giovedì 8 gennaio 2015

LE BEATE CANZONETTE (di Piero Nicola)

Venire da un altro mondo, da un’epoca per un verso di svolta recente, per altri versi epoca che va incontro a una svolta successiva, offre dei vantaggi. Per esempio, quello di poter raccontare c’era una volta: storie attendibili per i giovani che, per quanto informati, le conoscono poco e male. Infatti troppi nonni vogliono dimenticare e distorcono il clima della loro verde età: fin da allora infatuati di vane speranze nel progresso, proiettati nel bene sociale che prima o poi arriva e, anche quando non è arrivato, persuasi di benefici comunque raggiunti, indisposti ad ammettere d’averci rimesso lungo tale andamento.
  All’aura quieta che spirò sulla mia inquieta gioventù (quando c’erano pure cattiveria, grettezza, villania, delinquenza, impostura, ma assai meno invasive e poco sfrontate, poco compatibili), alla pace qua e là ombrata da brume vecchie e nuove, si univa l’accompagnamento di musichette e strofe del bel canto italiano. Esso faceva apparire quasi nobile un Claudio Villa: conformato al suo canto, e questo coesisteva con i ritmi sincopati e fragorosi, ma non troppo, del rock and roll proveniente dall’Atlantico. Carabinieri, vigili, guardie e guardiani vegliavano di persona nei luoghi pubblici, dai parchi ai cinema. Le turbolenze postbelliche erano svanite insieme alle macerie. In tale custodia, i motivetti orecchiabili, sovente canticchiati, svolazzavano come rondinelle; le arie di ampio respiro, chiare e inconfondibili, colorivano una stagione, talvolta uscite dalla colonna sonora d’una pellicola.
  Di lì a breve – ora lo considero, ma quegli anni erano per me molto più lunghi degli attuali - seguì l’era degli urlatori e dei cantautori già un poco impegnati, bravi, ma che si davano arie di artisti ineffabili. Qualche anno dopo, per fatali conseguenze, la canzone assunse un tono saccente e protestatorio, filosofico e liberatore, non senza ambizioni di poesia inossidabile. Cantanti maschi e femmine impersonarono, privatamente e pubblicamente, la liberatoria sregolatezza espressa nelle frasi che modulavano sulle note.
  Amore, cuore, dolcezze, amabili sciocchezze, trastulli autoironici o dolori sentimentali, che facevano da ancelle alle melodie, vennero scalzati e mortificati da agri denunce pacifiste e umanitarie, nonché da amori carnali e spregiudicati. E questa esibita pretesa di cambiare il mondo a suon di chitarre e di strumenti rompi-timpani, non ebbe più fine.
  Talché, oggi più che mai, i giovani si abbeverano alla fonte dei professionisti della musica leggera, i quali si propongono come maestri di sapienza esistenziale e politica. Sono loro a tenere banco, sono sempre e unicamente loro i profeti delle nuove generazioni, che al palco del concerto attraggono folle esaltate e sciamannate, per non dire di peggio. 
  Così la libera gioventù, che già nei banchi delle aule scolastiche assimila qualcosa dai verseggiatori ermetici, ben poco dai classici cantori, sospetti di pensiero maschilista e guerrafondaio, e che della storia delle idee in contraddizione, quando ci si raccapezzi, può serbare per sé ciò che le aggrada purché sia antieroico e contrario alla purezza, questa giovanile promessa del domani strapazza i suoi affanni e cerca requie nei piccanti luoghi comuni rimati e musicati; essa trova il suo approdo in pedestri concezioni di trasgressione svirilizzata, mista al buonismo graveolente. Sono banchetti musicali dove ragazzi e non più giovani si ingozzano di pietanze cucinate con salse esotiche, innaffiate con intrugli afrodisiaci, grate alle gole molto democratiche.
  Il rock, in origine a suo modo giocoso, esaltante con effetto paragonabile alla scossa data dal flamenco, e che ancora aveva del country, si è involgarito e inasprito sotto la minaccia del rap, della techno music, del writing (arte dei graffiti).
  Esiste sì, alla televisione, chi accarezza le orecchie di bocca buona, non diciamo con le più fini romanze o con gli stornelli, ma con alcuni motivi gentili, d’una gentilezza demodé. E i programmatori li fanno spesso cantare e ricantare da fanciullini ignari, da enfant-prodige destinati a bruciarsi le ali come tante falene. Però il rinfrescamento di canzoni apparentate alla tradizione musicale e ispessite dalla versione contemporanea, è per procacciare il numeroso ascolto dei maturi e degli anziani inclini alla nostalgia, d’altronde non sempre ben fondata, a stento in armonia con il fiore del passato.
  Con questi chiari di luna la canzone del momento tocca la politica, è sostanziata di pensiero politico girato in poesia, funzionale allo statu quo. Anche l’erotismo neutrale, anche gli attacchi al sistema, stendono una passatoia alla politica marciante.
  Cantanti e cantautori poi, non si discutono; né una tendenza osa opporsi a un’altra. Per soggezione dell’arte? Chissà! Autori e interpreti fanno la loro parte come un contrappunto alla solfa della superstizione ideologica. Essi sono venerati quali oracoli del saper vivere, per quanto siano rozzi, patibolari nelle fisionomie, campioni del disordine, decadenti, rammolliti o pervertiti.
  Gli appassionati sostenitori di costoro nemmeno si accorgono che, per questo, tanto varrebbe dar retta ai trattenimenti e ai dibattiti propinati dai conduttori televisivi con condimento di ingredienti stuzzichevoli. Invece i gabbati ragazzotti compatiscono i lassi genitori e i nonni che, dando la loro partecipazione alla commedia delle contese d’idee e di giudizi, o gustando spettacoli, mandano giù la trama degli slogan, del raggiro (a torto. ritenuto dai figli estraneo alla condivisa idea di democrazia), adagiati nelle poltrone in cui si troverà stampata la greve forma delle loro terga.


Piero Nicola

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