1. Scoperto il luogo dove Ponzio Pilato si
lavò le mani. Così titolava un recente, breve articolo del Corriere della
Sera del 6 gennaio 2015, p. 28, di Francesco Battistini. Il “luogo” si trova “all’ombra della Porta
di Giaffa”, dove Ponzio Pilato, il
governatore romano (procurator), teneva la sua dimora e sede ufficiale,
il pretorio, quando si trovava a Gerusalemme. La teneva nel massiccio Palazzo di Erode,
costruito da Erode il Grande lungo le mura e incombente sulla porta della città
dalla quale si dipartiva la strada che conduceva a Giaffa[1].
A questa conclusione è giunta una squadra di archeologi israeliani ed americani
dopo ben quindici anni di accurate ricerche.
E come hanno fatto, che metodo hanno seguìto? Il Vangelo, hanno seguìto.
“Bastava
seguire le tracce del Vangelo di Giovanni”, spiega il professor Shimon Gibson
dell’Università di Charlotte, Nord Carolina, perché l’evangelista “è
chiarissimo quando descrive il Pretorio vicino a una delle porte d’ingresso
della città, con un pavimento di pietra irregolare. Non ci sono iscrizioni, ma ogni testimonianza
archeologica, storica ed evangelica porta qui”.
Secondo la tradizione, ricorda il giornalista, il Cristo era stato
mostrato alla folla urlante in un altro luogo della Città Vecchia, alla Porta della Fortezza Antonia, dalla
quale sarebbe iniziata la Via Dolorosa. La
fortezza Antonia, sulla collina più alta di Gerusalemme, costruita anch’essa da
Erode il Grande e dominante massiccia la spianata del Tempio, era all’epoca
occupata dalla guarnigione romana stanziale.
Che il luogo dove Pilato emise la condanna a
morte di Cristo (intimidito dai Sinedristi che la invocavano a gran voce
assieme ad una folla da loro aizzata), fosse davanti alla fortezza Antonia, non
risulta tuttavia esplicitamente dai Vangeli.
Le
indicazioni forniteci dal Vangelo di S. Giovanni sono le seguenti: 1.
“Intanto condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio. Era di mattino presto, ed essi [i Farisei]
non entrarono nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la
Pasqua. Uscì dunque Pilato fuori,
davanti a loro [ad eos foras, exϖ proς autouς]
e domandò: “Quale accusa portate contro quest’uomo?” etc. (Gv 18, 28-29). 2. “Da quel momento Pilato cercava di
liberarlo. Ma i Giudei gridavano
dicendo: ‘Se lo liberi, non sei amico di
Cesare; chi, infatti, si fa re, va contro Cesare’. Pilato, dunque, udite queste parole, condusse
fuori Gesù, e sedette in tribunale, nel luogo detto Litostrato, in ebraico
Gabbata. Era la Parasceve della
Pasqua, circa l’ora sesta…” (Gv 19, 12-13; corsivi miei). L’indicazione di S. Giovanni è molto
precisa. Riporta il nome allora in uso
di un luogo ben noto di Gerusalemme, in greco e in ebraico. Per gli archeologi si trattava dunque di
trovare questo Litostrato : “et
sedit pro tribunali, in loco, qui dicitur Lithóstrotos, Hebraice autem
Gabbatha” “…eiς topon legomenon Liϑostrϖton”. Un
luogo, di fronte all’allora residenza ufficiale del governatore romano (il pretorio),
caratterizzato da una pavimentazione particolare. Così lo descrive il classico Lessico greco
del Nuovo Testamento di Francisco Zorell: “lapidibus variis stratus, tessellatus” e
come sostantivo “lithostrotum, locus variis lapidibus stratus”, più o meno come
il nostro “Mosaikboden, pavé de mosaïque”.
L’uso appare in Varrone, Plinio,
due volte nell’Antico Testamento, in Epitteto.
Nomen graecum loci Gabbatha, ubi Pilatus Jesum capitis damnavit : nome greco del luogo detto Gabbatha, dove
Pilato condannò Gesù a morte”[2]. Si
tratta di un selciato di “pietre diverse” intrecciate a mosaico, anzi di
pietruzze piccole come le tessere dei mosaici (tessellae, diminutivo di tesserae,
tessere del mosaico). Il tessellatum
era un “pavimento fatto a mosaico” (vedi Dizionario Latino-Italiano,
Georges-Calonghi, sub voce). Il termine
greco è parola composta da lithos,
pietra, e strotos, participio passato del verbo strónnumi,
stendo, distendo, copro etc. (lat. sterno). Per cui:
coperto di pietra, lastricato in pietra (vedi Dizionario Greco-italiano
G. Gemoll, sub voce). Il termine non
doveva però essere solo descrittivo, nel senso di indicare qualsiasi selciato o
lastricato. Nella fattispecie indicava un selciato di tipo particolare, per
l’appunto tessellato o fatto a mosaico.
E proprio questo sono sicuri di aver trovato gli archeologi israeliani e
americani, dopo ben quindici anni di ricerche!
Finora,
gli archeologi non avevano certezza di dove si fosse svolto il processo a Gesù,
se davanti al pretorio o alla Porta della fortezza Antonia. Infatti, alcuni avevano ritenuto che “il
luogo detto Litóstrato” potesse essere davanti alla fortezza, perché il cortile di quest’ultima, riportato alla luce,
è risultato di una pavimentazione a lastroni, esprimibile, sembra, anch’essa
nell’immagine del lithostrotos, nel senso generico di lastricato[3].
Ma
tale pavimentazione non è quella di un tessellato o “fatto a mosaico”. Inoltre, “il luogo detto Litostrato” non può
esser stato (come pur si è ritenuto) un cortile lastricato, per di più
frequentato dai pagani, cioè dai soldati e funzionari romani, cosa che,
agli occhi dei Farisei, lo rendeva ritualmente impuro e intransitabile. San
Giovanni ci testimonia che tutti gli accesi e concitati scambi verbali tra
Pilato e i Farisei si svolsero dinanzi al Pretorio, con Pilato che
entrava e usciva più volte, con Gesù e senza di Lui, sino al giudizio di
condanna contro Nostro Signore, pronunciato da Pilato sempre davanti ai Farisei
e alla folla e quindi sempre davanti al pretorio, all’aperto.
Alla fine, Pilato, dopo aver tentato per ore
di salvare Gesù, udito che i Sinedristi lo accusavano perfidamente di non
essere “amico di Cesare”, perché non voleva condannare a morte questo
predicatore accusato (falsamente) da loro di essere ribelle a Cesare, cedette:
“fece condurre fuori Gesù [fuori dal pretorio, ancora una volta] e sedette in
tribunale, nel luogo detto etc.” (Gv 19, 13). Il “tribunale” (bhma, tribunal)
non era una stanza ma una pedana mobile sulla quale si poneva la sedia curule
del magistrato romano incaricato di giudicare[4]. Il “tribunale” fu dunque installato
all’esterno del pretorio, sul “selciato a mosaico”, di fronte agli accusatori e
alla folla stipata all’intorno. Disse di nuovo ai Giudei “ecco il vostro re” e
chiese di nuovo se doveva far crocifiggere il loro re, ottenendo la famosa
risposta, una vera e propria apostasia da parte di quelli che gliela
diedero: “Noi non abbiamo altro re che
Cesare!” (Gv 19, 14-16). Dopo di che “lo
diede nelle loro mani perché fosse crocifisso.
Presero dunque Gesù”, e lo condussero via (ivi, 19, 16), naturalmente
con una scorta romana, guidata da un centurione (Longino, che poi, secondo una
solida tradizione, si convertì). Il gesto di Pilato del “lavarsi le mani” per
indicare che non era egli il vero responsabile della morte di Gesù, risulta da
Mt 27, 24. (Il racconto di san Giovanni
va integrato con quello dei Sinottici, non riportando esso tutti gli episodi
del processo davanti a Pilato, ma arricchendo e completando il quadro da essi
fornito).
Questa è solo l’ultima di una serie di belle
e importanti scoperte, confermanti la verità dei fatti narrati nel Nuovo
Testamento, delle quali siamo debitori alla validissima scuola archeologica
israeliana, intesa in senso lato. Scoperte cui si è giunti, voglio
sottolinearlo, prendendo alla lettera, come punto di partenza per la
ricerca, le informazioni contenute nei Vangeli.
2. E stata trovata dagli Israeliani anche la
prigione di san Paolo a Cesarea. Nel
1997, seguendo la traccia fornita dagli Atti degli Apostoli, è stato
trovato il luogo nel quale fu tenuto prigioniero san Paolo a Cesarea, nei
ruderi del Palazzo di Erode, in “una cella sotterranea lunga sei metri e larga
tre” (articolo di Lorenzo Cremonesi, Trovata la prigione di San Paolo,
sul Corriere della Sera del 10 settembre 1997). Gli Atti ci informano che san Paolo,
perseguitato dai Giudei, svelò alle autorità romane di essere cittadino romano,
venendo pertanto preso da loro in custodia e inviato come detenuto a Cesarea,
dove venne “custodito nel pretorio di Erode”(At 23, 23-35), in attesa di esser
inviato a Roma per esser processato regolarmente, in quanto civis romanus
che si era appellato a Cesare. Il “pretorio di Erode” è stato trovato dagli
archeologi israeliani. L’articolo
riportava le dichiarazioni di Yosef Porat, capo della missione dell’Autorità
archeologica israeliana, che scavò in quei luoghi a partire dal 1992. “Allora
Cesarea contava quasi 50.000 abitanti, era diventata la vera capitale
amministrativa della provincia di “Palestina” […] Tutto fa pensare che Paolo
sia stato condotto qui. In quest’ultima
campagna di ricerche abbiamo scoperto la vastità del palazzo del
governatore. Un complesso voluto
inizialmente da re Erode nel 22 prima di Cristo, come residenza di
villeggiatura. Ma 28 anni dopo i
dirigenti romani decisero di abbandonare Gerusalemme. Il Palazzo di Cesarea venne quindi ampliato,
fino a coprire oltre 16.000 mq, con piscine, terme, giardini e un presidio
militare [il pretorio]. Abbiamo portato
alla luce un mosaico con un’iscrizione in latino indicante che qui era anche
l’ufficio dei responsabili della sicurezza interna”. La cella nella quale quasi sicuramente è
stato rinchiuso san Paolo, “è una stanza scavata sotto i pavimenti del
palazzo. Originariamente era una
cisterna. Poi venne trasformata in
cella, quando l’amministrazione costruì l’acquedotto. Lo provano le scritte sui muri, i nomi,
alcuni caratteri in greco, qualche disegno sbiadito, proprio come si potrebbero
trovare in qualsiasi prigione”. Conferma
piena, mi sembra, dei dati offertici dagli Atti.
Un
altro articolo di Lorenzo Cremonesi, nel Corriere della Sera del 16
giugno 1999, riportava quest’importante notizia, all’epoca dell’acceso dibattito internazionale sull’autenticità
della Sindone: “Sulla Sindone tracce
dei rovi usati per le corone di spine” – “Due studiosi israeliani: impregnati nel lenzuolo pollini esistenti
solo nella zona di Gerusalemme”. Ma
nemmeno si può dimenticare che un accademico israeliano, il prof. Shamarjahu
Talmon, ha dimostrato che la data del 25 dicembre per la nascita di Nostro
Signore deve ritenersi autentica.
3. Gesù è nato effettivamente il 25 dicembre. Quante volte non si è sentito dire che quel
giorno era una data puramente simbolica perché la Chiesa aveva voluto
cristianizzare quel giorno, celebrato dai pagani come festa del dio Sole, del
“sole invitto”, dies natalis solis invicti? Ebbene, nel 2003 il prof. Shamarjahu Talmon
dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha dimostrato che la data del 25
dicembre deve ritenersi autentica. Come
abbia fatto, l’ha spiegato per il grande pubblico un articolo di Vittorio
Messori, apparso sul Corriere della Sera del 9 luglio 2003, nella pagina
della cultura.
Il
concepimento verginale di Maria (l’Annunciazione ad opera dell’angelo Gabriele)
è avvenuto il 25 marzo, secondo la tradizione sempre mantenuta nei calendari
cristiani, nove mesi prima del 25 dicembre.
Sempre dal Vangelo di san Luca apprendiamo che san Giovanni Battista, il
precursore del Signore, era stato concepito da Elisabetta sei mesi prima. Il concepimento del Battista non viene
celebrato dalla Liturgia cattolica mentre lo è da quella delle antiche Chiese
d’Oriente, tra il 23 e il 25 settembre, appunto sei mesi prima
dell’Annunciazione. Questa la tradizione
cristiana, ma come verificarla? San Luca
ci narra che Elisabetta era sposata a Zaccaria, coppia ormai anziana e senza
figli. Zaccaria, che apparteneva alla casta
sacerdotale, un giorno che era di servizio nel Tempio di Gerusalemme, ebbe la
visione di Gabriele che gli annunciava la prossima inaspettata paternità. Avrebbero dovuto chiamare il figlio Giovanni
e sarebbe stato “grande davanti al Signore”.
San Luca ci fornisce un
particolare di fondamentale importanza:
Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia e quando ebbe
l’apparizione “officiava nel turno della sua classe”.
Da
questa precisa notizia è partita l’analisi del prof. Talmon. “Coloro che nell’antico Israele appartenevano
alla casta sacerdotale erano divisi in 24 classi che, avvicendandosi in ordine
immutabile, dovevano prestare servizio liturgico al Tempio per una settimana,
due volte l’anno. Sapevamo che la classe
di Zaccaria, quella di Abia, era l’ottava, nell’elenco ufficiale. Ma quando cadevano i suoi turni di
servizio? Nessuno lo sapeva. Ebbene, utilizzando anche ricerche svolte da
altri specialisti e lavorando, soprattutto, su testi rinvenuti nella biblioteca
essena di Qumram, ecco che l’enigma è stato violato dal prof. Talmon”. Infatti, prosegue Messori, “lo studioso è
riuscito a precisare in che ordine cronologico si susseguivano le 24 classi
sacerdotali. Quella di Abia prestava
servizio liturgico al tempio due volte l’anno, come le altre, e una di quelle
volte era nell’ultima settimana di settembre.
Dunque, era verosimile la tradizione dei Cristiani orientali che pone
tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria. Ma questa verosimiglianza si è avvicinata
alla certezza perché, stimolati dalla scoperta del prof. Talmon, gli studiosi
hanno ricostruito la “filiera” di quella tradizione, giungendo alla conclusione
che essa proveniva direttamente dalla Chiesa primitiva, giudeo-cristiana, di
Gerusalemme. Una memoria antichissima,
quanto tenacissima, quella della Chiesa d’Oriente, come confermato in molti
altri casi”. Conclusione: “Ecco, dunque, che ciò che sembrava mitico
assume, improvvisamente, nuova verosimiglianza.
Una catena di eventi che si estende su 15 mesi: in settembre l’annuncio a Zaccaria e il
giorno dopo il concepimento di Giovanni; in marzo, sei mesi dopo l’annuncio a
Maria; in giugno, tre mesi dopo, la
nascita di Giovanni; sei mesi dopo, la nascita di Gesù. Con quest’ultimo evento arriviamo giusto al
25 dicembre. Giorno che, dunque, non fu
fissato a caso”.
4. L’attuale Gerarchia cattolica sembra la
meno interessata a valorizzare le scoperte di archeologi e papirologi che
confermano nei particolari la storicità del Nuovo Testamento. Venendo da Israele il ritrovamento più
recente (e a mio avviso anch’esso straordinario), ho voluto ricordare altri due
importanti riscontri apportati alla storicità dei Vangeli dagli accademici di
quel paese. Non dimentico ovviamente i
contributi dell’archeologia italiana, a cominciare da quello famoso
dell’illustre archeologa, prof. Margherita Guarducci, che ha trovato senza
ombra di dubbio le ossa del Beato Pietro proprio sotto la Basilica di S. Pietro,
sul colle Vaticano[5].
Cinque anni fa, gli archeologi italiani hanno inoltre trovato il carcere romano
(il Tullianum) nel quale fu rinchiuso san Pietro. “Trovata la prigione di San Pietro”,
titolava un articolo del quotidiano romano Il Tempo, del 24 giugno 2010,
p. 13. “Svolta storica nella ricerca
dell’antico carcere Tullianum nel Foro Romano, il sito riconosciuto dalla
tradizione cristiana medievale come il luogo di prigionia dell’apostolo
Pietro. Il carcere è stato rintracciato
ieri al di sotto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami, costruita nel XVI
secolo. Il ritrovamento è arrivato alla
conclusione di una lunga e complessa campagna di scavi, condotta dalla
Soprintendenza speciale archeologica di Roma”.
Mi
sbaglierò, ma questi ritrovamenti, conseguìti grazie a procedure scientifiche
di estremo rigore, che tutte oggettivamente dimostrano la verità dei fatti
narrati nei Vangeli, non sembrano affatto suscitare nella Gerarchia attuale
(salvo qualche ininfluente eccezione) l’interesse che indubbiamente
meriterebbero ai fini della buona battaglia in difesa della fede contro
un mondo sempre più ostile, nel quale prolifera una saggistica di terz’ordine,
che osa addirittura negare l’esistenza storica di Cristo. Il fatto è che il Pontificio Istituto
Biblico, affidato dai Papi ai Gesuiti, sin dai tempi del tristo cardinale
Agostino Bea S.I., la cui nefasta influenza nel corso del Vaticano II è ben
nota, ha subìto un’ impressionante deriva in senso protestante, lasciando che l’esegesi
razionalistica, detta nel suo ultimo sviluppo “storia delle forme”, del tutto chiusa
al Sovrannaturale, penetrasse largamente fra gli studiosi cattolici. Oggi, infatti, di un’esegesi cattolica
in senso proprio, non si può più parlare, è stata distrutta. (E mi chiedo se
anche il presente “Papa Emerito” non porti qualche passata responsabilità in
proposito, quand’era cardinale). Quando
un illustre papirologo spagnolo, P. José O’Callaghan S.I., dimostrò nel 1972
che un frammento papiraceo in greco trovato nella settima grotta di Qumran
(7Q5), chiusa nel 68 AD dalla confraternita ebraica che l’utilizzava (gli
Esseni, non cristiani ma non ostili al Cristianesimo, in fuga dinanzi alle
legioni romane che si accampavano nei paraggi, iniziando l’assedio di
Gerusalemme) era inequivocabilmente
Mc 6, 52-53, nulla accadde. Una
scoperta che ha poi raggiunto la certezza assoluta, grazie alle successive ed
inoppugnabili dimostrazioni di uno dei più grandi papirologi al tempo
esistenti, lo scomparso prof. Carsten Peter Thiede, tedesco di religione
anglicana. La scoperta dimostrava quello che l’esegesi cattolica aveva sempre
sostenuto (con argomenti logici e filologici) e cioè che i Vangeli erano stati
composti parecchi anni prima del 70 AD, anno della distruzione di Gerusalemme. Si parlò di questa grande scoperta per una
decina d’anni, nei media e in due importanti convegni scientifici, dalla metà
degli anni Ottanta del secolo scorso alla metà degli anni Novanta. Poi il silenzio. All’epoca direttore dell’Istituto Biblico era
il cardinale Carlo M. Martini S. I., e con questo si è detto tutto.
Il fatto è che gli esegeti “cattolici”,
succubi della falsa esegesi protestante (del ramo razionalista), non
credendo più al Sovrannaturale, non potevano ritenere autentiche le profezie di
Nostro Signore sulla distruzione di Gerusalemme. I Vangeli dovevano esser perciò
posteriori al 70 d.C. Essi non
testimoniavano fatti veramente accaduti ma l’immagine che la cosiddetta
“comunità primitiva” dei credenti si era fatta del predicatore ebreo errante
Gesù di Nazareth, in sostanza idealizzandolo, mitizzandolo e trasformandolo nel
Figlio di Dio dei nostri Testi Sacri. Una
teoria bislacca, che faceva dei nostri Vangeli un impasto di favole, miti, in
sostanza il prodotto di una gigantesca impostura; teoria frutto di menti
ottenebrate dalla superbia, dalla miscredenza, dal desiderio di compiacere il
mondo. Ora, la scoperta fatta da insigni
studiosi quali Padre O’Callaghan e C.P. Thiede, oltre a dimostrare ancora una
volta la storicità dei Vangeli, avrebbe costretto a mandare al macero intere
biblioteche di studi “esegetici”. Tanti
boriosi accademici in clergyman avrebbero dovuto riconoscere di essersi
sbagliati, come scolaretti alle prime armi.
Ovvio, pertanto, che quella grande scoperta sia stata dapprima accolta
in silenzio, poi osteggiata (si è arrivati agli insulti personali contro il P.
O’Callaghan), infine sepolta alla svelta nell’oblìo più completo.
Togliere
queste scoperte dall’oblìo rientra, io credo, tra i nostri compiti, di fedeli
che vogliono comunque battersi contro la tremenda decadenza della Gerarchia
cattolica attuale e, anche in questo modo, prepararsi alla grande battaglia
teologica per la difesa del dogma della fede, che si annunzia per il
prossimo Sinodo della Famiglia di ottobre.
Paolo Pasqualucci
[1] Vedi la mappa dell’antica Gerusalemme allegata
a: Luc H. Grollenberg, Atlante
biblico per tutti (Per meglio comprendere la Bibbia), presentaz. di mons
Enrico Galbiati, Massimo, Milano, 1965. O
comunque una qualsiasi, consimile mappa.
[2][2] F. Zorell, S.I., Lexicon Graecum Novi
Testamenti, Paris, Lethieulleux, 1904, rist. anast. Biblical Institute
Press, Rome, 1978, su voce lithóstrotos (lιϑostrϖtoς).
[3] Vedi: G. Ricciotti, Vita di Gesù
Cristo (1941), rist. Mondadori, 1989, con pref. di V. Messori, pp. 660-661.
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