mercoledì 21 gennaio 2015

PILLOLE : Lavano il capo all’asino (di Piero Nicola)

  Nei rapporti con gli erranti a tutto tondo, pervicaci e basta, con la palla al piede, occupati a ripiegare nella mota la cima e le fronde dell’albero della vita, si dovrebbe assumere un partito e uno solo:  lasciarli soli in compagnia dei loro colleghi. Tempo e energie vanno più in là dei mezzi materiali, ma ne abbiamo una dotazione esauribile, bisogna economizzarli e impiegarli in una carità maggiormente rimunerativa. Chi ne ha da spendere tanto da non lasciare nella loro ingessatura gli stessi incorreggibili, risoluti credenti nel dogma del dialogo, che si consegnano agli sfruttatori del serioso blabla, i quali in esso avviluppano per bene il volonteroso?
  I più ricchi di spirito, di ore libere, convenientemente forniti di avvedutezza si asterrebbero dal dare scandalo e dallo scombuiare gli spettatori o un altro pubblico, recandosi a un convegno in cui stessero a faccia a faccia con gente malamente incaponita, irrecuperabile nonostante la sua ipocrita disponibilità di confrontarsi.
  Da qui, il mio incredulo dispiacere per quei rari che, pur ancora intenzionati a drizzare la schiena e a tenere alta la fronte, si protendono a lavare la testa dell’asino, e soffiano nel piffero incantatore affinché i vermi, che si voltolano voluttuosi nella putredine, alzino il capolino mettendo ali di farfalla.
  Non mettete le vostre perle davanti ai porci, ci ha avvertito Nostro Signore: non per superbia e per sdegno, ma per prudenza.


Vecchi tempi e vecchi testimoni
  Ho avuto modo di mostrare la denigrazione che ricopre i vecchi tempi venati di nostra tradizione, di storia patria. All’ingratitudine si sommano le memorie dei sopravvissuti. Quali rimpianti si dovrebbero avere, se anch’essi ricordano le disgraziate condizioni della loro giovinezza e le successive graduali riparazioni, pur dovendo ammettere qualche scompenso sorto negli ultimi decenni? Dov’è la caduta dalle nuvole di qualcuno che stenti a credere loro? Quale disapprovazione fuori dal coro consenziente?
  Fin dal tempo di guerra, per vari motivi spesso inconfessabili, gli italiani hanno accettato che si spandesse sterco sulle loro fulgide ricchezze, hanno dato una mano a oscurare le glorie e a gonfiare le proprie miserie, intanto che un maglio era, e resta, autorizzato ad abbattersi su ogni spuntare di limpida favella.
  Perciò metto in guardia i bene intenzionati ad apprendere il vero sulla nostra recente origine che si sta allontanando: non si rivolgano ai vecchi. Vorrei prevenire i ricercatori - sospinti dall’insoddisfazione a interrogare la loro provenienza - che i nonni hanno subìto il lavaggio del cervello e che non gli diano credito, qualora intendano considerare uguali le testimonianze di sincero aspetto e assegnare la validità alle più numerose. Gli stessi preti canuti militano fra i modernisti e i refrattari. Il più degli anziani, come il più di tutti, rifugge dal deporre il filo delle sue attese e dal riconoscere le sue ingenti perdite. Un filo mendace, giacché presto si è appesantito di benessere corporeo e di sicurezze pecuniarie o monetizzabili. Essi non ammettono d’essersi sbagliati, anche perché la perdita include il sacrale esaurimento e, se guardassero al cielo trascorso, si troverebbero carichi di peccati, senza sapere a che cosa aggrapparsi, da che parte rifarsi. Per sedare la voce interiore veridica e spietata, molti l’hanno data ad intendere a se stessi. A furia di sentire care frottole ci credono fermamente, sono convinti di ciò che dicono. Da loro non si cava proprio il ragno dal buco.
  Gli scettici della storiografia ufficiale e concorde, presentata al popolo, non vadano a cercarla dai testimoni incensurati settantenni, e nemmeno dagli ottantenni e dai novantenni, la cui memoria si è fatta uno straccio lacero, bucato, inservibile. Pochi di loro si salvano.

L’oclocrazia
  L’inganno degli inganni uscito dalla matrice dell’immemore modernità è l’evoluzione. Stroncata l’evoluzione, il castello di carta pesta in cui essa inietta aria compressa e rifritta si affloscia. Andando a catafascio la magnifica proiezione, la cosa proiettata si sgonfia in una spoglia scomposta, conflittuale e squallida. L’oggetto di questo progresso ha in sé la falsità della sua facile determinazione. Che altro vuole il progressismo se non una immeritata, eretica salvezza?
  La costruzione politica ha uno scheletro morale. Se l’uomo morale sta ritto e può resistere nel tempo, lo Stato deve star su con la medesima ossatura. La prove della vita saggiano la robustezza o la fragilità dell’individuo. Può sembrare che un cattivo vigoroso goda d’una buona salute e sorte sino al trapasso in età veneranda. Quando ciò avvenga, niente rimedia il male da lui prodotto, e la conseguenza del male è sempre debolezza. Un cattivo organismo comunitario, che racchiude tutti gli esseri, se regge agli accidenti che lo colpiscono, non solo nuoce come un castigo alle sue anime: presto o tardi cede e va in sfacelo, secondo natura e secondo giustizia.  
  Rechiamoci in Grecia, nelle polis fabbricate con i corpi dell’umana aggregazione per la sussistenza di ciascuno. Si succedettero congegni che fecero il loro tempo dopo il tempo dei re, quando con semplicità facevano giustizia e provvedevano, bene o male, un Salomone o un Saul, un Agamennone o un Tarquinio. Fu poi aristocrazia, oligarchia, democrazia, tirannia. Sempre nella sfera occidentale, si levò Roma repubblicana. Quindi gli imperatori. Ritornarono monarchi e vassalli. Quindi, signori d’ogni sorta, accanto ai regni e a nuovi imperi. Tornò la democrazia. Questa volta altezzosa e dimentica della sua parabola, forte della sua ideale proiezione, di questa promessa e del progresso materiale concomitante.
  I sacerdoti della ferma certezza ebbero la peggio, non poterono sconfiggere l’albagia repubblicana trafiggendone il tallone d’Achille, il piè veloce, il divenire che ne formava l’anima di ferro, in un’età del ferro rugginoso. Statuti liberali, parlamenti, popolo re da orientare e trascinare. La forza del miraggio non era superficiale: dentro aveva Darwin, c’erano gli evoluzionisti, gli scientisti, si aggiunsero i modernisti, le conquiste del benessere. Tutti protesi in avanti a travolgere il sacro Vertice, l’ordine: verso il governo della bestia inselvatichita, verso il precipizio. E la struttura statale e multistatale, intimamente disordinata, sta facendo crack. Ma fu tanta la fiducia, la foga, la magia, la follia, che l’incantesimo sparato dura ancora.
  E pensare che qualcuno capace di far luce sugli inizi, sull’esperimento ellenico, sulla sapienza ellenica, sul tutta la vicenda storica, sarebbe bastato a svelare l’inganno! La filosofia classica ne era venuta a capo dichiarando che il regime monarchico era stato il più soddisfacente, ma che, essendo impossibile ricuperarlo presso i cittadini viziati, occorreva una aristocrazia dello spirito, perché l’usata democrazia si tramutava ben presto in oclocrazia, e questa in tirannia.
  Ancora mezzo secolo fa queste nozioni di cultura umanistica non erano per pochi iniziati, ma passavano tranquillamente tra professori e studenti dei licei. Si dirà che non è servito; ed è pur vero.


Piero Nicola

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