchi che sono stati Lutero e Calvino. Invece, guarda un po’, alcuni esponenti
protestanti hanno affermato in un recente passato che sarebbe stato
“teologicamente possibile” per i loro settari partecipare alla nuova messa
cattolica. E, se ben ricordo, questa “nuova messa” suscitò al tempo anche il pubblico
compiacimento di comunisti e massoni.
Mons.
Pozzo dovrebbe avere il coraggio di spiegare a noi fedeli per qual mai motivo
proprio un Romano Pontefice dovrebbe proibire ai sacerdoti di celebrare questa
Messa e a noi fedeli di parteciparvi. Ha forse cessato di essere dall’oggi al
domani una Messa cattolica? Il discorso va fatto nel merito della
questione, senza nascondersi dietro il principio d’autorità. Naturalmente,
rientra nei poteri del Sommo Pontefice “restringere”, nel modo che egli ritenga
opportuno, “l’uso dei testi liturgici”, in generale. Però, quando “restringe o
limita” non si può pensare che lo faccia per far restare i fedeli senza Messa: lo
fa, evidentemente, per far prevalere un tipo di rito su un altro o su altri,
considerati inaffidabili sul piano dottrinale. E così accadde quanto fu
promulgato il Messale Romano.
2. Non
è vero che la Chiesa non abbia mai abolito dei riti: proprio questo ha fatto
san Pio V nel 1570, quando ha promulgato il ‘Messale Romano’. È ancora
diffusa l’opinione, secondo la quale la Messa “tridentina” è un nuovo rito,
fabbricato dalla Curia su impulso del Concilio di Trento. Ma ciò è del tutto
falso, come ha dimostrato mons. Klaus Gamber, liturgista sommo, scomparso
nel 1989.
“Come
abbiamo mostrato, il Rito Romano risale, in parte considerevole, almeno sino al
sec. IV. Il Canone della Messa, salvo piccole modifiche effettuate sotto san
Gregorio Magno (590-604), già sotto Gelasio I (492-496) risultava nella forma
che ha conservato fino ai nostri giorni. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal
sec. V in poi, hanno sempre insistito è stata l’estensione alla Chiesa
Universale di questo Canone Romano, sempre ribadendo che esso risale
all’Apostolo Pietro. Nella composizione di altre parti dell’Ordo Missae, così
come nella scelta dei Propri delle Messe, essi hanno rispettato le usanze delle
Chiese locali […] Nel Medio Evo, quasi ogni chiesa locale, o almeno quasi ogni
diocesi, utilizzava un proprio Messale, quando non aveva spontaneamente
adottato il Messale della Curia. Nessun Papa interferì mai in tali decisioni
[…] Le cose erano a questo punto, quando fu indetto il Concilio di Trento a
difesa dal protestantesimo. Esso decretò la pubblicazione di un Messale
perfezionato e uniforme per tutti. Che cosa fece san Pio V? Egli prese, come
già detto, il Messale della Curia in uso a Roma e in molti altri luoghi, e lo
perfezionò, riducendo, fra l’altro, il numero delle Feste dei Santi. Ma non
impose l’obbligo di questo Messale a tutta la Chiesa: rispettò bensì
tradizioni locali risalenti a soli duecento anni addietro [poco, per i tempi
della Chiesa]. Tanto bastava per esser dispensati dall’obbligo dell’adozione
del Missale Romanum. Il fatto che la maggioranza delle diocesi abbia ben
presto adottato questo Messale, è dovuto ad altre cause. Da Roma non venne esercitata
alcuna pressione”[2].
Così
il rito romano antico fu chiamato “Messa Tridentina”. Ma, sottolinea mons.
Gamber, “non esiste in senso stretto una Messa Tridentina, per il fatto che non
è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae in seguito al Concilio di Trento. Il
Messale che san Pio V fece approntare non fu in realtà nient’altro che il
Messale della Curia, in uso a Roma da molti secoli e che i Francescani avevano
già introdotto in gran parte dell’Occidente: un Messale, tuttavia, che non era
mai stato imposto universalmente e in modo unilaterale. Le modifiche apportate
da san Pio V al Messale della Curia si rivelano talmente modeste da poter esser
scorte soltanto dallo specialista”[3].
Dunque,
san Pio V, con la costituzione apostolica del 17 luglio 1570 “Quo primo
tempore”, con la quale promulgò il Messale, abrogò espressamente tutti i
riti diversi da quello romano antico, ad eccezione di quelli che potessero
vantare più di duecento anni di vita. Scrisse, infatti, al § IV: “ordiniamo
che nelle chiese di tutte le Provincie dell’Orbe cristiano […] la Messa, sia
quella conventuale cantata presente il coro, sia quella semplicemente letta a
bassa voce, non potrà essere cantata o recitata, in altro modo da quello
prescritto dall’ordinamento del Messale da Noi pubblicato”. Nel § V
concedeva che potessero mantenere il loro rito le chiese che “potessero
dimostrare un proprio rito ininterrottamente osservato per oltre duecento
anni”. Nel § VI, affermava solennemente: “mentre con la presente Nostra
Costituzione, da valere in perpetuo, priviamo tutte le summenzionate Chiese
dell’uso dei loro Messali, che ripudiamo in modo totale e assoluto,
stabiliamo e comandiamo, sotto pena della nostra indignazione, che a questo
Nostro Messale, recentemente pubblicato, nulla mai possa venire aggiunto,
detratto, cambiato”[4].
Non
è pertanto esatto quanto affermato da mons. Pozzo, che “la Chiesa non abolisce
una forma liturgica in quanto tale”: san Pio V ha fatto espressamente piazza
pulita di tutti i riti, altri da quello romano antico, che non potessero
dimostrare di esser stati osservati senza soluzioni di continuità da almeno
duecento anni! E si noti poi questo punto essenziale: egli abolì tutti
questi riti a favore di quello più diffuso, più antico e più sicuro, quanto
alle origini apostoliche del Canone, che è il cuore della Messa; non li abolì
in favore di un rito interamente nuovo, fabbricato a tavolino, per
di più con la consulenza di sei esperti tratti dagli eretici!
Come
si spiega, allora, l’affermazione di mons. Pozzo? A mio avviso, con il fatto
che Paolo VI non ha, com’ è noto, abrogato espressamente la messa dell’Ordo
Vetus, quando ha promulgato quella nuova. Non ne ha avuto il coraggio. Si
diffonde allora l’opinione che Paolo VI abbia agito così per rispettare un
principio generale, quello secondo il quale “la Chiesa non abolisce una forma
liturgica in quanto tale” ma si limita a “restringerla” senza abolirla, onde il
fedele è tenuto ad obbedire a quella “restrizione” come se corrispondesse ad
una vera e propria abrogazione di fatto. Ma un cosiffatto principio generale
non esiste e non può esistere nell’ordinamento della Chiesa, lo dimostra
l’esempio storico di san Pio V testé richiamato, grazie alla profonda e limpida
dottrina di mons. Gamber.
Si
torna allora alla questione di merito: il Vetus Ordo, dichiarato “valido in
perpetuo” da san Pio V, è ancora perfettamente legittimo, dal momento che non è
mai stato espressamente “ripudiato”, e tuttavia si dovrebbe obbedire alla
volontà di un Papa che ne voglia restringere od impedire l’uso. E perché si
dovrebbe? Se è ancora perfettamente legittimo, come ha ricordato anche
Benedetto XVI nel motu proprio Summorum Pontificum, che ne “sdoganava”
la celebrazione, sottraendola alla preventiva autorizzazione dell’Ordinario
locale, perché mai restringerne o proibirne l’uso, per di più contro il dettato
dello stesso Papa Ratzinger? Esiste una spiegazione nel merito? O dobbiamo
piegarci ciecamente ad uno stat pro ratione voluntas?
3. La
questione non è disciplinare ma di merito, coinvolge la fede. La
questione è di merito, non meramente disciplinare: essa coinvolge la verità di
fede costituita dalla necessaria ed indissolubile connessione tra lex credendi
e lex orandi, secondo la quale la lex orandi deve manifestarsi in un rito che
sia perfettamente conforme alla lex credendi ossia al Deposito della Fede. Può
un Papa proibire la celebrazione di un rito il cui Canone risale, secondo la costante
tradizione della Chiesa, addirittura a san Pietro; rito che è stato sempre
considerato il rito cattolico per eccellenza, mai mutato in tanti secoli, se
non pochissime volte ed in aspetti del tutto marginali? Che nella questione del
Rito sia coinvolto anche il dogma, lo dimostra il fatto che l’Ordo Vetus
esprime in maniera perfetta il vero significato della Santa Eucaristia, l’esser
cioè essa la Rinnovazione incruenta del Sacrificio propiziatorio di Nostro Signore
sul Calvario, mediante la Consacrazione delle Sacre Specie fatta dal sacerdote
celebrante in persona Christi, grazie alla quale si rende realmente presente il
Cristo nell’Ostia “in corpo, sangue, anima e divinità”. E proprio per questa
sua perfetta corrispondenza al dogma l’hanno sempre odiato – questo rito – gli
eretici e i figli del Secolo. Che la messa del Novus Ordo vi corrisponda
altrettanto perfettamente è alquanto dubbio, tant’è vero che per
molti, anche sacerdoti e vescovi, la messa è oggi soprattutto il memoriale
della Resurrezione di Nostro Signore. A tal punto se ne è stravolto il
significato!
Ce
l’ha allora un Papa quel potere di “restringere”? Giuridicamente ce l’ha di
sicuro ma se lo esercita per colpire un rito che tutta la tradizione della
Chiesa e l’intero Magistero hanno sempre considerato per duemila anni come il
rito cattolico per eccellenza, allora bisogna dire che questo potere viene nel
caso di specie mal esercitato. In sostanza, si tratterebbe di un abuso di
potere poiché il Papa lo impiegherebbe per danneggiare la lex credendi
attraverso l’ immotivata “restrizione” di una lex orandi, nella quale da
duemila anni si confermano i fedeli nei dogmi fondamentali della nostra fede.
Per
esser ancora più chiari e andare ancor più al fondo del problema, possiamo
mettere la cosa in questo modo: se il Papa avesse il potere di cambiare
il Rito allora potrebbe anche restringere l’uso di un rito tuttora valido
perché mai abrogato, che si vuol tuttavia considerare “straordinario” rispetto
a quello ufficiale. Avere il potere di cambiare il rito significa poter agire
nei confronti della liturgia con la più assoluta libertà, e quindi al di fuori
di tutta la Tradizione della Chiesa, se del caso. In realtà, come dimostra
mons. Gamber, il Papa non ha il potere di cambiare il rito consolidato dalla
bimillenaria tradizione di tutta la Chiesa. San Pio V non creò alcun
rito nuovo; come si è visto, nulla cambiò: per difendere la Chiesa
dalle eresie e dagli scismi galoppanti, impose il rito antichissimo e
prevalente, salvaguardando gli altri che lo meritavano, per la bisecolare
vetustà loro, sufficiente garanzia di correttezza dottrinale.
Ma
qui, si dirà, non è in questione il potere del Papa di cambiare il Rito ma
quello di proibire l’esercizio di un rito tuttora valido. Secondo me le due
questioni sono collegate perché è proprio in nome della legittimità del Novus
Ordo che si impongono di fatto restrizioni all’Ordo Vetus. Non si è potuto
abrogarlo ma non lo si vuole tra i piedi. E la legittimità del Novus Ordo è
tale solo se si ritiene che il Papa abbia il potere di cambiare il Rito,
creandone uno completamente nuovo, quale per l’appunto il Novus Ordo,
fatto inaudito nella storia della Chiesa. Se non ce l’ha, questo potere, allora
non ha nemmeno quello di impedire la celebrazione di un rito tuttora valido e
perfettamente conforme alla Tradizione della Chiesa, quale l’Ordo Vetus. Perché
se ne vuole impedire la celebrazione? Non lo si spiega mai, però, come si suol
dire, res ipsa loquitur: per favorire quella del Novus Ordo, che però il
Papa non aveva il potere di emanare, proprio a causa della sua radicale novità,
della rottura che esso rappresenta con la Tradizione.
4. Poiché
il Papa non ha il potere di cambiare il rito, sostituendolo con uno del tutto
nuovo, non ha nemmeno il potere di impedire la celebrazione del bimillenario e
sempre valido rito romano antico.
Che
cosa intendiamo per “Rito”, si chiedeva l’illustre studioso? “Esso si può
definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto che, risalenti in
ultima analisi a N.S. Gesù Cristo, si sono sviluppate nei dettagli a partire da
una Tradizione comune, e sono state più tardi sancite dall’Autorità
ecclesiastica”. Sulla base di questa definizione, mons. Gamber traeva cinque
principi di carattere generale e due importanti conclusioni relative al potere
del Papa nei confronti del Rito.
1.
“Se un rito nasce da una tradizione comune – e a questo riguardo non possono sussistere
dubbi in chi conosce la storia della nostra Liturgia – esso non può essere
rifatto ex novo nella sua globalità”.
2.
“Se nel corso del tempo un rito si evolve, è possibile e lecito un suo sempre
ulteriore sviluppo, a patto però che esso rispetti la qualità intemporale di
ogni rito e si effettui organicamente. Così, la libertà di culto concessa ai
cristiani da Costantino ebbe come conseguenza, fra l’altro, un arricchimento
del Culto stesso. La Liturgia non fu più celebrata in piccole chiese domestiche,
ma in splendide basiliche, e ovunque con maggiore solennità; nacque in questo
nuovo contesto il canto corale della Chiesa”.
3.
”La Chiesa universale ammette l’esistenza di più riti autonomi. In Occidente, a
parte il Romano, abbiamo il Mozarabico e l’Ambrosiano (il Rito Gallicano è da
secoli estinto); in Oriente, fra altri, il Rito Bizantino, l’Armeno, il Copto,
il Siro-maronita. Poiché ciascuno di questi Riti ha avuto uno sviluppo
indipendente, esso presenta caratteristiche sue proprie. Singole parti di uno
di essi non possono pertanto essere mutuate da un altro Rito. Non si può, ad
esempio, usare nella Liturgia Romana una Anafora (o Prece Eucaristica)
orientale o parte di essa (cosa che invece accade oggidì nel nuovo rito della
Messa); oppure, al contrario, usare il Canone Romano in una delle Liturgie
Orientali. I Papi hanno sempre rispettato i vari Riti dell’Oriente e
dell’Occidente, ma solo in casi eccezionali hanno permesso il passaggio di un
fedele da un Rito Orientale al Romano o viceversa. Decisivo, secondo il Codice
di Diritto Canonico, è sempre stato il Rito con cui si è ricevuto il Battesimo
(CIC [del 1917] c. 98, § 1). S’impone a questo punto il quesito se il Rito
“moderno” sia un Rito nuovo, oppure un ulteriore sviluppo organico del Rito
Romano tradizionale. La risposta risulta dal punto seguente”. Il “punto
seguente”, osservo, fissa un principio fondamentale, basato sulla recta
ratio e il senso comune oltre che sull’esperienza storica.
4. “Ogni
rito costituisce un’unità cresciuta organicamente. Modificazioni di alcune sue
parti sostanziali significano pertanto la distruzione dell’intero rito”. Questa
“distruzione” fu operata in maniera inizialmente subdola da Lutero. “È quanto
avvenne all’epoca della Riforma, quando Martin Lutero eliminò il Canone e
collegò il racconto della Istituzione [della S. Eucaristia] direttamente alla
Comunione. Non occorre dimostrare che, così facendo, egli distrusse la Messa
Romana, pur conservando alcune forme esteriori e, agli inizi, persino la foggia
dei paramenti sacri e il canto corale. Ma in seguito, abolito l’antico Rito,
nelle comunità evangeliche si è passati a sempre nuove riforme nel campo
liturgico”. Suona familiare? Chissà cosa direbbe mons. Gamber di fronte ai fescennini
liturgici cui siamo costretti ad assistere oggi, e da tanti anni ormai.
5. “Il
ritorno a forme più primitive non comporta necessariamente un cambiamento del
rito, ed è perciò, entro certi limiti, ammissibile. Così, non si ebbe frattura
alcuna nel Rito Romano tradizionale quando san Pio X reintrodusse il canto
gregoriano restaurato nelle sue forme originarie, o quando restituì la loro
primitiva importanza alle Messe delle Domeniche “per annum” nei confronti delle
feste minori dei Santi”.
Posti
questi cinque punti fermi, veri e propri criteri fondamentali per
regolarsi nella delicata materia, mons. Gamber affrontava la domanda cruciale.
“E
veniamo ora al nostro quesito: ha il Papa il diritto di mutare un Rito che
risale alla Tradizione Apostolica e che si è formato nel corso dei secoli? La
nostra indagine ha fin qui mostrato come in passato l’Autorità ecclesiastica
non abbia mai influito in misura cospicua sullo sviluppo delle forme
liturgiche. Essa ha solamente sancito il Rito formatosi nel solco della
consuetudine e, oltretutto, lo ha fatto relativamente tardi, in particolare
dopo la comparsa dei libri liturgici a stampa; in Occidente, solo dopo il
Concilio di Trento”. Secondo mons. Gamber, il Vaticano II, nella costituzione Sacrosanctum
Concilium sulla riforma della liturgia, non si proponeva affatto una
riforma liturgica dell’ampiezza di quella poi imposta da Paolo VI; esso si
sarebbe limitato a suggerire una serie di modifiche che avrebbero potuto esser
effettuate senza alcun bisogno di sostituire l’antico rito con uno interamente
nuovo. Perciò l’Ordo Missae emanato da Paolo VI il 3 aprile 1969 fu una totale
sorpresa, continuava mons. Gamber: “con esso è stato creato un nuovo Rito. L’Ordo
tradizionale, dunque, non è stato riveduto nel senso voluto dal Concilio: è bensì
stato totalmente abolito e, alcuni anni dopo, addirittura proscritto”; anche
se, ricordo, solo di fatto: obliato, gettato alle ortiche come non fosse mai
esistito. Ancor oggi molti fedeli non sanno che cosa sia. Lasciamo da parte la
questione se nel Concilio si possano già trovare le premesse di certe novità
introdotte dal Novus Ordo (secondo me è possibile, ma il punto non è qui
essenziale). Essenziale è il fatto che un Novus Ordo si sia completamente
sostituito al precedente, grazie ad una Messa nuova, che mostra solo
alcuni elementi di quella del rito antico.
“Ci
si domanda allora: un così radicale rifacimento è ancora nel quadro della
Tradizione della Chiesa?”. La conclusione di mons. Gamber, pur nel linguaggio
prudente e rispettoso, era chiaramente per la negativa. Egli mostrava, con
finezza d’analisi, che la suprema potestà di giurisdizione del Pontefice non
può comprendere il potere di abolire il Rito tradizionale.
“Un
diritto esclusivo del Papa di introdurre un nuovo Rito anche senza una disposizione
conciliare nascerebbe, così si ragiona, dalla sua “piena e suprema autorità” (plena
et suprema potestas), di cui parla il Vaticano I, in quelle materie “quae
ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent” (Denz.
1831). Ma nel termine “disciplina” non è assolutamente compreso quel Rito della
Messa che tutti i Papi hanno sempre detto e ribadito risalire alla Tradizione
Apostolica. Tale coerenza del Magistero pontificio è sufficiente da sola a
escludere che quel Rito rientri nel concetto di “disciplina di governo della
Chiesa”. A ciò si aggiunga che nessun documento, neppure il Codice di Diritto
Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della
Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. Nemmeno si parla in
alcun luogo di un suo diritto di modificare singole consuetudini liturgiche. Tanto
silenzio è, nel nostro caso, di estrema importanza.
Alla
“plena et suprema potestas” del Papa sono chiaramente posti dei limiti. È
indiscutibile che egli, nelle questioni dogmatiche, deve attenersi alla
Tradizione della Chiesa Universale, ossia a “quod semper, quod ubique, quod ab
omnibus creditum est”, come dice san Vincenzo di Lerino. Più di un autore
esprime l’opinione che non rientri nei poteri del Papa l’abolizione del Rito
tradizionale.
Il
famoso teologo Suarez (morto nel 1617), rifacendosi a precedenti autori, fra
cui il Cajetano (morto nel 1534), sostiene che un papa diventerebbe scismatico se
non volesse mantenersi, come è suo dovere, in unione e collegamento con
l’intero corpo della Chiesa, al punto di tentare di scomunicare l’intera Chiesa
o di mutare i Riti confermati dalla Tradizione Apostolica”.
A
questa analisi non occorre aggiungere alcun commento, tanto è chiara e precisa.
Dico solo che da essa dobbiamo necessariamente concludere che Paolo VI ha
esorbitato dai suoi poteri quando ha imposto la sua riforma liturgica, con un
Rito della Messa interamente nuovo. Secondo la corrente teologica sopra
richiamata, che annovera nomi illustri, egli potrebbe anche considerarsi scismatico.
Scismatico di fatto, si intende, o implicito, o in senso
solamente spirituale. Infatti, l’eliminazione di fatto del Rito
“confermato dalla Tradizione Apostolica” e la sua sostituzione con un Rito
interamente nuovo, è paragonabile (per il suo significato) alla fondazione di
una nuova Chiesa e quindi ad una separazione o frattura (scisma)
rispetto a quella precedente, che resta però l’autentica Chiesa cattolica.
Qual è dunque, concludeva mons. Gamber, il vero
compito della Prima Sedes nei confronti della Liturgia? Punto fermo,
immodificabile: “Di certo non è compito della Sede Apostolica introdurre
mutamenti nella Liturgia. Il dovere primario del Sommo Pontefice in quanto
SupremoVescovo (Episcopo, ossia ispettore), è quello di vigilare sulla
Tradizione, sia nel campo dogmatico che in quello morale e liturgico”. Il Papa
può intervenire nella Liturgia solo in modo subordinato, complementare. “Nei
pieni poteri della Sede Apostolica rientrano invece, dal Concilio di Trento in
poi, la revisione dei libri liturgici, ossia la verifica delle edizioni a
stampa, e l’introduzione di piccole modifiche: per esempio, l’introduzione di
nuove feste”.
Voglio
anche ricordare, sempre avvalendomi di mons. Gamber, un altro aspetto della
rivoluzione provocata da Paolo VI ossia la vastità praticamente
irreformabile del cambiamento da lui ordinato. “Il mutamento del
rito non è avvenuto soltanto attraverso l’Ordo Missae del 1969, ma anche
attraverso una riforma di vasta portata del calendario liturgico. L’aggiunta o
l’eliminazione della festa di un Santo, di certo non avrebbe di per sé
modificato il Rito. Lo hanno invece modificato la quantità e qualità delle
innovazioni introdotte nell’ambito complessivo della riforma liturgica, per cui
ben poco è rimasto com’era prima”.
B e
n p o c o , dunque. Le ben note differenze del Novus Ordo rispetto all’Ordo
Vetus sono macroscopiche e tutte volte a ridurre il significato di sacrificio
propiziatorio e sovrannaturale della Messa. Basti ricordare: il rito in
lingua volgare; l’abolizione dell’altare (entrambe le cose antiche aspirazioni
di quasi tutti gli eretici); la riduzione del celebrante a presidente
dell’assemblea del “popolo di Dio”; l’abolizione dell’Introduzione (“Mi
accosterò all’altare di Dio, Al Dio che allieta la mia giovinezza…- Salmo 42)
sostituita da una breve, arida Antifona d’ingresso; l’abolizione dell’Introito;
l’abolizione della preghiera alla Santissima Trinità; la cancellazione
dell’ultimo Vangelo, costituito dal Prologo del Vangelo di S. Giovanni, nel
quale si riafferma, alla fine della Messa, la nostra fede nella natura divina
del Verbo incarnato; l’estinzione del Prefazio della Santissima Trinità;
l’inchino al posto della plurisecolare genuflessione nella recita
del Credo alle parole “E s’incarnò da Maria Vergine per opera della Spirito
Santo e si fece uomo”; la sostanziale scomparsa dell’Offertorio, poiché
le magnifiche preghiere che accompagnano l’offerta del pane e del vino sono
state sostituite da una breve ed insignificante preghiera ricavata (a quanto
sembra) da una benedizione rabbinica dei pasti; la rimozione dell’espressione “mistero
della fede” dalla formula della Consacrazione del vino, per esser
pronunziata subito dopo dal sacerdote, cui i fedeli rispondono: “Annunziamo la
tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua
venuta”; mutazione che collega il “mistero della fede” più che al significato
propiziatorio del Sacrificio della Santa Croce, che ci ottiene misericordia (propitiatio)
per i nostri peccati, alla Resurrezione e quindi all’attesa della venuta del
Cristo Glorioso! Infine, l’aver premesso la lettura di un passo del Vecchio
Testamento a quella dell’Epistola e del Vangelo, quasi a voler conferire al
Vecchio Testamento un primato che esso non può avere, essendosi la Nuova ed
Eterna Alleanza sostituita integralmente e per sempre all’antica.
Si
tenta di imporre oggi come dottrina ufficiale una cosiddetta “ermeneutica della
riforma nella continuità”. Ma che la “riforma” introdotta con la Messa di Paolo
VI sia veramente in continuità con la Messa cattolica di sempre, nessun
osservatore imparziale potrebbe onestamente affermarlo, anche se, per
riprendere mons. Gamber, “non si può sostenere, come a volte succede, che la
Messa secondo il Novus Ordo sia di per sé invalida”. Bisogna dire,
invece, che “il numero delle messe realmente invalide potrebbe essere
notevolmente aumentato dal tempo dell’introduzione delle riforme”[6]. In
un quadro del genere, l’esortazione a “mettere in rilievo l’intima convergenza
delle due forme” del Rito, appare incomprensibile. Non esiste un unico Rito
in due forme. Esiste un solo rito sicuramente cattolico, il
bimillenario Ordo Vetus, valido in eterno, che si persiste a voler oscurare in
nome di un nuovo rito, per diversi e gravi aspetti non conforme alla Tradizione
della Chiesa.
Paolo Pasqualucci
[1] Vedi: “Chiesaepostconcilio.blog”, diretto da Maria Guarini, in data 17
novembre 2014, che riprende sul punto il sito “Disputationes theologicae”. Sul
blog le tesi di mons. Pozzo hanno provocato un ampio ed articolato dibattito,
motivatamente critico nei loro confronti.
[2] Mons. K. Gamber, La riforma della Liturgia
Romana. Cenni storici. Problematica, UNA VOCE, Supplemento al n. 53-54 del
Notiziario, giugno-settembre 1980, pp. 20-21. Le frase tra parentesi quadre
sono mie.
[3] Op. cit., pp. 19-20.
[4] Testo tratto dalla parte introduttiva del Messale
Romano, secondo l’adizione aggiornata al 1962, Edizioni S. Francesco di
Sales, Priorato S. Carlo, Montalenghe, Torino, 1992, pp. X-XI. Corsivi miei.
[5][5] I passi qui di seguito riportati si trovano alle
pp. 22-31 del saggio di mons. Gamber, da me citato.
[6] Op. cit., p. 33. Resta comunque il problema dell’ effettiva efficacia
di questa Messa Novus Ordo.
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