Clemente Rebora, nato a Milano nel 1885 da
genitori di origine genovese, fu geniale e singolare protagonista di un cammino
indirizzato alla liberazione dai soffocanti nodi stretti dal laicismo europeo
intorno alla naturale aspirazione alla verità cristiana.
Il
padre, ruggente personaggio, quasi in uscita dal giornalino di Giamburrasca, fu
massone, garibaldino militante a Mentana, seguace del marmoreo agitatore che giammai
sorrise, e fervente ammiratore di Carlo Cattaneo. Tollerò che il figlio
fosse battezzato segretamente, ma impedì che ne avesse contezza e lo educò al
culto laico del Risorgimento secondo il Mazzini e il Garibaldi.
Se non
che Clemente, non refrattario alla grondante/avvolgente suggestione mazziniana
ma insensibile all'esoterismo massonico, intraprese una personale vie di
ricerca, che lo indirizzò alla frequentazione dei cenacoli nei quali era
variamente e passionalmente attiva l'insofferenza per i valori professati
e spacciati dalla borghesia laica e illuminata.
Il
potere culturale d'inizio secolo, arcigno nei confronti delle iniziative della
Chiesa cattolica, aveva permesso e in qualche modo sostenuto l'impianto di
alcune reti di sicurezza, le scolastiche intitolate allo spiritualismo
indo-cino-nipponico, le congreghe religiose inquinate dal modernismo, le
accademie incandescenti, i circoli poetici a sfondo sincretista.
Tali occasioni
erano finalizzate alla distrazione dell'inquietudine giovanile e alla sicurezza
delle granitiche illusioni squillanti in mezzo al frastuono prodotto dalle
chiacchiere cosmopolitiche della belle époque.
In
altre parole: la tolleranza del potere nei confronti della scapigliatura
discendeva dall'intenzione di scongiurare l'eventualità che l'indiscrezione e
l'irrequietezza delle nuove generazioni si riversassero nella detestata e
avversata fede cattolica e nell'autentica coscienza patriottica.
Se non
che Rebora (e con lui le più vivaci intelligenti d'inizio secolo, i vociani, ad
esempoio) poteva essere occasionalmente attratto non trattenuto e non sedotto
dalle manfrine spirituali, messe in scena per stornare l'invincibile disagio
suscitato negli italiani malamente
unificati e tristemente amministrati nella lontananza dalla loro autentica
tradizione.
Nel suo
tormentato vagabondaggio intellettuale Rebora incontra i modernisti attivi nel
circolo fondato da Tommaso Gallarati Scotti, approfondisce l'opera dell'eretico
George Tyrrel, e stringe amicizia con Giovanni Boine, prossimo all'uscita
dall'errore modernista.
Dai
modernisti è informato sull'opera di Etienne Boutroux (1854-1921), il filosofo
che aveva dimostrato l'irriducibilità dell'anima umana alla vita animale e contestato
il positivismo riproponendo la dialettica di Blaise Pascal, contemplante lo
spirito di finezza quale argine allo spirito geometrico di Cartesio e alla
filosofia profana discendente dalla metafisica cartesiana.
Mentre
Boine, avvertito e convinto dall'enciclica Pascendi, avanzava sicuro
sulla via della ritrovata fede
cattolica, Rebora perseverava nella estenuante circolazione intorno alle
oscurità predicate dagli spiritualismi in giubilo nella belle époque, gli
autori che in qualche oscuro e misterioso modo hanno accompagnato il suo
cammino di conversione.
Pertanto
è impossibile dissentire dal giudizio di un critico della levatura di Oreste
Macrì, il quale audacemente sostiene che "non è mai esistita una fase
religiosa reboriana non cristiana e neppure precristiana, come d'un Rebora
mazziniano, buddista, zen, Karma yoga, teosofo, gandhiano, tagoriano,
sociniano, ecc. per sé. L'iter verso la conversione dogmatico-teologica,
propriamente cattolica, si operato naturaliter dall'embrione alla bara e coscienzialmente.
Qualunque elemento apparentemente alieno - sincretistico,
gnostico-materialista, relativamente eretico - ha ricevuto nella sua persona ed
opera qualità, valori cristiani infusi nel testo poetico, sempre in riferimento
a un unico centro teologico e pratico di base: Cristo e l'Evangelo" [1].
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Nel
1910 Rebora si era intanto laureato discutendo con Gioacchino Volpe una tesi
sul pensiero giuridico di Gian Domenico Romagnosi.
Nei
mesi che preparano il repentino rovesciamento dell'ottimismo positivo nell'inutile
strage, Rebora conosce e si innamora di Lydia Natus, una ballerina russa di
origine ebraica, donna in possesso di uno straordinario e fascinoso corredo
culturale.
Lydia,
la lucciola, gli insegna la lingua russa, gli fa conoscere Dostoevskij e
Solov'ev e lo aiuta a tradurre Andreev, Tolstoj e Gogol.
Rebora non subisce il
fascino della trionfante filosofia neo-hegeliana ma condivide la dura critica
al positivismo sviluppata, nella Rivolta ideale da Alfredo Oriani, un
autore del quale stima il riconoscimento della missione storica del popolo
italiano.
Oriani
è per Rebora la prima via d'uscita dalle fantasticherie mazziniane e quasi una
introduzione al patriottismo del Beato Antonio Rosmini. L'autorevole Giuseppe
Beschin cita al proposito uno scritto in cui Rebora afferma che "A Roma
guardano o gridano dall'invisibile confine le anime, che temono e sperano; il
mondo ha ancora nell'Urbe l'unità spirituale. ... le circostanze assegnano
all'Italia mediterranea una funzione ed
un primato: non masi fummo italiani come ora. Bisogna guardare il alto e
lontano" -
Allo scoppio della
Grande Guerra - "il tremendo festino di Moloch" - Rebora è
chiamato alle armi e inviato al fronte, prima con il grado di sergente poi con quello di
tenente. Partecipa ai combattimenti sull'Altopiano della Bainsizza quindi
all'estenuante guerra di trincea. In una lettera del 1925 descrive a tinte
fosche l'esperienza della guerra: "Gettato faccia a faccia con i
diavoli della Città del Male, non seppi scansarmi dal guardare il viso
impietrante di Medusa ch'essi mi sbarattarono davanti agli occhi".
Lo
scoppio di una bomba lanciata da un obice austriaco nella sua trincea gli causò
un trauma cranico, i cui effetti si trascineranno a lungo.
Congedato
dall'esercito, Rebora si separa senza rimpianti da Lydia, che si unisce al
pittore Massimo Campigli.
Nel
segno della misericordia, Rebora svolge un'intensa attività d'insegnate e di
soccorritore dei poveri e dei vagabondi, ma non si decide al passo decisivo,
trattenuto dall'inveterato pregiudizio mazziniano, che nel papato contemplava
la causa della divisione fra i popoli [2].
"L'evento
della Conciliazione gli fece superare tali pregiudizi ed egli esalterà subito
dopo il papa per l'Enciclica sulla cristiana educazione della gioventù del
1930" [3].
"Approdato
alla religione quasi cinquantenne", scrive un illustre studioso il
padre rosminiano Umberto Muratore, "Rebora cercò di recuperar5e il
recuperabile, vale a dire l'innocenza soprannaturale. Probabilmente egli guardò
sempre i fanciulli, portatori di tutta l'innocenza, con la venerazione
raccomandata da Gesù [Lasciate che i fanciulli vengano a me perché di questi è
il regno dei cieli. Matteo 19,14]. E cercò anche di ridiventarlo. Solo con tale
presupposto si possono leggere certi suoi aneddoti, certi suoi scritti molto
semplici, certi trasporti spontanei nei riguardi di Gesù e di Maria ...
l'ingenuità con cui soccorreva i poveri, la sua assoluta mancanza di
scaltrezza" [4].
Guidato da un istinto
quasi infallibile, Rebora, infatti, aveva indirizzato una richiesta di
ammissione nell'Istituto della Carità, l'ordine religioso fondato dal Beato
Antonio Rosmini: "Ebbi la grazia di entrare a quarantasei anni, come
novizio nella sua famiglia [di Rosmini] religiosa; portavo ancora le conseguenze
di un disordine, di una lunga e spesso angosciosa ricerca; battezzato infante,
poi più nulla fino alla prima santa comunione, un anno e mezzo avanti di farmi
religioso. Oh l'esigenza battesimale non lascia tregua fino a che non venga
corrisposta" [5].
Accolto
nell'ordine, Rebora trovò finalmente la pace interiore che aveva inseguito nel
vagabondaggio attraverso le occasioni offerte da variopinte chimere e
convertendosi scoprì la sua vocazione di poeta cristiano e profondo interprete
del pensiero rosminiano: "con Rosmini, sostiene, anticipando le
ragioni dei pensatori - Michele Federico Sciacca, Maria Adelaide Raschini e
Pier Paolo Ottonello - che rivendicarono l'ortodossia del roveretano, "ci
si sente nella verità, pervasi della verità, riposati: la luce della verità che
viene da Dio è semplice, tranquilla, umile, soddisfacente, edificante".
Rebora morì nel 1957,
testimoniando la perfetta rassegnazione alla volontà del Signore. La sua
vicenda manifesta l'approdo religioso al quale era indirizzata l'inquietudine
della migliore gioventù italiana, quella che desiderava coniugare l'onesto amor
di patria con la verità rivelata e la sapienza con l'umiltà.
Lo
comprese un ostinato/tormentato miscredente e americano provvisorio,
Giuseppe Prezzolini, autore il 7 luglio del 1957 di una lettera a suo,
Margherita Marchione, in quel tempo impegnata a scrivere una tesi sul poeta
rosminiano: "Clemente Rebora, che io rivedo ancora come un bellissimo e
carissimo giovane, occhi vellutati, espressione aperta, parola fatata, mi parve
con la sua famiglia, uno dei migliori prodotti del paese che allora era
mio".
Piero Vassallo
[1] Cfr.: Oreste Macrì, La poesia di Clemente Rebora, in
Aa. Vv., Clemente Rebora nella cultura italiana ed europea, Editori
Riuniti, Roma 1993, pag. 24.
[2] Cfr.: Giuseppe Breschin, Il significato dell'amore
in Antonio Rosmini e Clemente Rebora, in Aa. Vv., Clemente Rebora
nella cultura italiana ed europea, op. cit. pag. 239.
[3] Cfr. : Giuseppe Breschin, Il significato
dell'amore in Antonio Rosmini e Clemente Rebora, in Clemente Rebora
nella cultura italiana ed europea, op.
cit. pag. 257.
[4] Cfr.: Umberto Muratore,
La vocazione rosminiana di Clemente Rebora, in Clemente Rebora nella
cultura italiana ed europea, op. cit. pag. 419,
[5] Citato
da Alfeo Valle in L'esperienza religiosa e poetica di Rebora nel periodo
roveretano, in Clemente Rebora nella cultura italiana ed europea, op. cit. pag. 401.
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