Tale
appellativo – ‘Eruditissimus omnium Romanorum’ – spetta di diritto al
‘Reatinus’, com’egli era giustamente chiamato, tant’è vero che nessuno
studioso, antico o moderno, si è mai azzardato di mettere in dubbio tale verità
incontrovertibile, ad iniziare da Cicerone per il quale le opere di Publio
Terenzio Varrone (116 a .C.-27 a .C.) rappresentavano la
nostra casa avita.
Concittadino dell’imperatore Tito Flavio
Vespasiano (9. d.C.-79 d.C.), ma nato nel secolo precedente, Varrone avidissimo
com’è noto, di cultura - e la sua immensa produzione in tanti campi dello
scibile ne è la testimonianza più tangibile – fu non solo un uomo di scienza,
in tutti i sensi, ma anche una persona d’azione con un ‘cursus honorum’ che,
gli permise, di volta in volta, di ricoprire le cariche di questore,
proquestore, tribuno della plebe e pretore.
Profondo conoscitore della sapienza greca, il
Reatino, morto a quasi novant’anni, elaborò 74 opere sebbene molti scritti non
abbiano avuto la fortuna di giungere fino a noi; ciononostante, anche quello
che rimane costituisce un patrimonio importante fermo, restando che solo il ‘De
re rustica’, in tre libri, ci è giunto nella sua interezza.
Le altre opere, alcune solo frammentarie,
sono: ‘Saturae Menippeae’, ‘Antiquitates rerum humanarum et divinarum’, ‘De
lingua latina’ di cui rimangono 6 libri, ‘De comoediis Plautiniis’, andate
perdute, e tantissime altre; insomma, un ‘corpus’ di volumi, incarnante
l’intero sapere umano che non ha avuto la buona ventura di deliziare la
posterità e che rimane la più grave perdita della cultura classica.
Mente enciclopedica, Varrone ricevette
l’elogio più sincero e più indovinato da Cicerone il quale, in un’opera, così
si esprime nei suoi riguardi:” Tu ci hai fatto conoscere l’età della nostra
patria, le leggi religiose, (…), la successione temporale, gli ordini politici
e militari” (…); “tu hai illuminato con vivissima luce i nostri poeti e le
lettere latine, hai confezionato versi raffinati di vario genere (…), e hai
iniziato a discutere di filosofia in tanti tuoi scritti”.
Dell’erudito di Rieti ci restano molte
sentenze una delle quali – nel ‘De officio mariti’ - così suona: “Un difetto
della moglie o si deve modificare o si deve tollerare; colui che è in grado di
emendarlo, rende la consorte più sopportabile, chi lo patisce, rende migliore
sé stesso”. Ora ci piace concludere il breve ‘excursus’ sul più dotto dei
Romani con due significativi brani tratti, rispettivamente, dal ‘De lingua
latina’ e dal ‘De re rustica’.
Il primo così recita: “Come negli uomini
esistono alcune parentele di sangue e di stirpe, così avviene nelle parole.
Come infatti da un Emilio sono nati gli uomini chiamati Emilio e i membri della
‘gens Aemilia’, così dal nome di Emilio sono derivate tutte le voci relative al
nome della gente; da questo nome, posto al caso retto, ‘Aemilius’, sono venute
le voci ‘Aemilii’, ‘Aemiliorum’, e così tutte le altre che appartengono alla
stessa discendenza”(trad. A. Traglia).
Per il secondo, ci serviamo della viva voce
del grande Reatino: “Otium si essem consecutus, Fundania, commodius tibi haec
scriberem, quae nunc, ut potero exponam, cogitans esse properandum, quod, ut
dicitur, si est homo bulla, eo magis senex. Annus enim octogesimus admonet
me ut sarcinas colligam, antequam proficiscar e vita. Quare quoniam emisti fundum, quem bene colendo
fructuosum cum facere velis, meque ut id habeam curare roges, experiar”.
(Se avessi maggior tempo, o Fundània,
scriverei con più agio per te queste cose. Che ora esporrò come posso, pensando
che occorre affrettarsi, perché se, come si dice, l’uomo è una bollicina
d’aria, tanto più lo è un vecchio. E l’anno ottantesimo mi ammonisce di
raccogliere le mie robicciole prima di dar addio alla vita. Perciò, dal momento
che hai comperato un podere, desiderando tu di renderlo fruttuoso col
coltivarlo a modo, e chiedendomi che io mi interessi di ciò, farò del mio
meglio” (trad. B. Riposati).
Anche Sant’Agostino – nell’amplissima opera
‘De Civitate Dei’ (413) – dimostrò grande stima per il Reatino specialmente
quando scrisse che “Varrone uno dei più dotti (…) e uomo di grandissima
autorità, scrivendo alcuni libri ‘sulle cose umane e divine’ e distribuendoli
secondo l’importanza dell’argomento, pose i giochi scenici non tra le cose
umane, ma tra quelle divine”.
“E’ certo che se si fossero trovati in città
soltanto uomini onesti e virtuosi, i giochi scenici non avrebbero dovuto
trovarsi neppure tra le cose umane. Ma egli non fece questo di proprio
arbitrio, bensì perché nato ed educato in Roma, li trovò già tra le istituzioni
divine” (trad. di C. Borgogno)
Varrone, ad ottant’anni, si sentiva la morte
addosso, ma egli visse ancora quasi dieci anni a conferma della considerazione
secondo la quale, per dirla con Orazio, essa “aequo pulsat pede” quando arriva
il nostro turno, compreso “il gran lume romano”, come lo definì Francesco
Petrarca.
Lino Di Stefano
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