Un vecchio amico, uomo singolare che ho
sempre stimato con una punta d’invidia, una settimana prima di partire per
l’Argentina, dove avrebbe raggiunto un figlio sposato, mi chiamò volendo
confidarmi una storia della sua vita. “Non è la mia vita intera” precisò, “ma,
insomma, il lato essenziale”. E, in tal
senso, fu largo di dettagli di cui presi appunti. Desiderava che scrivessi il
seguito di esperienze che gli stava a cuore fosse trasmesso ad altri, fossero in
grado o meno di valersene.
Mi
appresto a mantenere la promessa dando voce al suo racconto, salvo alcuni
riempitivi e sviluppi imposti dalla narrazione, e confido che l’insieme
rispecchi intento e animo del caro emigrato, vedovo di fresca data.
Credo che ognuno di noi abbia avuto momenti
particolarmente felici. In genere, sono felicità della rimembranza soavemente
nostalgica: i ricordi passando al vaglio del tempo, le cattive scorie rimaste
nel vaglio si disperdono per incanto; potremmo ravvisarle, ma sono estranee alla
sostanza del ricordo, che domina rendendole innocue: scorpioni col pungiglione
incapsulato in una guaina. Si gusta il distillato lasciando il tossico
scioltamente, grazie a una spontanea alchimia. Sembra scontata, la sopraggiunta
ricompensa per il doloroso pentimento d’aver mancato un bene sommo, di cui
soltanto ora ci compenetriamo a nostro agio. Il riandare a un tempo che fu, a
una sua circostanza, a una persona, per magia ci rinvia qualcosa di purificato,
commovente e dolcissimo: purificato altresì di ragioni e di ragionamenti.
Il beato disfarsi delle ombre oscure, ci
giunge anche nel ritorno - occasionato da una lettura, da un imponderabile
raccoglimento - di vite immolate generosamente, cui ci legano luoghi, vicende e
la nostra storica vicinanza. Alcune gesta di quell‘epoca, un discorso, un
canto, offrono un particolare ingresso nel sublime. Chi non ha nell’archivio
della memoria canzoni o pezzi classici che, a un dato punto, escono fuori e
agiscono da lievito di un nostro essere in giorni lontani, nel quale filtrano,
immacolati, i sacrifici di caduti, di uccisi; e ne siamo riempiti così da
farceli rivivere? Sono musiche ricantate con delicatezza, con misura, di tanto
in tanto: attenti a che non si consumino. Oh, non si logorano, stiamone certi!
Ne potremmo abusare. Viene il dì in cui, fresche di decantazione, s’insufflano
nelle trascorse condizioni memorande, tingendole tutte della loro vena.
I posti, il rivenire su di essi, in essi, di
persona o col pensiero, completano il giro degli ingredienti evocatori. Hanno
modificato le vie, le case, gli sfondi, hanno cancellato i cortili. Quel
profluvio di nuovo, quell’estraneità rispetto ad allora - invece familiare a
vite successive e digià cara ai loro ricordi - non fa che colmare l’atmosfera
di un aureo struggimento, d’un magnifico pianto.
Quindi accade che siamo noi a cercare
l’evocazione, compiendo un pellegrinaggio o un viaggio immateriale a
ritroso. Talvolta si riesce. Di solito, l’occasione e la disposizione
involontaria hanno la parte nobile, conducono al prodigio, su quella via dove
ci muoveremmo maldestri. E gli stati d’animo felici ci sorprendono. Tuttavia la
volontà di mettersi nello stato di viverli recandosi in un paese, assumendo
un’occupazione in funzione di essi, non è poi così rara.
Da ragazzo, forse a motivo d’una congenita
aspirazione alla genuinità – non oso dire alla purezza – tanto che non riuscivo
a pronunciare una bugia, nutrii un grande amore per la campagna. Ero il nemico
dei portati del progresso, delle loro sofisticazioni. A scuola, i miei
svolgimenti dei temi si caricavano di un ecologismo ante litteram, con i più vari appigli. Diedi
inizio in tal modo, al di là dell’infanzia, alla serie dei momenti immediatamente
ispirati e magici, o delle esperienze che avrei poi gustato depurate.
In alcune vendemmie e faccende agricole cui
avevo partecipato alla cascina di lontani parenti durante le vacanze di fine
estate, nulla mi smontò, trovai conferma e alimento prezioso per attaccarmi al
mondo villico e campestre. Il senso bucolico ne usciva consolidato. Operavo una
cernita immediata delle pregiate forme e sostanze agresti, tenendone ai margini
certi animaletti, certi cattivi odori: eclissati, tramutati, polverizzati; e
degli uomini ricevevo soltanto la crosta croccante, come fa il giovane che deve
ancora imparare a riconoscere gli individui che non gli somigliano. Credo
proprio che fosse un prendere alla buona, da ragazzo, un entrare alla
garibaldina nel mestiere della zappa e dell’aratro (sino a quei giorni,
trainato dai simpatici buoi). Si appagava facilmente il mio anelito all’ambiente
naturale. Mi compiacevo delle corvée fangose e servili, come il trasporto del
letame dalla stalla nella concimaia. Agli entusiasmi dei ragazzi giungono
rimunerative le faccende ostiche e schifate.
Mio padre era assai diverso da me, era d’una
pasta più concreta, d’una grana più ruvida, e provava la mia stessa attrazione
verso i luoghi rurali, verso le colline coltivate. Senza dubbio, nel suo essere
sensibile al loro richiamo entrava la nostalgia per il paese natale. Vi era
cresciuto rampollo d’una famiglia di commercianti e proprietari di terreni.
Fatto si è che, d’altro stampo dal mio – sebbene l’affetto mi portasse a
giudicarci simili – mi dava dei punti come sognatore. Affittò un podere
nell‘Astigiano, e lì ci trasferimmo noi due soli.
Non fu un paradiso terrestre; tuttavia, per
quanto mi concerneva, non vi scomparve mai un fondo di paradiso, emerso a più
riprese nelle ore buone. In quell’aria odorata dalle stagioni, in quei lavori
sui poggi e nei clivi, tra la stalla nell’edificio rustico e la casa civile,
tra aia e fienile, piovvero contrarietà, venne giù qualche metaforica
grandinata: assorbite, scordate.
E fui gratificato di culmini, esaltazioni di
un onesto benessere, mentre ero solo o quasi solo, per intere giornate,
dall’alba al calar del sole, e le notti. Il mio genitore si trovava,
momentaneamente, in città da moglie e figlia, e vi sbrigava alcune faccende
utili soprattutto al suo bisogno di divagarsi. Nell’appartamentino periferico,
mia madre accudiva mia sorella, che proseguiva gli studi, da me terminati
l’anno prima.
Risento il motivo musicale senza parole –
non ho mai prestato orecchio alle parole delle canzoni preferite – che
m’impreziosiva lo spirito in uno di quei culmini. Ancora mi si accappona la
pelle. Era il tempo della fienagione di maggio. Un giornaliero taciturno,
emigrato in Piemonte dall’Agro Romano, conduceva il carro per i prati falciati,
punteggiati da mucchi di fieno. A mano a mano, mettevamo su il carico con i
tridenti, sotto gli sguardi bovini, pacifici anche se la coda frustava le
mosche. Era una completezza di colline ad appezzamenti, orlati da boschi, e di
crinali, uno sotto l’altro sfumato all’orizzonte, di cielo aperto, di radi fili
d’erba viva e fasci di steli appena seccati, odorosi. E v’erano compresi, per
la vita animale, i bianchi quadrupedi domestici, aggiogati al timone del
veicolo, alcuni grilli e libellule, grigi, verdi, mimetizzati, quasi vegetali.
Mirabile composizione formata dal Creato e dall’opera umana. Fu un tutto cui
non pensavo. Ero trasportato dalla musica a respirare un tutto esteso oltre lo
spazio e il tempo: un sentore d’eternità. Mi sentivo della razza di Leopardi
autore de L’infinito. Ma era una labile andata al dicibile. Chissà se
l’intellettuale cantore di Recanati provò l’indicibile che io provai? Altro
che opera d’arte, per me! Opera d’arte della suggestione che mena al di là d’uno
straordinario componimento.
Contrarietà, logorii, sono costanti di
qualsiasi situazione e condizione. Non immagino come sarebbe proseguita la mia
esistenza contadina, finalizzata a un sentire contemplativo. Di certo, non si
vive di solo pane e nemmeno di sogni. Il pane scarseggiò; la fine giunse
precoce.
Valendomi del diploma di capitano che avevo
messo da parte, navigai a bordo di una carretta, toccai oltremare le coste
esotiche americanizzate. Sedetti a una scrivania di terra ferma, avendo scelto
un’esistenza più ordinata e normale. Inseguii ambizioni di creatività, esulanti
dall’ufficio. Inseguii il grande amore, l’amore connesso a un’attrazione
incredibile, che rischia di assorbire l’esistenza intera: quel trasporto, per
intenderci, che in alcuni degenera in passione insensata. Tre volte, calzai la
rara scarpa per il mio piede; calzata a lunghi aridi intervalli colmi di
attesa. Per tre volte mi diede un’infelice
felicità.
L’amore forte, sia pure ricambiato, presume
di sé, presume di fare a meno delle morali concordanze. Per sua virtù,
presumevo di comporre un assortimento di me e dell’amata, cui sarebbe occorso
ben altro. L’innamoramento… È consueto che sia quanto mai esigente
dell’impeccabile correttezza, quanto mai delicato e soggetto a corrompersi.
Esso scopre le nostre pecche meglio nascoste, porta a galla la nostra miseria,
il nostro difetto di bellezza interiore: mancanza dell’Amore per eccellenza, che
compatisce, sopporta, è caritatevole.
Da quante lezioni, maggiormente proficue di
qualsiasi corso di psicologia, non sappiamo trarre profitto! Ci vorrebbe una
grazia eccezionale, quando non si attinge alla grazia e all’istruzione della
fede. Ed era questo il caso mio.
Alla lunga, un insegnamento lo recepii.
Peccavo di pervicacia piuttosto che di incostanza e scoraggiamento,
ciononostante mi persuasi che stavo cercando una remota combinazione, una speciale
attrattiva in un rapporto di speciale armonia: il classico ago nel pagliaio; e
chiusi definitivamente la partita, dopo l’ultimo fallimento sentimentale.
Non che, frattanto, per lustri e decenni
fossi rimasto spento dei gratissimi fuochi e tersi chiarori con i quali si
perviene al fortunato trascendimento:
riaccensioni e voli insperati, in concomitanza con ricordi d’infanzia, con
accompagnamenti musicali di film rimasti nel cuore, con visite alla strada
della dimora abitata da bambino, prendendovi insieme, una volta o due, la donna
del momento, l’amore spurio del momento, ascendendo con esso mondato.
Dovetti immaginare di pormi alla coltura delle
vaghe beatitudini. Lungi dall’essere fiori di serra, sbocci coltivati, non ne
intravedevo il controllo. La loro inafferrabilità, che richiama alla mente gli
effetti delle sedute spiritiche, dove il prodigioso sfugge e può mescolarsi
alle finzioni senza che il medium padroneggi e comprenda i termini dell’evento,
la loro sfuggevolezza doveva dissuadermi dal farvi sopra dei progetti. Lessi
alcuni autori esoterici, m’interessai alle loro teorie. Le pratiche magiche, le
ascesi, parevano riservate a predestinati, specialmente dotati per
l‘iniziazione. In definitiva, nessun metodo certo, nessuna possibilità di impossessarsene.
Quando più tardi mi sarei convertito alla
nostra religione, avrei compreso che le esoteriche elevazioni al di sopra della
natura umana, le gnostiche divinizzazioni, sono in realtà luciferine, sono
operazioni del maligno, nella stessa sfera del soprannaturale spiritico. A quel
tempo, non ero ancora in grado di sospettare delle splendide felicità senza Dio,
incluse quelle che non l’offendevano e che nondimeno Egli permetteva.
Dunque, lustri e decenni se ne erano andati
col solo vantaggio consistente di aver raggiunto l’età per avere una minima
pensione. Ne approfittai e mi congedai dall’impiego. Covava costante in me
l’antico amore cosmico, suscitato nel tempio della natura. Il buon matrimonio
che contrassi dopo le dimissioni e l’andata in quiescenza, buono come può
esserlo siffatta società di esseri difettosi e, per di più, lontani dalla
Chiesa, quel legame, da parte mia, sostanziato di normale attrazione e d’affetto,
non m’impediva di assumere un nuovo impegno in campagna.
Acquistai tre ettari di terra mezzo incolta,
mezzo coperta d’un vigneto annoso, nodoso, con al centro un pozzo, una quercia,
un casotto di mattoni e tegole all’ombra d’una quercia. Un treno preso al mattino,
un tratto in automobile sulle giravolte stradali tra le prode, tra i campi e attraverso
i borghi; quindi: sul terreno dell‘impegno, della fatica. Fatica accetta, per
condurre, per apprendere, per apportare miglioramenti e per attrarre la
felicità dei verdi anni, una felicità solitaria, da anacoreta.
Ma anacoreta non ero. La potatura,
l’abbattimento di alberi morti o dannosi, la costruzione di una passerella sul
fosso, la pala meccanica chiamata a rincalzarne gli argini affinché, gonfiato
dal nubifragio, il fosso non straripasse tra i filari bassi e, oltre ai lavori
stagionali, attraverso gli anni, le maggiori imprese: dallo scasso e l’impianto
di una vigna novella, alla costruzione della casa, furono tutte occupazioni più
che altro a compensazione dell’essere rimasto a bocca asciutta: la bocca
asciutta dello spirito. Ero cambiato; le giovanili energie sprigionantesi in
ogni direzione si erano affievolite. Eppure quei portenti che m’erano
appartenuti, non erano scomparsi a causa d’una mia sostanziale diminuzione. Io
restavo io. Ne avevo avuto la prova una volta, una volta sola.
Quella volta, usavo ancora il casotto degli
attrezzi, dove mi cambiavo, dove c’era una stufa che accendevo prima del pasto,
dove mi ricoveravo in caso di pioggia sopravvenuta.
Il pomeriggio invernale era quieto, sereno.
Oscurità, bruma e freddo sarebbero venuti tra qualche ora. Andavo e venivo
negli interfilari leggermente digradanti, presso estese ondulazioni arabescate
di viti spoglie e di pali irregolari. I fili di ferro rugginosi accompagnavano
gli ordini delle vecchie viti dai ceppi neri, somiglianti a fossili.
Affastellavo i sarmenti della potatura sparsi sul suolo asciutto e dormiente.
Avrei raccolto le fascine all’imbrunire. La avrei ammonticchiate in biche da
incendiare nel buio fitto, negli spazi tra un salice e l’altro, lungo la sponda
del fosso erbosa e strinata dal gelo.
Ora, tutto intorno era calmo, visibile,
dorato da un sole guardabile, in una sospensione senza tempo, di cui non
importava la durata. Ed io andavo con passo lento e solido, avanti e indietro,
passando sotto o vicino a un ciliegio grandioso, che stendeva i suoi rami
levigati e glabri. Cantavo e ricantavo il motivo della vecchia canzone
ascoltata alla radio venendo in macchina, trasmessa da un’emittente locale. Una
coltre immensa e trasparente si estendeva attorno, allontanando il mondo,
sospingendolo nelle sue età trascorse. Una sordina era calata sulla mia città,
sul tragitto ferroviario, sulla stazione e la cittaduccia, sulla statale che da
essa si dipartiva fiancheggiata da capannoni, sul resto di strada da percorrere,
prima e dopo il paesino col castello. Una sfocatura irreale confondeva la strada
prossima, gli intonaci scialbi di un casolare, l’ultimo asfalto e l’ultimo scialbo
battuto di cemento. Nello sconfinato isolamento sorgeva l’imperituro uscito
dall’opera umana combinata con quella della natura. Due vite, due opere, la cui
grazia superava la vicenda mortale. Ricevevo quella sorta di grazia
ultraterrena con la sottile commozione della mortalità.
Ripeto che sono idee e figure di poi,
distanti dal godimento ineffabile, distanti almeno quanto lo sono i versi del
vate dalla poesia che abbia potuto stare in seno a lui inesprimibile.
Fu in mezzo a quei filari allevati da un
oscuro piantatore, in quell’ordine dato alla vegetazione, in quel silenzio che
copriva il mondo e lo riduceva al tempo immoto, per cui il nuovo più crudo è
compreso nel vecchio, e il vecchio nell’antico, che tutto ha espiato lasciando
candide ossa. Fu lì, che ebbi l’ultima sensazione d’aver avuto il massimo dalla
vita, il dono desiderabile.
Gli amanti vivono nella trepidazione di
perdere il loro bene, o che il loro amore sfiorisca. A me non successe alcunché
di paragonabile. Il mio pomeriggio fantastico, il mio tesoro scomparve tra le
caducità, nell’inarrestabile e cangiante divenire delle albe e dei tramonti,
senza che in seguito provassi un rammarico vero e proprio.
Di lì a pochi anni, come ho anticipato,
tornai alla fede seriamente, con tutti i crismi. Imparai che felicità è
soltanto l’essere in grazia di Dio, e che questo stato, generalmente e
provvidenzialmente, non coincide con la sentita felicità, piuttosto con una
certa pace. Presumo che per la santa felicità ci voglia una grazia
supplementare, che non è da procurarsi con una precisa intenzione e tanto meno
da esigere per remunerazione.
Tuttora, mi prendono fuggevoli stati d’animo
del genere che ho provato a descrivere. Ne sono contento e, lì per lì, ne resto
un po’ sconcertato. Subito dopo, evitando di compiacermene e di volerne fare
una pratica, mi arrendo alla mano del Signore.
Ho
spedito il componimento al mio amico. Ho ricevuto la sua completa approvazione.
Ciò credo si debba al fatto che siamo più somiglianti di quanto ci sembrasse di
essere. O forse, a una certa età, per i credenti è più facile comprendersi e
collimare nei personali cammini.
Egli
mi ha scritto che sua nuora ha dato alla luce un nipotino. Abita in un
appartamento accanto all’abitazione della propria discendenza. Le gioie
domestiche esistono, certamente, ma niente sta fermo quaggiù, niente è al
riparo. Egli ringrazia il Cielo per la sicurezza che solo Lui può dare a chi
crede nella sua giustizia immutabile. E, di nuovo, siamo d’accordo.
Piero Nicola
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