Credo
che non sia necessario spendere troppe parole per presentare Piero
Vassallo. Alcuni lo considerano un implacabile e caustico polemista
cattolico italiano. Per molti di noi è uno tra i più importanti
intellettuali di questi anni.
Conosciamo
sin troppo bene lo scenario in cui Vassallo ha condotto da filosofo
la sua “buona battaglia” politica e culturale.
Vassallo
non soltanto è stato il primo a smascherare la falsa distinzione
culturale tra la destra e la sinistra postmoderne (con particolare
disdoro della destra deviante e “spensante”). Ha rivelato
l’origine anticristiana della cultura postmoderna, ha denunciato il
pericolo della “nuova alleanza” (lo notava Franco Fontana nella
prefazione a uno dei libri più belli di Vassallo) tra universi
culturali che sembrano molto distanti. E spingono per il ritorno
all’antico, agli antichi miti. Verso l’orizzonte “regressivo”
che annulla senza scampo il singolo nel magma della natura e della
specie.
È la “destra
adelphiana”, che Vassallo ha descritto in tempi non sospetti. E che
ha magistralmente demistificato in tante opere, molto prima dei
celebrati Adelphi di Blondet. Penso a libri come L’ideologia
del regresso, a Ritratto di una cultura di morte. Rimando
al volumetto bibliografico che raccoglie tutto il percorso di
Vassallo, curato se non ricordo male da Sergio Pessot e pubblicato
dalla Banda di Genova. Per intravedere lo spalancarsi del precipizio:
quello di Cacciari e Dossetti, di Maritain e Gandhi, i protagonisti
del millennio regressivo, dell’antichismo che nasce dai fantasmi e
dalle distorsioni illuministiche della modernità.
Si
tratta di ciò che è stato felicemente definito da Augusto del Noce
il “totalitarismo della dissoluzione”, il fenomeno che non ha il
volto odioso dei totalitarismi coercitivi del secolo scorso, ma ha il
sorriso seducente e sinistro di un nuovo “sistema” (relativismo
morale, edonismo consumistico, lassismo istintuale). E mira a
distruggere le difese immunitarie dell’essere umano, a consegnarlo,
frastornato e disarmato, nelle mani di nuovi carnefici.
Ed
è esattamente ciò che si racconta in questo libro (nella seconda
parte in particolare). Il deragliamento notturno del pensiero (come
non pensare a Céline?) verso l’alba dell’Ultrarivoluzione,
l’avvento delle Entità Superiori che vengono a liquidare i resti
dell’Occidente cristiano. L’affermazione “imprevedibile e
irreale” della comunità di Bataille (la Locanda dell’Armonia
degli Opposti), che nelle “pose” onomastiche e negli anagrammi
riconoscibili dei suoi animatori, Gamballarghi, Rosati, De Pastera,
Ceneretti, offre in rassegna la “ragion pratica” del disastrato e
spaventoso neopensiero contemporaneo, quello a colori pastello
dell’editore satiro e officiante gnostico Rosati-Calasso.
Ha
fatto bene un commentatore, Roberto Dal Bosco, a rilevare che i tempi
(tempi di seduzione sinistra si diceva) richiedano per interpretarli,
rappresentarli e combatterli strumenti di natura letteraria, oltre
che filosofica.
Ma
penso che Vassallo voglia con questo libro mostrare in piena luce una
continuità. Una questione che qui non si vuole risolvere con
l’etichetta un po’ vana, con la solita scorciatoia: ecco un
moralista. C’è in Vassallo un legame molto più forte e necessario
di quello pur fondamentale che intreccia “etica e biografia”. C’è
il legame tra il movente soggettivo e la storia-provvidenza. Un
legame che non può essere spezzato e che qui assume la forma
dell’apologo, ora sarcastico, ora doloroso, ora elegiaco (il
registro più segreto, ma sorprendente di Vassallo) e fa i conti con
tutto un percorso esistenziale e intellettuale mostrato nella sola
forma cui si possa offrire il senso definitivo della scrittura e
della vita: la forma classica dell’itinerarium.
Un
treno nella notte filosofante si offre su un registro poco
praticato nella letteratura italiana. Un realismo-irrealismo magico e
grottesco, beffardo e straniante, che fa pensare al Papini di Gog,
al pessimismo di Papini circa il destino “americano” offerto
all’umanità dalla civiltà dei consumi. Un registro che avvicina
il romanzo di Vassallo a modelli ideologicamente forse molto
distanti. Penso al romanzo di conversazione e di idee degli anni
Trenta (Huxley). Ma penso soprattutto al tono caustico, brillante,
paradossale di Chesterton. Se è vero che la scrittura per essere
tale deve sempre avere, come diceva lo stesso Chesterton, dei
“moventi morali”, anche se parla di “giardini olandesi e di
scacchi”. E anche inevitabilmente ai grandi apologeti. A
Tertulliano, troppo spesso indicato (al pari Di Vassallo, mi sia
permesso di osservare) come la vittima di un temperamento portato
verso l’eccesso, sino ad abbracciare per ragioni “psicologiche”
l’eresia. Al contrario esempio di una lucidità in cui il dottore e
il polemista brillano contemporaneamente grazie alla forza e alla
ricchezza del mezzo espressivo.
Un
treno nella notte filosofante si presenta sin dal titolo come un
racconto allegorico, un romanzo a chiave. Anche quando, nella prima
parte, è più autobiografico e la “lampada della memoria” del
protagonista, l’alter ego dell’autore, Simeone, si accende sullo
scosceso percorso esistenziale di un “cattolico hyksos” e prende
a spingersi lungo una via narrativa sempre più simbolica: da “figlio
del sole” evoliano sino alla luce del cardinale Siri-Don Giacomo e
alla fuga “cinematografica” dal destino di morte delle ultime
pagine.
Vorrei
fermarmi per concludere su un personaggio forse minore del racconto
(ma i personaggi non hanno gerarchia in questo romanzo davvero
corale). Su un sogno retrospettivo del protagonista, il ricordo di un
antico coinquilino dell’ “eversore di destra” Simeone. Il
ragionier Brambilla, ritratto di un cavaliere della mediocrità, che
si offre come lo straordinario esempio di eroismo quotidiano, l’unico
possibile, nel senso che Péguy dava all’eroismo contemporaneo:
quello del padre di famiglia.
Qui
sta forse il senso riposto del romanzo. Che è mosso, come tutta
l’opera di Vassallo, dalla volontà di respingere la cultura di
morte nella quale l’autore intravede l’essenza di una sorta di
anti-Italia. Se è vero che tra le nazioni di Occidente proprio
all’Italia, per il suo destino che la lega nella tradizione
cristiana, è demandato il compito di traghettare l’intera storia
occidentale “oltre il nichilismo”. È soprattutto per ritrovare
il senso di questo “primato morale e civile” degli italiani (così
ben rappresentato nel protagonista del romanzo e dalla storia di
“superatore dei superatori di Cristo” dell’autore), che credo
si debba leggere il romanzo di Vassallo.
Valentino Cecchetti
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