giovedì 15 gennaio 2015

“Scoperto il luogo dove Ponzio Pilato si lavò le mani”. L’archeologia conferma sempre più la storicità dei Vangeli (di Paolo Pasqualucci)

1.  Scoperto il luogo dove Ponzio Pilato si lavò le mani. Così titolava un recente, breve articolo del Corriere della Sera del 6 gennaio 2015, p. 28, di Francesco Battistini.  Il “luogo” si trova “all’ombra della Porta di  Giaffa”, dove Ponzio Pilato, il governatore romano (procurator), teneva la sua dimora e sede ufficiale, il pretorio, quando si trovava a Gerusalemme.  La teneva nel massiccio Palazzo di Erode, costruito da Erode il Grande lungo le mura e incombente sulla porta della città dalla quale si dipartiva la strada che conduceva a Giaffa[1]. A questa conclusione è giunta una squadra di archeologi israeliani ed americani dopo ben quindici anni di accurate ricerche.  E come hanno fatto, che metodo hanno seguìto?  Il Vangelo, hanno segu­ìto.
“Bastava seguire le tracce del Vangelo di Giovanni”, spiega il professor Shimon Gibson dell’Università di Charlotte, Nord Carolina, perché l’evangelista “è chiarissimo quando descrive il Pretorio vicino a una delle porte d’ingresso della città, con un pavimento di pietra irregolare.  Non ci sono iscrizioni, ma ogni testimonianza archeologica, storica ed evangelica porta qui”.  Secondo la tradizione, ricorda il giornalista, il Cristo era stato mostrato alla folla urlante in un altro luogo della Città Vecchia,  alla Porta della Fortezza Antonia, dalla quale sarebbe iniziata la Via Dolorosa.  La fortezza Antonia, sulla collina più alta di Gerusalemme, costruita anch’essa da Erode il Grande e dominante massiccia la spianata del Tempio, era all’epoca occupata dalla guarnigione romana stanziale.  
 Che il luogo dove Pilato emise la condanna a morte di Cristo (intimidito dai Sinedristi che la invocavano a gran voce assieme ad una folla da loro aizzata), fosse davanti alla fortezza Antonia, non risulta tuttavia esplicitamente dai Vangeli.    
Le indicazioni forniteci dal Vangelo di S. Giovanni sono le seguenti:  1.  “Intanto condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio.  Era di mattino presto, ed essi [i Farisei] non entrarono nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.  Uscì dunque Pilato fuori, davanti a loro [ad eos foras, exϖ proς autouς] e domandò: “Quale accusa portate contro quest’uomo?” etc. (Gv 18, 28-29).  2. “Da quel momento Pilato cercava di liberarlo.  Ma i Giudei gridavano dicendo:  ‘Se lo liberi, non sei amico di Cesare; chi, infatti, si fa re, va contro Cesare’.  Pilato, dunque, udite queste parole, condusse fuori Gesù, e sedette in tribunale, nel luogo detto Litostrato, in ebraico Gabbata.  Era la Parasceve della Pasqua, circa l’ora sesta…” (Gv 19, 12-13; corsivi miei).  L’indicazione di S. Giovanni è molto precisa.  Riporta il nome allora in uso di un luogo ben noto di Gerusalemme, in greco e in ebraico.  Per gli archeologi si trattava dunque di trovare questo Litostrato :  “et sedit pro tribunali, in loco, qui dicitur Lithóstrotos, Hebraice autem Gabbatha” “…eiς topon legomenon Liϑostrϖton”.  Un luogo, di fronte all’allora residenza ufficiale del governatore romano (il pretorio), caratterizzato da una pavimentazione particolare.  Così lo descrive il classico Lessico greco del Nuovo Testamento  di Francisco Zorell:  “lapidibus variis stratus, tessellatus” e come sostantivo “lithostrotum, locus variis lapidibus stratus”, più o meno come il nostro “Mosaikboden, pavé de mosaïque”.  L’uso appare  in Varrone, Plinio, due volte nell’Antico Testamento, in Epitteto.  Nomen graecum loci Gabbatha, ubi Pilatus Jesum capitis damnavit :  nome greco del luogo detto Gabbatha, dove Pilato condannò Gesù a morte”[2].  Si tratta di un selciato di “pietre diverse” intrecciate a mosaico, anzi di pietruzze piccole come le tessere dei mosaici (tessellae, diminutivo di tesserae, tessere del mosaico).  Il tessellatum era un “pavimento fatto a mosaico” (vedi Dizionario Latino-Italiano, Georges-Calonghi, sub voce).  Il termine greco  è parola composta da lithos, pietra, e strotos, participio passato del verbo strónnumi, stendo, distendo, copro etc. (lat. sterno).  Per cui:  coperto di pietra, lastricato in pietra (vedi Dizionario Greco-italiano G. Gemoll, sub voce).  Il termine non doveva però essere solo descrittivo, nel senso di indicare qualsiasi selciato o lastricato. Nella fattispecie indicava un selciato di tipo particolare, per l’appunto tessellato o fatto a mosaico.  E proprio questo sono sicuri di aver trovato gli archeologi israeliani e americani, dopo ben quindici anni di ricerche!
Finora, gli archeologi non avevano certezza di dove si fosse svolto il processo a Gesù, se davanti al pretorio o alla Porta della fortezza Antonia.  Infatti, alcuni avevano ritenuto che “il luogo detto Litóstrato” potesse essere davanti alla fortezza, perché il  cortile di quest’ultima, riportato alla luce, è risultato di una pavimentazione a lastroni, esprimibile, sembra, anch’essa nell’immagine del lithostrotos, nel senso generico di lastricato[3].
Ma tale pavimentazione non è quella di un tessellato o “fatto a mosaico”.  Inoltre, “il luogo detto Litostrato” non può esser stato (come pur si è ritenuto) un cortile lastricato, per di più frequentato dai pagani, cioè dai soldati e funzionari romani, cosa che, agli occhi dei Farisei, lo rendeva ritualmente impuro e intransitabile. San Giovanni ci testimonia che tutti gli accesi e concitati scambi verbali tra Pilato e i Farisei si svolsero dinanzi al Pretorio, con Pilato che entrava e usciva più volte, con Gesù e senza di Lui, sino al giudizio di condanna contro Nostro Signore, pronunciato da Pilato sempre davanti ai Farisei e alla folla e quindi sempre davanti al pretorio, all’aperto.
 Alla fine, Pilato, dopo aver tentato per ore di salvare Gesù, udito che i Sinedristi lo accusavano perfidamente di non essere “amico di Cesare”, perché non voleva condannare a morte questo predicatore accusato (falsamente) da loro di essere ribelle a Cesare, cedette: “fece condurre fuori Gesù [fuori dal pretorio, ancora una volta] e sedette in tribunale, nel luogo detto etc.” (Gv 19, 13).  Il “tribunale” (bhma, tribunal) non era una stanza ma una pedana mobile sulla quale si poneva la sedia curule del magistrato romano incaricato di giudicare[4].  Il “tribunale” fu dunque installato all’esterno del pretorio, sul “selciato a mosaico”, di fronte agli accusatori e alla folla stipata all’intorno. Disse di nuovo ai Giudei “ecco il vostro re” e chiese di nuovo se doveva far crocifiggere il loro re, ottenendo la famosa risposta, una vera e propria apostasia da parte di quelli che gliela diedero:  “Noi non abbiamo altro re che Cesare!” (Gv 19, 14-16).  Dopo di che “lo diede nelle loro mani perché fosse crocifisso.  Presero dunque Gesù”, e lo condussero via (ivi, 19, 16), naturalmente con una scorta romana, guidata da un centurione (Longino, che poi, secondo una solida tradizione, si convertì). Il gesto di Pilato del “lavarsi le mani” per indicare che non era egli il vero responsabile della morte di Gesù, risulta da Mt 27, 24.  (Il racconto di san Giovanni va integrato con quello dei Sinottici, non riportando esso tutti gli episodi del processo davanti a Pilato, ma arricchendo e completando il quadro da essi fornito).
 Questa è solo l’ultima di una serie di belle e importanti scoperte, confermanti la verità dei fatti narrati nel Nuovo Testamento, delle quali siamo debitori alla validissima scuola archeologica israeliana, intesa in senso lato. Scoperte cui si è giunti, voglio sottolinearlo, prendendo alla lettera, come punto di partenza per la ricerca, le informazioni contenute nei Vangeli.   

2.  E stata trovata dagli Israeliani anche la prigione di san Paolo a Cesarea.  Nel 1997, seguendo la traccia fornita dagli Atti degli Apostoli, è stato trovato il luogo nel quale fu tenuto prigioniero san Paolo a Cesarea, nei ruderi del Palazzo di Erode, in “una cella sotterranea lunga sei metri e larga tre” (articolo di Lorenzo Cremonesi, Trovata la prigione di San Paolo, sul Corriere della Sera del 10 settembre 1997).  Gli Atti ci informano che san Paolo, perseguitato dai Giudei, svelò alle autorità romane di essere cittadino romano, venendo pertanto preso da loro in custodia e inviato come detenuto a Cesarea, dove venne “custodito nel pretorio di Erode”(At 23, 23-35), in attesa di esser inviato a Roma per esser processato regolarmente, in quanto civis romanus che si era appellato a Cesare. Il “pretorio di Erode” è stato trovato dagli archeologi israeliani.  L’articolo riportava le dichiarazioni di Yosef Porat, capo della missione dell’Autorità archeologica israeliana, che scavò in quei luoghi a partire dal 1992. “Allora Cesarea contava quasi 50.000 abitanti, era diventata la vera capitale amministrativa della provincia di “Palestina” […] Tutto fa pensare che Paolo sia stato condotto qui.  In quest’ultima campagna di ricerche abbiamo scoperto la vastità del palazzo del governatore.  Un complesso voluto inizialmente da re Erode nel 22 prima di Cristo, come residenza di villeggiatura.  Ma 28 anni dopo i dirigenti romani decisero di abbandonare Gerusalemme.  Il Palazzo di Cesarea venne quindi ampliato, fino a coprire oltre 16.000 mq, con piscine, terme, giardini e un presidio militare [il pretorio].  Abbiamo portato alla luce un mosaico con un’iscrizione in latino indicante che qui era anche l’ufficio dei responsabili della sicurezza interna”.  La cella nella quale quasi sicuramente è stato rinchiuso san Paolo, “è una stanza scavata sotto i pavimenti del palazzo.  Originariamente era una cisterna.  Poi venne trasformata in cella, quando l’amministrazione costruì l’acquedotto.  Lo provano le scritte sui muri, i nomi, alcuni caratteri in greco, qualche disegno sbiadito, proprio come si potrebbero trovare in qualsiasi prigione”.  Conferma piena, mi sembra, dei dati offertici dagli Atti.      
Un altro articolo di Lorenzo Cremonesi, nel Corriere della Sera del 16 giugno 1999, riportava quest’importante notizia, all’epoca dell’acceso  dibattito internazionale sull’autenticità della Sindone:  “Sulla Sindone tracce dei rovi usati per le corone di spine” – “Due studiosi israeliani:  impregnati nel lenzuolo pollini esistenti solo nella zona di Gerusalemme”.  Ma nemmeno si può dimenticare che un accademico israeliano, il prof. Shamarjahu Talmon, ha dimostrato che la data del 25 dicembre per la nascita di Nostro Signore deve ritenersi autentica.

3.  Gesù è nato effettivamente il 25 dicembre.  Quante volte non si è sentito dire che quel giorno era una data puramente simbolica perché la Chiesa aveva voluto cristianizzare quel giorno, celebrato dai pagani come festa del dio Sole, del “sole invitto”, dies natalis solis invicti?  Ebbene, nel 2003 il prof. Shamarjahu Talmon dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha dimostrato che la data del 25 dicembre deve ritenersi autentica.  Come abbia fatto, l’ha spiegato per il grande pubblico un articolo di Vittorio Messori, apparso sul Corriere della Sera del 9 luglio 2003, nella pagina della cultura.
Il concepimento verginale di Maria (l’Annunciazione ad opera dell’angelo Gabriele) è avvenuto il 25 marzo, secondo la tradizione sempre mantenuta nei calendari cristiani, nove mesi prima del 25 dicembre.  Sempre dal Vangelo di san Luca apprendiamo che san Giovanni Battista, il precursore del Signore, era stato concepito da Elisabetta sei mesi prima.  Il concepimento del Battista non viene celebrato dalla Liturgia cattolica mentre lo è da quella delle antiche Chiese d’Oriente, tra il 23 e il 25 settembre, appunto sei mesi prima dell’Annunciazione.  Questa la tradizione cristiana, ma come verificarla?  San Luca ci narra che Elisabetta era sposata a Zaccaria, coppia ormai anziana e senza figli.  Zaccaria, che apparteneva alla casta sacerdotale, un giorno che era di servizio nel Tempio di Gerusalemme, ebbe la visione di Gabriele che gli annunciava la prossima inaspettata paternità.  Avrebbero dovuto chiamare il figlio Giovanni e sarebbe stato “grande davanti al Signore”.  San Luca ci fornisce  un particolare di fondamentale importanza:  Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia e quando ebbe l’apparizione “officiava nel turno della sua classe”.
Da questa precisa notizia è partita l’analisi del prof. Talmon.  “Coloro che nell’antico Israele appartenevano alla casta sacerdotale erano divisi in 24 classi che, avvicendandosi in ordine immutabile, dovevano prestare servizio liturgico al Tempio per una settimana, due volte l’anno.  Sapevamo che la classe di Zaccaria, quella di Abia, era l’ottava, nell’elenco ufficiale.  Ma quando cadevano i suoi turni di servizio?  Nessuno lo sapeva.  Ebbene, utilizzando anche ricerche svolte da altri specialisti e lavorando, soprattutto, su testi rinvenuti nella biblioteca essena di Qumram, ecco che l’enigma è stato violato dal prof. Talmon”.  Infatti, prosegue Messori, “lo studioso è riuscito a precisare in che ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali.  Quella di Abia prestava servizio liturgico al tempio due volte l’anno, come le altre, e una di quelle volte era nell’ultima settimana di settembre.  Dunque, era verosimile la tradizione dei Cristiani orientali che pone tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria.  Ma questa verosimiglianza si è avvicinata alla certezza perché, stimolati dalla scoperta del prof. Talmon, gli studiosi hanno ricostruito la “filiera” di quella tradizione, giungendo alla conclusione che essa proveniva direttamente dalla Chiesa primitiva, giudeo-cristiana, di Gerusalemme.  Una memoria antichissima, quanto tenacissima, quella della Chiesa d’Oriente, come confermato in molti altri casi”.  Conclusione:  “Ecco, dunque, che ciò che sembrava mitico assume, improvvisamente, nuova verosimiglianza.  Una catena di eventi che si estende su 15 mesi:  in settembre l’annuncio a Zaccaria e il giorno dopo il concepimento di Giovanni; in marzo, sei mesi dopo l’annuncio a Maria;  in giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; sei mesi dopo, la nascita di Gesù.  Con quest’ultimo evento arriviamo giusto al 25 dicembre.  Giorno che, dunque, non fu fissato a caso”.

4.  L’attuale Gerarchia cattolica sembra la meno interessata a valorizzare le scoperte di archeologi e papirologi che confermano nei particolari la storicità del Nuovo Testamento.  Venendo da Israele il ritrovamento più recente (e a mio avviso anch’esso straordinario), ho voluto ricordare altri due importanti riscontri apportati alla storicità dei Vangeli dagli accademici di quel paese.  Non dimentico ovviamente i contributi dell’archeologia italiana, a cominciare da quello famoso dell’illustre archeologa, prof. Margherita Guarducci, che ha trovato senza ombra di dubbio le ossa del Beato Pietro proprio sotto la Basilica di S. Pietro, sul colle Vaticano[5]. Cinque anni fa, gli archeologi italiani hanno inoltre trovato il carcere romano (il Tullianum) nel quale fu rinchiuso san Pietro.  “Trovata la prigione di San Pietro”, titolava un articolo del quotidiano romano Il Tempo, del 24 giugno 2010, p. 13.  “Svolta storica nella ricerca dell’antico carcere Tullianum nel Foro Romano, il sito riconosciuto dalla tradizione cristiana medievale come il luogo di prigionia dell’apostolo Pietro.  Il carcere è stato rintracciato ieri al di sotto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, costruita nel XVI secolo.  Il ritrovamento è arrivato alla conclusione di una lunga e complessa campagna di scavi, condotta dalla Soprintendenza speciale archeologica di Roma”.
Mi sbaglierò, ma questi ritrovamenti, conseguìti grazie a procedure scientifiche di estremo rigore, che tutte oggettivamente dimostrano la verità dei fatti narrati nei Vangeli, non sembrano affatto suscitare nella Gerarchia attuale (salvo qualche ininfluente eccezione) l’interesse che indubbiamente meriterebbero ai fini della buona battaglia in difesa della fede contro un mondo sempre più ostile, nel quale prolifera una saggistica di terz’ordine, che osa addirittura negare l’esistenza storica di Cristo.  Il fatto è che il Pontificio Istituto Biblico, affidato dai Papi ai Gesuiti, sin dai tempi del tristo cardinale Agostino Bea S.I., la cui nefasta influenza nel corso del Vaticano II è ben nota, ha subìto un’ impressionante deriva in senso protestante, lasciando che l’esegesi razionalistica, detta nel suo ultimo sviluppo “storia delle forme”, del tutto chiusa al Sovrannaturale, penetrasse largamente fra gli studiosi cattolici.  Oggi, infatti, di un’esegesi cattolica in senso proprio, non si può più parlare, è stata distrutta. (E mi chiedo se anche il presente “Papa Emerito” non porti qualche passata responsabilità in proposito, quand’era cardinale).  Quando un illustre papirologo spagnolo, P. José O’Callaghan S.I., dimostrò nel 1972 che un frammento papiraceo in greco trovato nella settima grotta di Qumran (7Q5), chiusa nel 68 AD dalla confraternita ebraica che l’utilizzava (gli Esseni, non cristiani ma non ostili al Cristianesimo, in fuga dinanzi alle legioni romane che si accampavano nei paraggi, iniziando l’assedio di Gerusalemme)  era inequivocabilmente Mc 6, 52-53, nulla accadde.  Una scoperta che ha poi raggiunto la certezza assoluta, grazie alle successive ed inoppugnabili dimostrazioni di uno dei più grandi papirologi al tempo esistenti, lo scomparso prof. Carsten Peter Thiede, tedesco di religione anglicana. La scoperta dimostrava quello che l’esegesi cattolica aveva sempre sostenuto (con argomenti logici e filologici) e cioè che i Vangeli erano stati composti parecchi anni prima del 70 AD, anno della distruzione di Gerusalemme.  Si parlò di questa grande scoperta per una decina d’anni, nei media e in due importanti convegni scientifici, dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso alla metà degli anni Novanta.  Poi il silenzio.  All’epoca direttore dell’Istituto Biblico era il cardinale Carlo M. Martini S. I., e con questo si è detto tutto.
 Il fatto è che gli esegeti “cattolici”, succubi della falsa esegesi protestante (del ramo razionalista), non credendo più al Sovrannaturale, non potevano ritenere autentiche le profezie di Nostro Signore sulla distruzione di Gerusalemme.  I Vangeli dovevano esser perciò posteriori al 70 d.C.  Essi non testimoniavano fatti veramente accaduti ma l’immagine che la cosiddetta “comunità primitiva” dei credenti si era fatta del predicatore ebreo errante Gesù di Nazareth, in sostanza idealizzandolo, mitizzandolo e trasformandolo nel Figlio di Dio dei nostri Testi Sacri.  Una teoria bislacca, che faceva dei nostri Vangeli un impasto di favole, miti, in sostanza il prodotto di una gigantesca impostura; teoria frutto di menti ottenebrate dalla superbia, dalla miscredenza, dal desiderio di compiacere il mondo.  Ora, la scoperta fatta da insigni studiosi quali Padre O’Callaghan e C.P. Thiede, oltre a dimostrare ancora una volta la storicità dei Vangeli, avrebbe costretto a mandare al macero intere biblioteche di studi “esegetici”.  Tanti boriosi accademici in clergyman avrebbero dovuto riconoscere di essersi sbagliati, come scolaretti alle prime armi.  Ovvio, pertanto, che quella grande scoperta sia stata dapprima accolta in silenzio, poi osteggiata (si è arrivati agli insulti personali contro il P. O’Callaghan), infine sepolta alla svelta nell’oblìo più completo. 
Togliere queste scoperte dall’oblìo rientra, io credo, tra i nostri compiti, di fedeli che vogliono comunque battersi contro la tremenda decadenza della Gerarchia cattolica attuale e, anche in questo modo, prepararsi alla grande battaglia teologica per la difesa del dogma della fede, che si annunzia per il prossimo Sinodo della Famiglia di ottobre.

Paolo Pasqualucci



[1] Vedi la mappa dell’antica Gerusalemme allegata a:  Luc H. Grollenberg, Atlante biblico per tutti (Per meglio comprendere la Bibbia), presentaz. di mons Enrico Galbiati, Massimo, Milano, 1965.  O comunque una qualsiasi, consimile mappa.
[2][2] F. Zorell, S.I., Lexicon Graecum Novi Testamenti, Paris, Lethieulleux, 1904, rist. anast. Biblical Institute Press, Rome, 1978, su voce lithóstrotos (lιϑostrϖtoς).
[3] Vedi:  G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo (1941), rist. Mondadori, 1989, con pref. di V. Messori, pp. 660-661.
[4] Vedi l’accurata descrizione nella classica opera dell’Abate Ricciotti, op. cit., pp. 658-659.
[5] M. Guarducci, La tomba di San Pietro.  Una straordinaria vicenda, Rusconi, Milano, 19902.

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