L’origine della
parola sport, l’alba di questo
concetto e della sua pratica, è cosa ormai lontana nel tempo, ottocentesca.
Prima di allora esistettero i giochi, le gare. Il salubre esercizio fisico dei
devoti a Igea e l’addestramento militare erano già stati introdotti da medici e
uomini d’armi fin dall’antichità. Ma si era trattato di idee, esercizi e
categorie di persone differenti.
Nel Secolo Ventesimo vennero gli anni in cui
la qualifica di sportivo conferiva un titolo di merito e di rispetto, al di qua
dell’ossessione sportiva di stampo anglosassone. Questa veniva generalmente
eclissata da una certa esterofilia, che faceva ammirare l’impegno nel modo
atletico e salutistico d’impiegare le ore di libertà, di ricreazione e le
vacanze.
Si
perde nella memoria maggiormente istruita la frenesia dei cimenti fisici,
propria degli inglesi, spesso congiunta alle esplorazioni turistiche,
debitamente commiserata e derisa da emeriti letterati, cultori degli incanti
della natura come Knut Hamsun. A quell’epoca, anche in Italia si prese a
rimpiangere i viaggiatori colti, contemplativi, sostituiti da comitive
frettolose, parsimoniose, abbigliate in modo sommario, marcianti e assillate
dal rispetto di una tabella oraria delle visite a paesaggi, monumenti e musei.
Da noi lo sport non costituiva ancora un
dovere. A scuola si faceva ginnastica; l’educazione fisica non era sport. A
poco a poco, l’essere sportivi autorizzò a screditare quanti non dimostravano
di esserlo. Non bastava tenersi in esercizio, avendo cura dell’efficienza
corporea in omaggio al detto mens sana in
corpore sano. Essere meno che sportivi nell’accezione più larga, divenne
una macchia sulla persona e sulla coscienza.
I tifosi si chiamarono sportivi, e dicevano
“abbiamo vinto” o “abbiamo pareggiato”, “abbiamo perso per colpa dell’arbitro”,
facendo corpo coi giocatori della loro squadra. Amare gli sport, parteggiare
per un campione del pedale, del ring, delle corse automobilistiche, significava
stare in regola. La tenuta sportiva, contrapposta all’abito usuale, immetteva
in un anticonformismo che oggi fa sorridere per la sua impeccabilità. Uomini e
ragazzi, indossando blusa o pullover sulla bella camicia, pantaloni di
gabardine e scarpe bicolore, erano pronti per il fisico diporto, sciolti
dall’universale tenuta in giacca e cravatta. Una ragazza sportiva era quella che non si dava troppa pena del proprio buon
nome. Adesso, in quell’atteggiamento di emancipazione femminile farebbe la
figura di un’educanda appena svagata.
Intanto, l’aura di nobiltà spettante all’atletica
gratuita, a cominciare dai dilettanti degli stadi e delle palestre rionali fino
ai partecipanti alle olimpiadi, e che aveva riguardato anche i professionisti poco
rimunerati e aderenti a un certo codice cavalleresco, quel decoro andava
sfaldandosi. Il puro dilettantismo scomparve, ucciso dagli interessi, dalla
pubblicità. Ovunque ci fosse competizione o prestazione che desse spettacolo,
lì, da ogni lato, intervenne il denaro. I pronostici a premi e le lotterie
abbinate alle competizioni sportive prosperarono, salirono le vincite. Vincere
in un modo o nell’altro contò soprattutto! Il culto dei muscoli gonfiati ad
ogni costo, diede ombra alle atletiche perfezioni immortalate nelle statue
greche e latine come in un David di Michelangelo. La palestra mostruosamente
attrezzata divenne luogo di ritrovo, di esibizionismo e, qua e là, di spaccio e
di consumo.
Quando Coppi e Bartali furoreggiavano,
c’erano corridori rosi dall’invidia che prendevano la bomba, una droga che permetteva loro di arrivare primi. Ma era poco
conveniente, specie nelle corse a tappe: il giorno dopo il finto vincitore,
spossato, se non era costretto al ritiro poco ci mancava.
Il povero barone de Coubertin è morto e
sepolto. Chi ancora lo cita decantando la partecipazione e l’onore dello
sconfitto, ripete ipocritamente o scherzosamente la larva d’una fede.
Da un bel po’ la televisione annuncia con
sollievo che una squadra di calcio italiana è stata favorita dal sorteggio per la disputa d’un torneo internazionale,
dovendo battersi, al prossimo turno, contro le squadre meno temibili. Bella
sportività, quella che si rallegra perché la propria squadra dovrà competere
con una formazione straniera che sarà più facile sconfiggere!
Piero Nicola
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