sabato 31 gennaio 2015

PLUTO E L’ONORE (di Piero Nicola)

Anche il nome del bravo cane di Topolino e i suoi fumetti coprono l’idolo infernale. Ma questo tema mi porterebbe lontano.
  Gli antichi veneravano molti dei, buoni e cattivi, uno per ogni problema vitale, certuni propizi ai bisognosi in diverse occorrenze. Ogni temperamento o mestiere aveva un simulacro a cui votarsi. I romani erigevano un’edicola ai penati, protettori del focolare domestico. E chi più ne ha, più ne metta.
  Persino quelli che la società castigava come malfattori, sacrificavano a un loro nume tutelare. I ladri potevano affidarsi a Mercurio; le meretrici avevano dove consacrarsi e mettere la loro professione al riparo dal pubblico ludibrio e dalle ire delle donne per bene.
  Un tempio ospitò tutte le divinità, piccole e grandi, dalle discutibili e particolari, a quelle patrie o universali, cui recavano il loro omaggio i magistrati e coloro che davano lustro alla nazione.
  Una religione così multiforme e anche intimamente contrastata non aveva fibra per durare; e non durò. Fu rovesciata da un Dio. Un solo tempio e una sola legge regolarono l’esistenza comune da cima a fondo. I suoi sacerdoti e paladini vinsero per lunghi secoli quanti volevano portare cambiamenti. Dopo innumerevoli traversie, l’empietà riuscì a infliggere alla Religione colpi durissimi. Finché gli adoratori dei godimenti terreni sono pervenuti a piegarla ai loro voleri.
  Ma il vittorioso non è mai sazio, specie quando ciba e carezza i suoi sensi grevi. Del resto, non si fa a meno di credere e di sperare; occorre sollevarsi da sazietà e fallimenti, che seguono a ogni conquista. Senza contare i denutriti e quelli che stentano a seguire l’andamento creando fastidi.
  L’essersi aggrappati al benessere non ha riportato le genti al paganesimo vero e proprio, politeista. La storia si ripete, però con varianti. La passione per un essere e l’averlo per sé, l’ambizione di raggiungere un traguardo, di primeggiare, e il riuscirvi eventuale, il procurarsi le ebbrezze dionisiache, le loro evasioni, essendo tutte imprese e soluzioni che non bastano a se stesse, ed essendo ormai morti gli dei o la fede in essi, si è riposta la fede nello strumento che procura ogni cosa: il Denaro. Anche gli ultimi credenti, quando non mantengono fattucchiere e santoni, praticano la larva del vecchio culto  per cura psicologica e per scaramanzia.
  Esaurita la vena del superstizioso fidare nelle potenze ultraterrene che rendono perfetti i desideri e i sollazzi, che rendono felice la loro esperienza, almeno in un vario e ininterrotto seguito di grate consumazioni, i contemporanei si sono affidati al potere danaroso con cui – essi ritengono – sarebbero abili a darsi la felicità col carpe diem, cui segue il Nulla a cui è inutile pensare. Se non fosse così, perché l’aspirazione a diventar ricchi, o maggiormente agiati, manifestata dalle lotterie e dal boom dei giochi d’azzardo?
  Si è dunque rimasti nel monoteismo: Pluto è il solo nume credibile. Egli si materializza nelle banconote, nelle monete sonanti. Molti sacrificano se stessi per averlo, molti confidano nel fato che lo distribuisce, e portano l’obolo all’altare del Gioco. La vista dell’abbondanza di Pluto attira al suo possessore bellezze e profferte. Scompare il fatto che nella libera concorrenza si mettono da parte gli scrupoli; scompare la virtù che ripaga, riposta nella disciplina della vita dura. Chi ricorda ormai il vecchio dio dalla cornucopia pendente, accecato da Zeus, nella commedia dello scettico Aristofane? O il mostro dalla “voce chioccia” incontrato da Dante sulla soglia del quarto cerchio infernale degli avari? Non di certo Benigni, che chiosa il Sommo Poeta a modo suo.
  Guadagnare, accumulare proventi rassicura, fortifica, alza il morale. E dopo questa messe opima? Bisogna impiegare i soldi, difendere il capitale. Qualcuno non si preoccupa, va avanti, investe, si ingrandisce, fiuta e inizia nuove attività. Non è però immune da scivoloni. Ad ogni modo, resta chiuso nel suo ciclo. E chi sta digiuno e supplisce con voli immateriali è un incompreso. La scala per salire alle altezze che depurano e ricompensano, alle letizie che non si comprano, è visto in un buio recesso; quando s’intravede la Scala santa, essa assomiglia a un calvario ingrato.
  I ministri e i singoli minuti parlano inutilmente di lavoro, di occupazione, di libertà acquistata con la produzione e i consumi, di tenore di vita che procura la dignità e le egregie realizzazioni delle proprie attitudini. Chiacchiere. Tutta l’economia è foggiata per il conseguimento dei sollievi mitologici ottenuti con la bacchetta magica di Pluto. Ognuno non dubita di saperla adoperare facendo sì che le sue brame approdino alla felicità.
  Essere o avere? Questi corni filosofici, che qualcuno osava ancora agitare oziosamente alcuni decenni addietro, sono svaniti nel culto unanime, disincantato. Avere denaro per gioire. E le delizie effimere, intossicanti, ma avvincenti, che col denaro si afferrerebbero, si distillerebbero e consoliderebbero, vanno in una alterna e complessiva consumazione, vanno in fumo e sterile putredine. Poiché dipendono dal moderno Pluto, esse ne assumono la qualità. Il suo fedele che non riceve la grazia da lui e spera e dispera, magari si compra la dose che lo manda nel paradiso artificiale da cui esce più malconcio di prima; chi invece ottiene la grazia, si rammarica di non averne abbastanza e anela ancora. “Quale gioia resiste con scarsità di pecunia?” il popolo pensa e lì s’infogna. “Senza una congrua entrata, non c’è scampo”. Lo scampo dell’evanescente bene che si compera e si riprende al mercato.
  La vista più ampia della soggezione a Pluto, l’abbiamo avuta con la nostra resa alla legge di Bruxelles: la potestà senza Dio.
  Un capo del governo vendette l’onore e il sangue della Patria in cambio di affari che avrebbero rinsanguato il nostro erario, e di qualche altro pur desiderabile giovamento. Egli negoziò quello che non è negoziabile: una dote spirituale impagabile, come la verginità o la fede dei padri. 
  Non vale la pena di andare in cerca delle nostre colpe e degli errori, per i quali egli stracciò d’un sol tratto una veste ritessuta e consacrata da sudore operaio e sacrificio di soldati su un lembo d’Africa, ormai da tempo restituito a coloro i quali lo possedettero logoro e mencio, in mano ai turchi.
  Qualsiasi azione nazionale – rammentiamolo - contiene nei e tacche, dev’essere valutata nel suo insieme; col trascorrere del tempo il suo prodotto può mutare. Risalendo nel tempo, la Libia fu romana e cristiana, la Palestina fu bizantina e cristiana. Gli ebrei risalirono ai secoli avanti Cristo per stabilire il loro diritto ad avere uno stato in Palestina. Inoltre le conquiste di terre infedeli in nome della civiltà cattolica ebbero, e conserverebbero, una giustificazione superiore, perché l’opera di evangelizzazione è dovuta, e anche chi non lo ammetta, dovrebbe riconoscere il merito di portare la legge naturale nelle contrade che la vilipendono. L’ONU non si attribuisce forse il dovere di ristabilire ovunque i suoi diritti umani? Ne convengono i progressisti, che propugnano l’instaurazione anche forzata di quei presunti diritti nei luoghi in cui alcuni di essi sono rifiutati.
  Non basta. Ministri italiani che sostennero l’intervento della Nato nel Kosovo, provincia serba, sono oggi ritenuti degnissimi di ricoprire le cariche più alte della Repubblica. Ma il diritto all’autodeterminazione delle genti, che si riappropriano delle loro terre, è oggi dagli stessi ministri negato alla maggioranza di etnia russa che vive nelle province dell’Ucraina.
  La libica farina del diavolo è pure andata in crusca. Dopo aver venduto a Gheddafi la patria dignità, si è venduto il patto stretto col lui al suo nemico, raccogliendo un pugno di polvere.
  Gli italiani hanno assistito quasi indifferenti alla cacciata dell’onore nella pattumiera. Tutto ciò per vile interesse preposto all’interesse superiore. Ai sinceri riluttanti di fronte all’alienazione ideale, è toccato l’appellativo di retrogradi. E’ stato l’ultimo atto di un crescendo cominciato con l’abbandono del proprio posto e del campo di battaglia attuato dal sovrano fuggiasco e dai suoi generali, subito dopo la revoca d’una alleanza in guerra con una resa nascosta e unilaterale, cui seguì subito l’alleanza col campo avverso. Di seguito, vennero i trattati di pace vituperosi, le menzogne ufficiali sulla storia appena trascorsa e l’avvilimento della nostra sovranità.
  L’onore non è soggetto al lucro e alla convenienza politica, nemmeno alla preservazione della vita. Esso ne è il lievito soave, è un filo d’oro nella corda che sostenta l’esistenza. La corda, snervata, allentata, cede all’inerzia del suo composto infermo, alla discesa nel deterioramento. L’oblio dell’onore forma un sepolcro orribile, lugubre affatto. L’onore trattiene a sé le sue caste sorelle, le purità bistrattate, derise fonti d’ogni bene. La chiusura sul loro splendore è vendicata dall’infinita emanazione della morte.


Piero Nicola

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