venerdì 16 gennaio 2015

IL NODO DELLA POLITICA È QUASI GORDIANO (di Piero Nicola)

Dovendo affrontare il problema della buona costituzione e del retto governo, noi cattolici doc abbiamo in tasca lo scioglimento del nodo. Non si sbaglia: occorre instaurare la legge delle leggi, quella iscritta nel cuore umano, verificata dalla norma morale contenuta nella Rivelazione e definita con sufficienti risvolti dalla Chiesa, sino a Giovanni XXIII escluso.
  Nel suo millenario magistero la Sposa di Cristo, Madre e Maestra, ha adattato l’etica immutabile alle circostanze storiche, lasciando una lezione valevole adesso e forse per ogni tempo avvenire.  Poterono esservi cattive deduzioni ed abusi, tuttavia dalla sacra fonte se ne ricavano gli emendamenti. Soprattutto dobbiamo badare al dovuto impiego della tolleranza, annoverato dalla morale cattolica.
  S’impone che la carta dello Stato osservi tutti i principi irrinunciabili, piuttosto agevoli da fissare. Difficile è concepire il modo della realizzazione nelle circostanze sociali.
  Va considerato che la condizione del mondo (a questo proposito, dobbiamo vedercela proprio con esso) non è mai stata favorevole, né mai lo sarà, stante la lunghezza della corda concessa al diavolo. Nelle nazioni dalle maggioranze di battezzati cattolici, almeno un poco eredi dei figli della Chiesa, l’apostasia e l’eresia materiale hanno fatto strage di rettitudine; la cultura dei diritti iniqui ed empi ha accecato la complice moltitudine. Sicché, uscendo dalla pregevole teoria, la sua realizzazione sembrerebbe disperata.
  IL restauro prevede due momenti: quello degli iniziatori (movimento, partito) e quello popolare. È anzitutto questione di uomini. I primi, dotati per essere capi e per recepire la dottrina necessaria, sono una razza rara. I pensatori esistono già, il braccio della loro mente (per intenderci non un braccio alla Berlusconi, alla Grillo o alla Renzi, cui il carisma non è servito) potrebbe essere già nato. A tutta prima, diremmo che dovrebbe essere un uomo molto forte, o un gruppo di governanti quanto mai vigorosi. Sarà forse così per le difficoltà sollevate dall’estero. All’interno, il popolo è più malleabile di quanto si creda, persino nel fargli accettare i sacrifici. La Storia ce ne rassicura; anche oggi, con un po’ di propaganda, bene o male la gente manda giù la pillola.
  A questo punto, si presenta fatalmente l’intrinseco aspetto delicato. I diritti e i doveri, l’equità comandata dalla ragione devono essere sempre rispettati? Sì, in linea di massima. Ma la Chiesa più volte applicò la tolleranza al potere temporale, transigendo ponderatamente e senza infingimenti.
  Data la certa mole di ostacoli che si pongono sulla strada maestra della politica, sarà lecito prevedere qualche eccezione, per dichiarata tolleranza.
  Una forma di autoritarismo, limitando alcune legittime libertà individuali e comunitarie, appare malefica. Ma se essa fosse l’unico mezzo per un rimanente buon governo, sarebbe giusto rinunciarvi? Attenzione: non mi riferisco alla repressione e alla censura che colpiscono la licenza di parola e d’altri mezzi, con cui si diffondono idee ingannatrici, immagini adescatrici. Leone XIII, in particolare nell’enciclica Libertas, Pio XII nella sua Miranda prorsus pronunciarono l’ultima parola di condanna su questo soggetto. Mi riferisco a qualcosa che non prevarica, che sta nel debito e che, a determinate condizioni, conviene accettare.
  Recenti vicende di popoli mostrano l’autoritarismo accettato dai cittadini per come era in effetti. E al termine di alcuni di quei regimi - sostituiti da ordinamenti civili garantisti, cosiddetti stati di diritto – si è visto succedere una decadenza vergognosa.
  In modo analogo, gli esperti di costituzioni stabiliscono che il migliore corpo dello Stato si compone di organi (legislativo, esecutivo, giudiziario, presidenziale) distinti, a garanzia di sano funzionamento, e si dirama in autonomie, in organi locali per la supposta sussidiarietà.
  Nella pratica, il frazionamento del potere civile e il sistema partitico generano impedimenti a governare, specie nei paesi, di loro natura, meno disciplinati. Se c’è un solo capo in gamba (come spesso accade) sarebbe controproducente un triumvirato o un altro simile consesso di reggitori. Il disprezzato accentramento ha dato sovente miglior prova della distribuzione territoriale delle competenze. Dal resto, è utopico contare sulla scomparsa dei corrotti. Mentre una direzione centrale può sconfiggere meglio la mafia e i traffici criminali.
  Insomma, nell’ostica materia di questo mondo, sovente bisogna abbandonare la regola e valersi della lecita eccezione.
  Sono osservazioni che svelano le insofferenze dei democratici, degli allergici alla palese rinuncia richiesta da un regime forte, per forza di cose in armi contro i nemici sostenuti dai paroloni, ma, per il rimanente, assai osservante della giustizia (vedi, nel secolo scorso, il regime portoghese di Salazar). I più onesti di costoro, scandalizzati dal rigore giudicato oppressivo, si comportano da isterici perfezionisti, anche quando preferiscono il liberalismo o il liberalsocialismo, iniquo senza rimedio, viziato sin nei suoi falsi corollari, e che non chiede venia, anzi non si fa scrupolo di sprofondare i suoi soggetti nei godimenti materialistici, affossa in loro il coraggio e oscura la nobiltà.
  Solzenicyn, perseguitato in patria, esule Premio Nobel 1970, insignito di titoli accademici in America, nel 1978, mettendo in gioco il suo destino, ardì esporre ciò che aveva visto bene venendo da fuori: la miseria spirituale dell’Occidente, attribuendola nondimeno al suo stato di diritto, che alleva ignavi consumatori di corruzioni. Da allora, la sua diagnosi di decadenza occidentale ha ricevuto ampia conferma.
  I perfezionisti, speranzosi evoluzionisti, continuano ad essere troppo preoccupati della loro lesa maestà di sovrani popolari. Pur d’avere l’impressione che essa sia conservata e riverita, gli ipersensibili pieni d’orgoglio si lasciano gabbare dal primo capopopolo insediato, del tutto simile al vecchio imbonitore da fiera, il quale almeno agiva di per sé, ubbidendo all’interesse e non a qualche padrone.


  Piero Nicola

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