Venire da un
altro mondo, da un’epoca per un verso di svolta recente, per altri versi epoca che
va incontro a una svolta successiva, offre dei vantaggi. Per esempio, quello di
poter raccontare c’era una volta:
storie attendibili per i giovani che, per quanto informati, le conoscono poco e
male. Infatti troppi nonni vogliono dimenticare e distorcono il clima della
loro verde età: fin da allora infatuati di vane speranze nel progresso,
proiettati nel bene sociale che prima o poi arriva e, anche quando non è
arrivato, persuasi di benefici comunque raggiunti, indisposti ad ammettere
d’averci rimesso lungo tale andamento.
All’aura quieta che spirò sulla mia inquieta
gioventù (quando c’erano pure cattiveria, grettezza, villania, delinquenza,
impostura, ma assai meno invasive e poco sfrontate, poco compatibili), alla
pace qua e là ombrata da brume vecchie e nuove, si univa l’accompagnamento di
musichette e strofe del bel canto italiano. Esso faceva apparire quasi nobile
un Claudio Villa: conformato al suo canto, e questo coesisteva con i ritmi
sincopati e fragorosi, ma non troppo, del rock
and roll proveniente dall’Atlantico. Carabinieri, vigili, guardie e
guardiani vegliavano di persona nei luoghi pubblici, dai parchi ai cinema. Le
turbolenze postbelliche erano svanite insieme alle macerie. In tale custodia, i
motivetti orecchiabili, sovente canticchiati, svolazzavano come rondinelle; le
arie di ampio respiro, chiare e inconfondibili, colorivano una stagione,
talvolta uscite dalla colonna sonora d’una pellicola.
Di lì a breve – ora lo considero, ma quegli
anni erano per me molto più lunghi degli attuali - seguì l’era degli urlatori e
dei cantautori già un poco impegnati,
bravi, ma che si davano arie di artisti ineffabili. Qualche anno dopo, per
fatali conseguenze, la canzone assunse un tono saccente e protestatorio,
filosofico e liberatore, non senza ambizioni di poesia inossidabile. Cantanti
maschi e femmine impersonarono, privatamente e pubblicamente, la liberatoria
sregolatezza espressa nelle frasi che modulavano sulle note.
Amore, cuore, dolcezze, amabili sciocchezze,
trastulli autoironici o dolori sentimentali, che facevano da ancelle alle
melodie, vennero scalzati e mortificati da agri denunce pacifiste e umanitarie,
nonché da amori carnali e spregiudicati. E questa esibita pretesa di cambiare
il mondo a suon di chitarre e di strumenti rompi-timpani, non ebbe più fine.
Talché, oggi più che mai, i giovani si
abbeverano alla fonte dei professionisti della musica leggera, i quali si propongono
come maestri di sapienza esistenziale e politica. Sono loro a tenere banco,
sono sempre e unicamente loro i profeti delle nuove generazioni, che al palco
del concerto attraggono folle esaltate
e sciamannate, per non dire di peggio.
Così la libera gioventù, che già nei banchi
delle aule scolastiche assimila qualcosa dai verseggiatori ermetici, ben poco
dai classici cantori, sospetti di pensiero maschilista e guerrafondaio, e che
della storia delle idee in contraddizione, quando ci si raccapezzi, può serbare
per sé ciò che le aggrada purché sia antieroico e contrario alla purezza,
questa giovanile promessa del domani strapazza i suoi affanni e cerca requie
nei piccanti luoghi comuni rimati e musicati; essa trova il suo approdo in pedestri
concezioni di trasgressione svirilizzata, mista al buonismo graveolente. Sono banchetti musicali dove ragazzi e non
più giovani si ingozzano di pietanze cucinate con salse esotiche, innaffiate
con intrugli afrodisiaci, grate alle gole molto democratiche.
Il rock, in origine a suo modo giocoso, esaltante
con effetto paragonabile alla scossa data dal flamenco, e che ancora aveva del country, si è involgarito e inasprito
sotto la minaccia del rap, della techno music, del writing (arte dei graffiti).
Esiste sì, alla televisione, chi accarezza le
orecchie di bocca buona, non diciamo con le più fini romanze o con gli
stornelli, ma con alcuni motivi gentili, d’una gentilezza demodé. E i programmatori li fanno spesso cantare e ricantare da
fanciullini ignari, da enfant-prodige
destinati a bruciarsi le ali come tante falene. Però il rinfrescamento di
canzoni apparentate alla tradizione musicale e ispessite dalla versione
contemporanea, è per procacciare il numeroso ascolto dei maturi e degli anziani
inclini alla nostalgia, d’altronde non sempre ben fondata, a stento in armonia
con il fiore del passato.
Con questi chiari di luna la canzone del
momento tocca la politica, è sostanziata di pensiero politico girato in poesia,
funzionale allo statu quo. Anche
l’erotismo neutrale, anche gli attacchi al sistema, stendono una passatoia alla
politica marciante.
Cantanti e cantautori poi, non si discutono;
né una tendenza osa opporsi a un’altra. Per soggezione dell’arte? Chissà! Autori
e interpreti fanno la loro parte come un contrappunto alla solfa della superstizione
ideologica. Essi sono venerati quali oracoli del saper vivere, per quanto siano
rozzi, patibolari nelle fisionomie, campioni del disordine, decadenti,
rammolliti o pervertiti.
Gli appassionati sostenitori di costoro nemmeno
si accorgono che, per questo, tanto varrebbe dar retta ai trattenimenti e ai
dibattiti propinati dai conduttori televisivi con condimento di ingredienti
stuzzichevoli. Invece i gabbati ragazzotti compatiscono i lassi genitori e i
nonni che, dando la loro partecipazione alla commedia delle contese d’idee e di
giudizi, o gustando spettacoli, mandano giù la trama degli slogan, del raggiro
(a torto. ritenuto dai figli estraneo alla condivisa idea di democrazia),
adagiati nelle poltrone in cui si troverà stampata la greve forma delle loro
terga.
Piero Nicola
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