Anche il nome
del bravo cane di Topolino e i suoi fumetti coprono l’idolo infernale. Ma
questo tema mi porterebbe lontano.
Gli antichi veneravano molti dei, buoni e
cattivi, uno per ogni problema vitale, certuni propizi ai bisognosi in diverse
occorrenze. Ogni temperamento o mestiere aveva un simulacro a cui votarsi. I
romani erigevano un’edicola ai penati, protettori del focolare domestico. E chi
più ne ha, più ne metta.
Persino quelli che la società castigava come
malfattori, sacrificavano a un loro nume tutelare. I ladri potevano affidarsi a
Mercurio; le meretrici avevano dove consacrarsi e mettere la loro professione
al riparo dal pubblico ludibrio e dalle ire delle donne per bene.
Un tempio ospitò tutte le divinità, piccole e
grandi, dalle discutibili e particolari, a quelle patrie o universali, cui
recavano il loro omaggio i magistrati e coloro che davano lustro alla nazione.
Una religione così multiforme e anche
intimamente contrastata non aveva fibra per durare; e non durò. Fu rovesciata
da un Dio. Un solo tempio e una sola legge regolarono l’esistenza comune da
cima a fondo. I suoi sacerdoti e paladini vinsero per lunghi secoli quanti
volevano portare cambiamenti. Dopo innumerevoli traversie, l’empietà riuscì a
infliggere alla Religione colpi durissimi. Finché gli adoratori dei godimenti
terreni sono pervenuti a piegarla ai loro voleri.
Ma il vittorioso non è mai sazio, specie
quando ciba e carezza i suoi sensi grevi. Del resto, non si fa a meno di
credere e di sperare; occorre sollevarsi da sazietà e fallimenti, che seguono a
ogni conquista. Senza contare i denutriti
e quelli che stentano a seguire l’andamento creando fastidi.
L’essersi aggrappati al benessere non ha
riportato le genti al paganesimo vero e proprio, politeista. La storia si
ripete, però con varianti. La passione per un essere e l’averlo per sé,
l’ambizione di raggiungere un traguardo, di primeggiare, e il riuscirvi
eventuale, il procurarsi le ebbrezze dionisiache, le loro evasioni, essendo
tutte imprese e soluzioni che non bastano a se stesse, ed essendo ormai morti
gli dei o la fede in essi, si è riposta la fede nello strumento che procura
ogni cosa: il Denaro. Anche gli ultimi credenti, quando non mantengono
fattucchiere e santoni, praticano la larva del vecchio culto per cura psicologica e per scaramanzia.
Esaurita la vena del superstizioso fidare
nelle potenze ultraterrene che rendono perfetti i desideri e i sollazzi, che
rendono felice la loro esperienza, almeno in un vario e ininterrotto seguito di
grate consumazioni, i contemporanei si sono affidati al potere danaroso con cui
– essi ritengono – sarebbero abili a darsi la felicità col carpe diem, cui segue il Nulla a cui è inutile pensare. Se non
fosse così, perché l’aspirazione a diventar ricchi, o maggiormente agiati,
manifestata dalle lotterie e dal boom dei giochi d’azzardo?
Si è dunque rimasti nel monoteismo: Pluto è
il solo nume credibile. Egli si materializza nelle banconote, nelle monete
sonanti. Molti sacrificano se stessi per averlo, molti confidano nel fato che
lo distribuisce, e portano l’obolo all’altare del Gioco. La vista
dell’abbondanza di Pluto attira al suo possessore bellezze e profferte. Scompare
il fatto che nella libera concorrenza si mettono da parte gli scrupoli;
scompare la virtù che ripaga, riposta nella disciplina della vita dura. Chi
ricorda ormai il vecchio dio dalla cornucopia pendente, accecato da Zeus, nella
commedia dello scettico Aristofane? O il mostro dalla “voce chioccia”
incontrato da Dante sulla soglia del quarto cerchio infernale degli avari? Non
di certo Benigni, che chiosa il Sommo Poeta a modo suo.
Guadagnare, accumulare proventi rassicura,
fortifica, alza il morale. E dopo questa messe opima? Bisogna impiegare i
soldi, difendere il capitale. Qualcuno non si preoccupa, va avanti, investe, si
ingrandisce, fiuta e inizia nuove attività. Non è però immune da scivoloni. Ad
ogni modo, resta chiuso nel suo ciclo. E chi sta digiuno e supplisce con voli
immateriali è un incompreso. La scala per salire alle altezze che depurano e
ricompensano, alle letizie che non si comprano, è visto in un buio recesso;
quando s’intravede la Scala santa, essa assomiglia a un calvario ingrato.
I ministri e i singoli minuti parlano
inutilmente di lavoro, di occupazione, di libertà acquistata con la produzione
e i consumi, di tenore di vita che procura la dignità e le egregie
realizzazioni delle proprie attitudini. Chiacchiere. Tutta l’economia è
foggiata per il conseguimento dei sollievi mitologici ottenuti con la bacchetta
magica di Pluto. Ognuno non dubita di saperla adoperare facendo sì che le sue
brame approdino alla felicità.
Essere o avere? Questi corni filosofici, che
qualcuno osava ancora agitare oziosamente alcuni decenni addietro, sono svaniti
nel culto unanime, disincantato. Avere denaro per gioire. E le delizie
effimere, intossicanti, ma avvincenti, che col denaro si afferrerebbero, si
distillerebbero e consoliderebbero, vanno in una alterna e complessiva
consumazione, vanno in fumo e sterile putredine. Poiché dipendono dal moderno
Pluto, esse ne assumono la qualità. Il suo fedele che non riceve la grazia da
lui e spera e dispera, magari si compra la dose che lo manda nel paradiso
artificiale da cui esce più malconcio di prima; chi invece ottiene la grazia,
si rammarica di non averne abbastanza e anela ancora. “Quale gioia resiste con
scarsità di pecunia?” il popolo pensa e lì s’infogna. “Senza una congrua
entrata, non c’è scampo”. Lo scampo dell’evanescente bene che si compera e si
riprende al mercato.
La vista più ampia della soggezione a Pluto,
l’abbiamo avuta con la nostra resa alla legge di Bruxelles: la potestà senza
Dio.
Un capo del governo vendette l’onore e il
sangue della Patria in cambio di affari che avrebbero rinsanguato il nostro
erario, e di qualche altro pur desiderabile giovamento. Egli negoziò quello che
non è negoziabile: una dote spirituale impagabile, come la verginità o la fede
dei padri.
Non vale la pena di andare in cerca delle
nostre colpe e degli errori, per i quali egli stracciò d’un sol tratto una
veste ritessuta e consacrata da sudore operaio e sacrificio di soldati su un
lembo d’Africa, ormai da tempo restituito a coloro i quali lo possedettero
logoro e mencio, in mano ai turchi.
Qualsiasi azione nazionale – rammentiamolo -
contiene nei e tacche, dev’essere valutata nel suo insieme; col trascorrere del
tempo il suo prodotto può mutare. Risalendo nel tempo, la Libia fu romana e
cristiana, la Palestina fu bizantina e cristiana. Gli ebrei risalirono ai
secoli avanti Cristo per stabilire il loro diritto ad avere uno stato in
Palestina. Inoltre le conquiste di terre infedeli in nome della civiltà
cattolica ebbero, e conserverebbero, una giustificazione superiore, perché
l’opera di evangelizzazione è dovuta, e anche chi non lo ammetta, dovrebbe
riconoscere il merito di portare la legge naturale nelle contrade che la
vilipendono. L’ONU non si attribuisce forse il dovere di ristabilire ovunque i
suoi diritti umani? Ne convengono i progressisti, che
propugnano l’instaurazione anche forzata di quei presunti diritti nei luoghi in cui alcuni di essi sono rifiutati.
Non basta. Ministri italiani che sostennero
l’intervento della Nato nel Kosovo, provincia serba, sono oggi ritenuti
degnissimi di ricoprire le cariche più alte della Repubblica. Ma il diritto
all’autodeterminazione delle genti, che si riappropriano delle loro terre, è
oggi dagli stessi ministri negato alla maggioranza di etnia russa che vive nelle
province dell’Ucraina.
La
libica farina del diavolo è pure andata in crusca. Dopo aver venduto a Gheddafi
la patria dignità, si è venduto il patto stretto col lui al suo nemico,
raccogliendo un pugno di polvere.
Gli italiani hanno assistito quasi
indifferenti alla cacciata dell’onore nella pattumiera. Tutto ciò per vile interesse
preposto all’interesse superiore. Ai sinceri riluttanti di fronte
all’alienazione ideale, è toccato l’appellativo di retrogradi. E’ stato
l’ultimo atto di un crescendo cominciato con l’abbandono del proprio posto e
del campo di battaglia attuato dal sovrano fuggiasco e dai suoi generali,
subito dopo la revoca d’una alleanza in guerra con una resa nascosta e unilaterale,
cui seguì subito l’alleanza col campo avverso. Di seguito, vennero i trattati
di pace vituperosi, le menzogne ufficiali sulla storia appena trascorsa e
l’avvilimento della nostra sovranità.
L’onore non è soggetto al lucro e alla
convenienza politica, nemmeno alla preservazione della vita. Esso ne è il
lievito soave, è un filo d’oro nella corda che sostenta l’esistenza. La corda,
snervata, allentata, cede all’inerzia del suo composto infermo, alla discesa
nel deterioramento. L’oblio dell’onore forma un sepolcro orribile, lugubre
affatto. L’onore trattiene a sé le sue caste sorelle, le purità bistrattate, derise
fonti d’ogni bene. La chiusura sul loro splendore è vendicata dall’infinita
emanazione della morte.
Piero Nicola
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