domenica 30 agosto 2015

I cattolici modernizzanti inseguono i bagliori di un plumbeo tramonto

 L'autorevole Etienne Gilson ha stabilito che “il motivo per cui il metodo idealistico porta al suicidio della filosofia  come conoscenza specifica sta nel fatto che esso imprigiona la filosofia in una inestricabile serie di contraddizioni interne, il cui esito finale è lo scetticismo, inteso come suicidio liberatorio” [1].
 L'irresistibile discesa della filosofia di matrice illuministica nello scetticismo e nel delirio sessantottino ha sedotto la setta neo-modernista, trascinandone la esausta teologia nelle sabbie mobili del postmoderno. 
 Risposta ipocrita al presunto “trionfalismo”, la rispettosa e servile flessione davanti alla esangue post-modernità ha affumicato e depistato la mente debole dei progressisti cattolici e li ha infine appiattiti sulla figura – comicamente  surreale – dell'esoterista, che colleziona sontuose bazzecole neo gnostiche.
 Insensibile agli avvisi e agli allarmi gridati dai pensatori refrattari al delirio moderno e  postmoderno e perciò militanti nell'avanguardia attiva nella luce della dottrina tomista [2], un'abbagliata frazione della gerarchia cattolica, quasi ignorando la radice volontaristica della filosofia volatile dopo Cartesio, confonde, con tenacia degna di miglior causa, le celesti acrobazie dei marchingegni fabbricati dalla tecnica astrale con le estenuate e confuse elucubrazioni dei pensatori atei attivi nel deserto occidentale.
 L'obliqua confusione intorno ai diversi emisferi della modernità, genera un'imperterrita e quasi comica baldoria, in onore del creduto inarrestabile  progresso del razionalismo ateo.  
 Intossicati dalla cieca lettura del pensiero postmoderrno, i turbamenti ecumenici e i sogni modernistici strisciano nei testi squillanti di una teologia prigioniera inconsapevole delle nebbie francofortesi e dei fumi californiani cioè depistata dalla snervante mitologia intorno all'inarrestabile ascesa del pensiero moderno.
 Al seguito delle convinzioni di un clero disinformato e stordito dal concerto orchestrato da banchieri cogitanti, passano indenni e indisturbati i deliri postmoderni, squittii di topolini ubriachi, in fuga rovinosa dalla montagna hegeliana.
 Assordata dal fragore prodotto dalla caduta della modernità, una sezione non piccola della teologia da palcoscenico ha disconosciuto e sconsigliato l'insegnamento di San Tommaso d'Aquino e di conseguenza ha perso di vista la superiorità della nobile tradizione filosofica sulle escursioni postmoderne nel vuoto mentale e/o nel proclama dell'avanguardia urlante che “vivere è far vivere l'assurdo”
 Al proposito l'autorevole e dotto Antonio Livi ha rammentato (forse inutilmente) che “si oppongono al cristianesimo quegli ambienti culturali … che per motivi ideologici hanno adottato l'immanentismo, il quale, peraltro, deve il suo prestigio e la sua influenza, non tanto alla incontrovertibilità delle sue tesi (a cominciare della necessità di praticare il dubbio iperbolico) quanto alla possibilità di servire da copertura ideologica per operazioni politiche finalizzate alla demolizione della cristianità e alla edificazione di una civiltà neopagana” [3].
 L'ideologia degli oligarchi ultimamente è al servizio di una politica malthusiana, sapientemente gestita da sodomiti d'alto rango e da strozzini senza religione e senza patria.
 Frastornata dall'urlo della demenza televisiva e sedotta dal serpentino sibilo dei corsivisti di scuola esoterica, la mente degli ecclesiastici progressivi diventa incapace di ripetere le parole di fuoco che la Sacra Scrittura indirizza agli usurai, ai sodomiti, agli adulteri e ai tiranni.
 Da tale diserzione ha origine l'estenuante girotondo delle mezze aperture al disordine postmoderno e delle mezze ritrattazioni, lanciate dall'alta, disinvolta cattedra del teologicamente corretto.
 Di qui, purtroppo, anche la (pseudo) ecumenica/incauta approvazione di un flusso migratorio, gestito dalla volontà di potenza infuriante nella falsa teologia degli islamici e benedetto dal devastante delirio onusiano & vaticano.
 A questo punto solo la liquidazione delle grottesche illusioni fiorite nel sottobosco  clericale e nelle adunate sincretistiche di Assisi, e la coraggiosa revisione dei polverosi testi conciliari, che hanno ispirato le teologiche manfrine in atto perpetuo sul palcoscenico clerico progressista, potrebbe scongiurare lo scisma incubante nella vasta area della refrattarietà alla nuova teologia.
 Ove la corsa ecclesiale nella cieca direzione della comica finale, non fosse frenata dalla gerarchia pensante, sarebbe inarrestabile la ricerca di un riparo dal delirio teologico nella chiesa ortodossa, vivente e fiorente nella Russia di Vladimir Putin.

Piero Vassallo
.




[1] Etienne Gilson, Il realismo metodo della filosofia, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2015, pag. 168.
[2] Alla nobile schiera degli irriducibili alla suggestione modernista appartengono Réginald Garrigou Lagrange, Edith Stein, Francisco Elias de Tejada, Pedro Galvao de Sousa, Cornelio Fabro, Etienne Gilson, Augusto Del Noce, Maria Adelaide Raschini, Dario Composta, Danilo Castellano, Paolo Pasqualucci, Giulio Afano, Roberto De Mattei, Guido Vignelli, Pucci Cipriani, Tommaso Romano
[3] Cfr. la postfazione a Il realismo metodo della filosofia, op. cit. pag. 59.

sabato 29 agosto 2015

Sartre banditore della rivoluzione islamica

 La gongolante frenesia dei buonisti di risma atea e/o conciliare, esaltazione chimerica, che applaude la disgraziata invasione islamica in atto, suggerisce una visita alle tossiche, nascoste e lontane fonti dell'ecumenismo spurio, oggi in rovinosa e incontrollata circolazione tra le macerie del comunismo e/o nei circoli cattolici ubriacati e intossicati dalla teologia avventizia, declinata dal modernizzante clero di Germania.
 Plauditore della rivolta islamica contro l'Occidente cristiano, in quel tempo rappresentato (non felicemente, a dire il vero) dal governo francese, fu (curiosamente) il pensatore nichilista Jean Paul Sartre, il quale, approvò e lodò l'azione terroristica del Fronte di liberazione algerino, quale legittima insorgenza contro la civilizzazione europea, a suo parere incapace di interpretare fedelmente i luminosi  principi dell'umanesimo socialista. 
 L'approvazione del terrorismo islamico si legge a chiare lettere nella prefazione di Sartre al saggio di Henri Fanon, I dannati della terra, apologia della rivolta algerina, un testo edito da Einaudi in Torino nel 1961.
 Sartre apprezzava e lodava il terrorismo algerino quale rivolta contro la colonizzazione  civilizzatrice avviata dalla monarchia cattolica nel 1831.
 Secondo l'estremo esponente della sinistra esistenziale, i terroristi islamici rappresentavano la versione islamica del partigiano libertario, che uccidendo l'invasore ottiene un doppio, magnifico risultato: “un uomo in più [l'assassino] e un oppressore in meno”.
 Uccido, dunque sono uomo. Un Cartesio furente e sanguinario corre nelle righe di Sartre. L'orizzonte della sua filosofia è l'omicidio sociale, che genera la libertà senza aggettivi e senza reali prospettive.
 Sartre ha coniugato la volontà di potenza con l'odio di classe e con il risentimento  del terzo mondo. Se non che la rivoluzione esistenzialista da lui promossa naviga nelle acque nere della negatività assoluta.
 Sotto questo profilo la lettura dell'opera teatrale Il diavolo e il buon Dio, si legge  quale manifestazione della tendenza, dominante nel pensiero post-moderno, a traslocare il trucido nichilismo di Nietzsche sull'esausto carro della rivoluzione marxiana.
 Sartre contempla nell'uomo la marionetta di una passione inutile. La rivoluzione nei suo scritti è destinata a naufragare nelle acque sgorganti dalle ferite dell'essere.
 Ambientato nella torbida Germania del XVI secolo, Il diavolo e il buon Dio, mette in scena Goetz, l'eroe dialettico, che raduna in sé le insanabili contraddizioni dell'essere.
 Capitano di ventura, Goetz è inteso alla repressione delle rivolte contadine, un atto di feroce giustizia, che si appresta a compiere dopo aver disatteso le suppliche delle sue potenziali vittime.
 Se non che a contrastare il disegno di Goetz insorge Heinrich, un prete che gli dimostra l'inutilità della ferocia quantunque ispirata dalla giustizia e perciò induce il guerriero a scommettere sulla buona causa.
 Ammaliato dalla teologia di Heinrich, Goetz rinuncia a condurre la guerra contro gli insorgenti, distribuisce le sue terre ai poveri e con essi fonda una Città del Sole.
 Se non che la Germania è intossicata da opposti e invincibili furori: nel loro cieco turbinare il pio disegno della Città del Sole si capovolge in una rivolta insensata e sanguinaria.
 Sconfitto Goetz si reca all'incontro con Heinrich, al quale manifesta le conclusioni suggerite dalla sua esperienza: Dio non si allea con gli operatori del bene, pertanto l'uomo è solo di fronte all'enigma del male.
 Il sacerdote contesta l'opinione di Goetz, il quale reagisce uccidendolo: la conclusione del dramma dimostra che sopprimendo il testimone della fede in Dio l'uomo può diventare padrone del proprio destino.
 Discendente ultimo dell'eroe nietzschiano, Goetz incarna la volontà di eliminare i credenti al fine di instaurare il regno dell'uomo assoluto.
 Se non che l'orizzonte della filosofia sartriana rappresenta l'uomo quale passione inutile. La rivolta contro la religione è pertanto fine a se stessa. L'opera di Sarte svela l'orizzonte nichilista della rivoluzione impotente.
 Non è lecito, tuttavia, sottovalutare la stima che Sartre (e al suo seguito gli orfani della rivoluzione comunista) nutrono nei confronti della insorgente e oggi sbarcante dottrina maomettana.
 Nella dottrina di Maometto il resto dell'umiliata e sbandante modernità contempla e ammira una fede sensuale, appiattita sul progetto inteso unicamente ad abbattere l'odiata civiltà cristiana.
 Sartre ha concepito la tecnica  del trasbordo dell'esausta modernità sulla nave islamica, ultima occasione offerta al desiderio di perpetuare la rivoluzione moderna. Desiderio che è purtroppo alimentato dalla complicità di un clero pseudo ecumenico, ubriacato dal buonismo. 

Piero Vassallo

lunedì 17 agosto 2015

L'INVOLONTARIA APOLOGIA COMPIUTA DA UN AUTOREVOLE ANTIFASCISTA (di Piero Nicola)

  Eugenio Corti (Besana Brianza 1921 - ivi 2014) è scrittore di razza, uno dei pochi eminenti, onesti, cattolici narratori e saggisti del dopoguerra e del tempo postmoderno. Prendo in considerazione il suo romanzo-documento Il cavallo rosso (Ed. Ares, 1983, p. 1277), che intende rappresentare la storia italiana, con annessi e connessi internazionali, a partire dal 1940 sino al 1974, attraverso le vicende di ragazzi ventenni all'inizio della Seconda Guerra Mondiale, militari sui vari fronti, militanti nella guerra civile, quindi impegnati nelle loro diverse occupazioni e funzioni sociali.
  Il racconto si apre illustrando la condizione del villaggio natio, Nomana (nome di fantasia), uno dei diversi borghi della collinare plaga briantea. La gente di Brianza era cattolica osservante, per lo più non fascista o indifferente alla politica; viveva pacificamente di lavoro agricolo e operaio. Dopo un periodo di predominio liberale dei proprietari terrieri, gli industriali, di estrazione prevalentemente umile, avevano portato la religiosità della gente al suo debito riconoscimento. In un compimento di attività e di armonica unione, il paese conduceva un'esistenza alquanto felice. Il frutto proveniva dalla Controriforma, da pastori quali San Carlo Borromeo.
  La freddezza o la preoccupazione davanti alla dichiarazione di guerra, la sorta di pacifismo, dovettero provenire alquanto dalla appartenenza all'Azione Cattolica e prima, in parte, al disciolto Partito Popolare; l'una avversata, per qualche tempo, dal fascismo, l'altra nonostante la deludente prova offerta dai politici democratici cristiani. Data questa posizione dei brianzoli forse il regime aveva avuto qualche motivo per rivolgere all'A.C. l'accusa di antifascismo.
  "Trent'anni più tardi, sotto l'influenza laico-umanitaria della televisione e delle idee nuove, i ragazzi di Nomana non sarebbero più stati così [casti e partecipi della comunità]; avrebbero tormentato meno gli animali, e non avrebbero più tormentato pubblicamente i deficienti, che sono due indubbi passi avanti. Però avrebbero cominciato - come non era mai accaduto nella storia del paese - a odiare determinati gruppi sociali, e inoltre nessuno di loro, o quasi, sarebbe più arrivato vergine al matrimonio".
  L'osservazione inserita dall'autore sin dalle prime pagine (come più volte altrove egli ritiene necessario il proprio diretto intervento chiarificatore) solleva i quesiti essenziali. Quale parte ha il governo nazionale riguardo al bene superiore della moralità e dell'armonia? Possono fattori diversi, stranieri, avere una preponderanza invincibile? E tali grandi influenze esterne ebbero a manifestarsi soltanto nel dopoguerra o furono bensì in precedenza?
  In precedenza agivano da tempo, segnatamente nel campo della fede, soprattutto in Francia, un progressismo e un modernismo corruttori, una propaganda libertaria democratica capace di sedurre il popolo, fosse stata di stampo marxista o del liberalismo. È indubbio che a tale seduzione il fascismo mise un argine, propugnando nondimeno l'idea d'una civiltà d'ispirazione romana e classica, sebbene fosse qua e là venata di note ghibelline. Ciononostante, come si è visto, i paolotti potevano essere tali senza disturbo; il clero poteva svolgere a suo agio il ministero tradizionalmente moralizzatore.
  Dunque soltanto la guerra perduta aveva storicamente aperto la strada alla decadenza, venendo a mancare l'ordine e la forza dello stato contrapposta al deterioramento dei costumi.
  L'autore, antifascista, si sofferma, facendo corpo con i suoi personaggi (tuttavia ligi al patrio dovere), nel biasimare la dichiarazione di guerra dovuta a Mussolini. A tale riguardo, gli va contestato che il re approvò, anzi, come capo dello stato e come novello imperatore, deliberò quanto il governo aveva proposto.
  L'appunto vale tanto più in quanto il re depose Mussolini, fece l'armistizio dell'8 settembre e, dopo tale evento, l'autore si mette dalla sua parte, dalla parte degli angloamericani. Se egli non ritiene un impedimento la fellonia del sovrano nei confronti dell'alleato tedesco, dovrebbe altresì ritenere dovuta l'opposizione del re all'entrata in guerra e ritenerlo di essa corresponsabile. A meno che Vittorio Emanuele III avesse inteso, machiavellicamente, procurare con la sconfitta la caduta del fascismo. Ma il consenso del Corti a un simile tradimento disastroso è fuori discussione.
  Dovendosi mettere in rilievo le pecche dell'opera, circa alla sua conclusione, quando un'esemplare eroina del romanzo perisce in un incidente, ci viene ricordata la volontà di Cristo di non perdere nessun essere umano, sicché ella, andando nelle braccia dell'angelo custode verso l'eterna beatitudine, incontra persino un orribile boia e torturatore di partigiani e in seguito di fascisti, senza che il suo riscatto abbia ricevuto la desiderata spiegazione. Inoltre l'esito negativo del referendum sull'abolizione della legge che introduce il divorzio, vien detto proficuo, avendo prodotto il risveglio del sentimento cattolico, e si prospetta fausto il successivo avvento di Giovanni Paolo II, che in realtà non apportò un rimedio alla profonda crisi della Chiesa. A tutto questo s'accompagna pure qualche stanchezza stilistica e qualche difetto della struttura narrativa.
  Tuttavia va mantenuto il giudizio positivo sul narratore e sulla sua buona volontà, sulla veridica crociata anticomunista ch'egli condusse, sul suo concetto di civiltà.
  Protagonisti del romanzo sono Ambrogio, figlio di industriale tessile e iscritto al primo anno di scienze  economiche all'Università Cattolica dell'imperioso Padre Gemelli; suo cugino Manno allievo ufficiale di artiglieria; l'amico Stefano, attaccato al suo mestiere di contadino, nonostante gli stentati proventi del piccolo podere paterno; Igino, l'unico del parere che sia giusto allearsi con la Germania contro le sopraffazioni di Francia ed Inghilterra; altri tre arruolati prima dello scoppio delle ostilità, accompagnati al posto di reclutamento; l'amico Michele, che ha la vocazione dello scrittore ed è ansioso di fare esperienze istruttive; il che gli fa sospirarle l'invio in Russia, dove avrà modo di documentarsi sul regime bolscevico.
  Uno dopo l'altro essi andranno al fronte, avendo cominciato con l'istruzione e la carriera nelle patrie caserme. Nell'estate del 1942 Ambrogio e Michele sono in Russia. Le campagne son povere, arretrate, le case, isbe col tetto di paglia, le strade, piste di terra battuta. Nelle retrovie, nel bacino minerario e industriale del Donetz, gli operai vivono miseramente. Le offensive italiane si susseguono, l'avanzata raggiunge la linea del Don con alla testa i bersaglieri, tra i quali c'è Stefano. Michele, addetto a un posto di rifornimenti, tenta di informarsi sulle stragi di contadini avvenute anni addietro, ma gli abitanti sono timorosi o delusi, perché i tedeschi hanno ucciso i civili e usano il pugno di ferro a torto o a ragione. Una falla dello schieramento italiano è stata tamponata, dopo l'inspiegabile rotta d'una divisione di fanti. L'esercito sovietico è arretrato, ma dispone di autocarri americani e di carri armati.
  Igino scrive dalla Jugoslavia che i partigiani non sono temibili. Ambrogio, ufficiale osservatore dell'artiglieria, incontra l'alpino Luca, operaio della fabbrica paterna. Segni di devozione cristiana nei profughi russi. Ci si prepara a sostenere i rigori dell'inverno, il secondo della campagna. Il complesso del lunghissimo schieramento delle nostre truppe funziona anche nel sopraggiunto freddo polare.
  Il 19 dicembre giunge l'ordine della ritirata. Nonostante il valore dei combattenti, specie dei bersaglieri e degli alpini, la preponderanza delle forze nemiche, di gran lunga superiori di numero e di mezzi,  impedisce agli italiani di rompere l'accerchiamento. Le perdite sono grandi, sia per gli uccisi dalle armi che per le vittime del gelo e degli stenti; molti sono fatti prigionieri. Soltanto alcuni reparti riescono a passare trascinandosi appresso colonne di inabili e di sbandati sovente privi dell'arma in dotazione. Comportamento eccellente dei tedeschi e del battaglione M, più che decimato. Anche i croati e gli ungheresi si distinguono. Stefano cade nella disperata difesa di un avamposto, che il colonnello ha dovuto abbandonare al suo destino.
  Nella composita colonna che comprende il corpo d'armata e l'amico Michele, Ambrogio procede ferito, sostenuto dal fedele attendente, e lo stato d'impotenza in cui versa - osserva lo scrittore - probabilmente è la causa del suo giungere a salvamento. Riflettendo sul disordine e l'apatia in cui sprofonda buona parte della truppa, egli considera come la gente di Nomana sia assai disciplinata, lo sia nell'intimo, e pensa: "Sarà per questo che noi non abbiamo bisogno del fascismo? [...] Non per niente là [in Brianza] comincia la terra del reclutamento alpino".
  Sennonché, non andrebbe tralasciato che i buoni ordinati necessitano di adeguata protezione, in quanto ben pochi sono gl'incorruttibili.
  A differenza degli italiani, i russi freddano col colpo alla nuca gruppi di prigionieri. Michele viene catturato. Da principio, se la cava venendo ritenuto elemento utile per ottenere informazioni. Quindi, lo mandano in un lager orrendamente mortuario, dove si crepa d'inedia e, per sopravvivere, molti si riducono al cannibalismo.
  Finalmente la colonna di Ambrogio, ridotta a circa 4 mila uomini dei 20-25 mila iniziali, passando per successivi combattimenti raggiunge le linee mobili tedesche a Bialovosch. I superstiti sono trasferiti mediante autocarri; poi, i feriti trasportati per ferrovia a Leopoli e ricoverati in ospedale bene attrezzato. Notizie di stragi mostruose ivi compiute da russi e tedeschi. Segue il rimpatrio su treno ospedale. "Dopo quello che ho visto" osserva il figlio dell'industriale, "non sono più sicuro che i formalisti alla vecchia maniera, abbiano tutti i torti".
  Poiché Luca appartiene al battaglione Morbegno, abbiamo modo di assistere alle tragiche vicende degli alpini, sino alla famosa, disperata vittoria di Nicolaievca, che assicura lo scampo ai sopravvissuti.
   Intanto, ai primi di maggio avviene l'abbandono della Tunisia, conquistata dal generale Patton. Il reparto di Manno essendo forzato ad arrendersi, egli si aggrega a un equipaggio raccogliticcio, che compie una fortunosa traversata per approdare in Sicilia. Rientrato nel deposito di Piacenza, resta in attesa dell'invio in Grecia.
  Dopo aver visitato Ambrogio nel convalescenziario, il futuro scrittore conosce Colomba, un'incantevole figliola che assiste la vecchia zia in una villa di Nomana. Prima della partenza i due innamorati si fidanzano.
  In paese, Luca, scampato all'assalto di Nicolaievca, è pure fidanzato con la sorella di Stefano e attende di riprendere il servizio. Completa la gamma dell'umanità in qualche modo felice, trepidante, dolorosa, la madre di Stefano, che sente, quasi telepaticamente, la perdita del suo ragazzo. Dalla Russia soltanto, non giungono notizie dei militari caduti o prigionieri. Per quanto giungano ammirevoli o cari i personaggi, si avverte qualche insistenza patetica e sentimentale.  
  Sbarcato Manno in Albania, dove  i partigiani sono divisi da lotte intestine, sopraggiunge l'armistizio, con gli ordini di resistere ai tedeschi. Le vicende storiche sono note. Nella Penisola avviene il collasso pressoché totale del regio esercito. Nei Balcani il disordine non manca; qualche formazione tenta di resistere prima di soccombere, prima delle deportazioni in Germania. Gli ufficiali che hanno tentato di opporsi subiscono la fucilazione come traditori.
  Venuto a trovarsi a Brindisi, dove si sta organizzando il regno del Sud, che il 20 ottobre dichiara guerra alla Germania, Manno, inteso a restituire dignità alla Patria, partecipa alla costituzione di un corpo di volontari da impiegarsi a fianco degli Alleati. Essi, che già hanno rifiutato le navi e le scorte per il trasporto delle truppe in patria, sono ben poco disponibili ad accoglierle nelle loro fila e ad armarle. Tuttavia, davanti a Cassino, un contingente italiano partecipa all'offensiva, e il nostro ufficiale cade valorosamente a Montelungo. I parenti e Colomba non conosceranno la sua sorte che al termine del conflitto. Non si può fare a meno di notare l'omissione degli intendimenti analoghi e dell'analogo ardimento che animarono i combattenti della RSI sul fronte opposto.
  Frattanto, in agosto, gli aerei angloamericani avevano letteralmente distrutto la metà di Milano, anche se i morti civili erano stati poco più di un migliaio. Si vincono i soldati germanici grazie all'incomparabile mole di armamenti e di mezzi materiali che possiede il nemico (ancora attuale prima dell'8 settembre).
  La crudeltà dei campi di concentramento o dei trasferimenti ferroviari - autentici mezzi di tortura tramite fame, sete, lavoro forzato - riguardavano anche molti milioni di deportati russi, uomini e donne (sottoposte a specifica violenza), nonché i deportati dei paesi dell'Est europeo. Michele perviene a costatare che quei sistemi efferati, di cui forse la storia non conobbe l'eguale, e ai quali partecipavano commissari italiani, avevano lo scopo di realizzare l'umanità comunista; la realizzazione della vera società comunista li comportava. L'utopia della riforma comunista degli uomini richiedeva stragi interminabili. Più avanti, egli ne avrà conferma dagli analoghi stermini e annientamenti del persona operati in Cina, in Cambogia e nel Vietnam. Egli riuscì a spiegarsi l'incomprensibile e altrimenti gratuita ferocia dei sovietici, incredibile al punto che gli occidentali non la prendevano in considerazione, credendo piuttosto al paradiso in terra di Baffone.
  Ai tedeschi arresi tocca una fine immediata. Agli ufficiali italiani si allevia il trattamento con la speranza di indottrinarli. Vi si provvedono, con scarso successo, fuorusciti per lo più emiliani, commissari del popolo in genere patetici nella loro insostenibile convinzione. Come tutti i grandi e i piccoli del sistema, essi sono soggetti a fare una brutta fine, secondo i metodi rivoluzionari.
  Nella repubblica di Mussolini prende piede il fenomeno dei partigiani, comunisti e monarchici o d'altra idea politica. Ambrogio non si è rimesso dai postumi delle ferite, anzi è peggiorato e gli occorre il un ricovero nella villa sul Lago Maggiore adibita a clinica per militari. Lo assiste con simpatica tenerezza Fanny, una leggiadra crocerossina, ragazza di spirito, universitaria figlia dell'alta borghesia liberale. Compagno di camera giunge un milite repubblicano. È l'occasione per confrontare le ragioni dell'opposta militanza. Costui invoca l'onore da riscattare per la Patria, che non può essere una che tradisce dall'oggi al domani il suo  alleato e gli spara nella schiena, una prostituta che si dà a chi paga meglio, al nemico di ieri, il quale  massacra i civili con i bombardamenti.
  Ambrogio obietta che la guerra è perduta e la gente non aderisce al governo impostole bensì dallo straniero occupante. Tra sé e sé, egli enumera le altre ragioni contrarie, secondo lui maggiormente valide, sebbene egli rispetti l'idealità del camerata.
  Il diciottenne suo fratello Pino, che viene a trovarlo, è un ragazzo fantasioso e di debole personalità. Per spirito d'avventura prende contatto con i partigiani alla macchia sui monti circostanti. Va con loro, facendo un colpo di testa, perché la madre e i famigliari sono contrari. Prende così l'avvio la storia delle formazioni non comuniste che portarono all'avvento della repubblica dell'Ossola, esempio della miglior lotta condotta contro il nazifascismo. Nelle fasi precedenti e successive al concretarsi di questo stato democratico di Domodossola, cadono i comandanti, ex ufficiali dell'esercito regio dell'Italia fascista. Ma i partigiani non sono combattenti veri e propri, cioè disposti a morire sul campo; risultano efficaci nelle imboscate, nella difesa di posizioni dall'alto e si espongono nei colpi di mano, senza l'idea del sacrificio. Perciò la propagandata repubblica dell'Ossola del '44, sebbene il suo governo faccia fronte agli elementi politicanti (dunque disgregatori), sebbene ricevesse l'apporto anche dei rossi e rifornimenti paracadutati, ha una vita effimera, molti suoi abitanti o ospiti devono riparare in Svizzera.
  Non appena formato il governo Bonomi in Roma liberata, si vengono a conoscere le beghe e i litigi in atto fra i partiti: "preclusioni reciproche, presentate come manifestazioni di democrazia", "democrazia deprimente attuata a quel modo". Sembra tornata la confusione del 1922.
  Ma bisognava incolpare le fazioni o il sistema? Bisognava, come al solito, accusare l'inciviltà degli italiani o la degradazione investiva le potenze dominanti? A giudicare dal cammino politico occidentale, nessuna democrazia si è salvata. I nostri guai morali, a partire dal dopoguerra presero origine dal modello statunitense, dall'egemonia americana.
  Pierello, ragazzo semplice e incolto, uno dei tre primi coscritti accompagnati in macchina da Ambrogio alla chiamata sotto le armi, si trova coinvolto nelle spaventose traversie della ritirata nella Prussia Orientale. Dopo aver servito nella fattoria d'una vedova, combatte in trincea accanto a soldati anziani o imberbi. L'avanzata dei russi è inesorabile. Un enorme sciame di civili marcia con ogni genere di carri e slitte, per raggiungere e oltrepassare un lago ghiacciato, al di là dal quale potrebbe mettersi in salvo. Le scene delle azioni guerresche e delle ferali disgrazie che colpiscono i profughi sono nuovamente rappresentate con rara potenza.
  Pierello, camuffandosi, si sottrae all'inquadramento militare, tuttavia soccorre la povera padrona e i suoi nipotini, per ritrovarsi, più tardi, in territorio cecoslovacco, dove i cechi commettono atrocità, intanto che i sovietici continuano le loro infami deportazioni.
  Ad aprile cede la Linea Gotica. A Nomana un forestiero arruola nella formazione dei partigiani comunisti i peggiori elementi del paese. Il farmacista, un piacentino, fattosi nominare capo del CLN  locale, sebbene sia democristiano asseconda i rossi per spirito di rivalsa, avendo dovuto, a suo tempo, ingoiare l'olio di ricino nel proprio paese. Nel CLN devono figurare i rappresentanti dei partiti, che sono raccogliticci e alcuni quasi senza aderenti. Ambrogio tenta di far sì che le armi dei militi, rinvenute nella casermetta disertata, non vadano nelle mani dei facinorosi senza Dio. Il farmacista e i paesani non possono impedire che una squadra venuta da fuori uccida una povera donna, colpevole soltanto d'essere la moglie d'un fascista giustiziato. A Milano le orribili violenze e gli assassinii non hanno tregua. Nel villaggio i ragazzi comunisti vorrebbero spadroneggiare come altrove fanno i compagni armati.
  "L'Italia era una sorta di corpo vile a disposizione del fascismo prima e dell'antifascismo poi", commenta il Corti.
  Dalla Svizzera rientrano Pino e il suo amico Sep, divisi dalle idee politiche che innescano la lotta di classe. Un reparti di sudafricani si accampa a Nomana. Malvisto specialmente dai rossi, conduce un'esistenza separata.
  Giunge la triste notizia della morte di Manno. Nulla si sa invece dei soldati rimasti in Russia. Il giovane Andrea Marsavi, la cui famiglia possiede un grande salumificio, combina con la Commissione Pontificia l'invio di autocarri di proprietà della ditta Riva in Germania, per il rimpatrio dei prigionieri. Ne ritornano da paesi lontani. Episodi di banditismo e mercato nero. Corruzione diffusa; controversie e rivalità tra i partiti di governo e nelle amministrazioni. La crisi economica perdurante appare inspiegabile, non bastando a giustificarla gli scioperi e le lotte sindacali.
  Se la ripresa, il riassetto delle attività e la ricostruzione verranno immancabilmente, quale corso morale c'era da aspettarsi dopo un simile inizio?
  Nel suo esilio di inique penitenze un po' alleviate, Michele si documenta leggendo i testi comunisti della piccola biblioteca, interroga di straforo un'internata, del campo contiguo, invelenita nei patimenti e nelle sopraffazioni. Apprende delle stragi di ebrei operate dai nazisti. Conosce la miseria dei bambini spagnoli rubati dai russi nel loro paese iberico e richiusi in un lager. Egli giudica che la fonte anticristiana di marxismo e nazismo stia nell'eresia protestante. Cultore del medioevo fin dai suoi studi scolastici, ricorda la nocività dell'eresia concepita nell'epoca maggiormente religiosa: la peste dell'errore dottrinale.
  I ragazzi di casa Riva frequentano l'università. Ambrogio si lega sentimentalmente a Fanny, la sveglia e piuttosto mondana crocerossina tornata agli studi. Colomba, la bella promessa sposa di Manno è di nuovo a Nomana nella villa della zia. Ambrogio prova per lei un amore irresistibile e condiviso, ma rinuncia a lei, sembrandogli una profanazione fare sua la ragazza dell'amico sacrificatosi in guerra. L'acquisto della villa da parte dei Riva allontana Colomba definitivamente.
  A Milano ora le manifestazioni si susseguono, sfilano cortei contro la monarchia. Non cessano le uccisioni, nella sostanziale indifferenza degli Alleati. In paese si volgono comizi antimonarchici, anticlericali, antiamericani. L'odio isterico comunista e gli argomenti sullo sfruttamento del lavoro non passano senza fare qualche presa. Ambrogio e il babbo pensano a costituire una seria forza politica. Fortunato, il secondogenito liberale che sta prendendo le redini dell'azienda, rimane estraneo al progetto. Quantunque Ambrogio e Luca, che ha ripreso il suo posto in fabbrica, abbiano la tessera della DC, praticano la politica quasi con ripugnanza. "Non sono cose divertenti". Dal CLN giunge l'ordine di ammazzare almeno un fascista per comune. Il farmacista salva un destinato ad essere eliminato. La riunione del CLN paesano ha all'o.d.g. la fondazione della mutua comunale, ma la discussione non approda ad esaurire l'argomento, essendo sviata  dalle rivalità, dal protagonismo di rappresentati di partito, che sfocia nell'insulto e nel battibecco. Si discute anche delle epurazioni. Ambrogio spera nelle elezioni regolari, purché vadano bene...
  Dalla Russia arrivano i primi malati gravi e i presunti guadagnati alla causa comunista.
  Le elezioni amministrative vedono il buon piazzamento della DC, tranne che in Emilia e in Toscana, mentre il referendum assegna una risicata vittoria alla repubblica, decretando la fine della monarchia.
  Nel settembre 1946, Michele scende alla stazione di Milano accolto da Ambrogio e Francesca. Il suo pensiero va alla loro sorella Alma, di cui ha carezzato il ricordo e che diventerà la sua sposa. Il loro amore miracoloso durerà intatto sino al 1974, quando la statuina Alma (di cuore tanto sensibile ed eccellente, quanto il suo aspetto appare imperturbabile) perisce in un incidente stradale provocato da autista drogato.
  Michele ha pubblicato un libro sulla tragedia avvenuta nella Russia sovietica. Il volume consegue una discreta accoglienza di pubblico e di critica qualificata. Ciò non lo solleva dalle severe ristrettezze economiche, da cui esce a mala pena avendo trovato un posto di supplente in un istituto privato.
  Alle elezioni politiche del '48, alla DC va la maggioranza assoluta, procurata specialmente dagli attivisti dell'Azione Cattolica.
  Michele conduce ormai la sua battaglia di scrittore, dalla quale si aspetterebbe fausti risultati. Ma le recensioni sono disparate; in Italia manca un'autorità letteraria determinante, salvo quella di Benedetto Croce, che però è liberale e miscredente, ed ha pure preso alcune cantonate. Il suo giudizio lusinghiero non è atto a soddisfare le aspettative.
  I probi lavoratori paesani temono che i loro figlioli cadano sedotti dalla propaganda comunista, paventano che succeda "come di quei ragazzi che vanno con le cattive compagnie [...] poi finiscono col non ragionare più come gli altri della famiglia". Il bravo sacerdote: "Sono duemila anni di fede e di civiltà cristiana conquistate con infiniti sacrifici, giorno per giorno [...] che stanno per essere messi in causa tutt'in una volta".
  Un commento sviluppa le riflessioni del giovane scrittore volonteroso: la salvezza dal comunismo e una certa salute morale, in quel dopoguerra, dovettero essere grazie alla Comunione dei santi, ai molti ancora sani, in una società che conteneva in sé più meriti che demeriti, società "non ancora affrancata da Dio secondo gli schemi laicisti, né infognata nei peccati della carne, come sarebbe stata in seguito".
  Il futuro augurato "attraverso quale procedimento storico? Cioè - scomparso il fascismo - attraverso quali altre vie di fatto?" L'autore conclude che Togliatti fu uomo della Provvidenza, inconsapevolmente, come Mussolini lo era stato. Infatti il capo del PCI aveva ordinato di attenersi alle regole democratiche e non sgarrava, sebbene non fosse creduto e i partigiani rivoluzionari disubbidissero perpetrando ammazzamenti. Egli avrebbe condotto in tal modo il partito sapendo come si svolgeva il comunismo in Unione Sovietica, dove il fuoruscito aveva conosciuto le torture e alle uccisioni di comunisti occidentali del tutto innocenti. Il sistema democratico impediva l'eliminazione dei capi come invece accadeva oltre la Cortina di ferro. Egli lasciava credere che lo si credesse un falso democratico. Tuttavia si proponeva la dissoluzione dei partiti avversari, specie dei cattolici.
  Più avanti, parlando della dissoluzione degli anni '60 e '70, l'autore vedrà il compimento del disegno, conforme alla dottrina di Gramsci, ossia mediante la conquista della cultura e della scuola.
  Ma se la democratizzazione del marxismo, che scongiurava la violenta presa del potere da parte del PC, condusse al subdolo predominio culturale dovuto all'ideologia gramsciana, ancor più deleterio, essendo tenace corruzione degli spiriti, di quale Provvidenza s'era mai trattato riguardo a Togliatti?
  Dedito al suo dovere sociale, alla sua missione cristiana, Michele si istruisce leggendo Maritain e Mounier, cattolici francesi. Si aggiorna sugli autori inglesi e americani. Fa amicizia con John Burns, che da Oltre Oceano è venuto nei panni di militare a Napoli, per stabilirsi successivamente nel nostro Paese..
  Egli ebbe la cocente delusione di scoprirvi l'inciviltà e la bassezza degli USA, un paese come un altro, che ostentava la sua presunta superiorità propagandando falsi ideali democratici e filantropici, mentre perseguiva la ricchezza e il benessere materiale a danno degli altri. Il Burns se ne rese conto a partire dall'ignobile comportamento di ufficiali e soldati, che sfruttavano la miseria dei napoletani, mentre il loro governo militare lasciava i vinti nel caos. Il Burns scrisse allora La Galleria (Garzanti, 1947), che fece scalpore quanto La Pelle di Curzio Malaparte, e riscosse gli elogi della critica, ma presto scomparve nell'oblio insieme allo scrittore, ostracizzato per le sue opere successive, morto a Roma nel 1953.
   Eugenio Corti si limita ad accennare allo scambio di vedute di Michele con l'interessante collega, il quale osserva che gli italiani moderati mostrano ingenua gratitudine all'America del Piano Marshall. Corti evita di approfondire il ruolo avuto dagli Stati Uniti nella successiva trasformazione dell'Occidente.
  Dopo il '48 si sarebbe vissuti di rendita sui cinque anni precedenti, per poi ricadere in un nuovo declino. Viene da obiettare quale proficuo patrimonio si fosse guadagnato in quei cinque anni, al di fuori di una precaria maggioranza parlamentare, che assicurava una certa efficienza del potere esecutivo.
  Andrea Marsavi, il giovane imprenditore del salumificio, sposa Francesca Riva. Suo fratello Ambrogio impalma Fanny. Nel loro viaggio di nozze visitano il fido ex attendente-contadino, nel podere condotto a mezzadria. L'Umbria tradizionale, bucolica e francescana, sta per essere rivoluzionata dalla giustizia del sole dell'avvenire.
  La revoca dell'unione doganale (1952) decretata dalla Francia, provoca una subitaneo e drastico taglio delle esportazioni di non pochi prodotti. Le manifatture Riva restano coinvolte nella perdita di forniture, colpiti da una crisi finanziaria che porta sull'orlo del fallimento. Fanny mal sopporta il clima di apprensione per gli affari, pur restando al suo posto di moglie e di madre. Licenziamenti, dichiarata l'occupazione di una fabbrica e chiasso dei comunisti.  Per lunghi anni la famiglia non verrà fuori dal travaglio in cui si barcamena sotto la guida assunta da Ambrogio, essendosi ritirato, per dedicarsi ad altra attività, Fortunato, l'unico liberale dei fratelli, restio a preoccuparsi di conservare l'occupazione delle maestranze.  
  Lavorando a un romanzo-saggio, l'insegnante Michele concepisce la scristianizzazione, cominciata con l'umanesimo, il principe Valentino e il Machiavelli. L'arresto del fenomeno paganeggiante si ebbe con la Controriforma, opposta al protestantesimo. Intanto, nel cattolicesimo si forma la confusione rispetto al marxismo.
  Nelle elezioni del 1953 la DC perde la maggioranza assoluta. Il governo è in difficoltà, essendo condizionato dalle alleanze che, per farsi valere, mettono bastoni fra le ruote e pospongo al proprio, l'interesse nazionale, secondo il gioco democratico. Invano, De Gasperi ha promosso la legge elettorale che avrebbe assegnato un maggior numero di deputati al partito uscito vincitore dalle urne. I comunisti, scatenando una campagna contro la legge truffa hanno avuto la meglio.
  Agli inizi degli anni '60, gli industriali, soggetti a gravi e periodiche difficoltà, sono tartassati e sottoposti a calunnie dalla stessa televisione, influenzata dalle sinistre. Il salumificio Marsavi incappa in una recessione superiore a quella subita dagli stabilimenti Riva. Il modello di vita proposto dalla TV è cattivo, dovrebbe essere quello degli alpini e degli antichi popolari. Viceversa l'eroe nuovo è progressista, irreligioso, romanesco scroccone e votato all'arte di arrangiarsi. Michele sembra l'unico a rendersene conto. I Riva non ci sono ancora arrivati. La minaccia rossa permane nonostante il benessere. Il cavallo di battaglia dell'antifascismo ha sempre un brutto carattere strumentale. Gli intellettuali laici sono soggiogati dal materialismo e dal liberalismo. Le calunnie prendono di mira Pio XII, già confortato da un'apparizione di Cristo, che venne derisa. Così s'intende attaccare, screditare la sua Chiesa.
  Michele compone un dramma che il grande critico Apollonio ritiene un capolavoro. Questi comincia ad essere messo in disparte da Grassi e Strehler, signori del Piccolo teatro. Si trova che la tragedia, ambientata in Russia, ha colore politico; sebbene il politico Brecht ottenga un successo enorme e nessuno trovi niente da eccepire. Dunque il marxismo ha vinto. Recensori, cultura, tutto va a sinistra.
  Un regista cattolico sostenuto dalla DC rifiuta di rappresentare il lavoro di Michele; adduce il pretesto d'avere una programmazione completa per i prossimi due anni. Quando Michele cerca di perorare la propria causa, il grand'uomo di teatro gli sbatte in faccia i suoi meriti nella Resistenza, che risultano invero oscuri, di certo esigui. Apollonio deve mettere pace fra i due ed abbozzare. All'aria aperta, considera: "Adesso tutti applaudono quel sant'uomo di papa Giovanni, e fanno bene; il fatto strano - che non torna - è però che applaude anche chi non dovrebbe. E in primo luogo i comunisti".
  Il drammaturgo: "Il papa sta di fatto abbassando le difese nei loro riguardi".
  Apollonio ammette che "la confusione non è poca".
  L'editore stesso si tira indietro: esclude di poter pubblicare il dramma. Un impresario accetta di metterlo in scena; ha chiesto senza indugio la sovvenzione statale. Ma alle prove: una sgradita sorpresa. Gli attori recitano leggendo la parte ad un leggio e a quel modo si svolgerà lo spettacolo. Michele è tentato di mandarlo a monte. Poi cede alle aspettative di sua moglie e a qualche concessione del capocomico e del regista, entrambi affermati nella professione. Alla prima, il teatro è pieno, presenti la stampa, importanti addetti ai lavori, gli zii e i cugini di Nomana; ma si trova il modo di operare una sorta di taglio del testo, dando inizio al secondo atto a sala ancora semivuota. Nonostante gli applausi, la recensione positiva dell'Osservatore Romano e di qualche foglio indipendente, gli stessi giornali democristiani partecipano alle stroncature, agli  insulti. L'esperimento è da considerarsi privo di seguito, non lascerà un segno sul pubblico. La televisione ha disdetto la prevista messa in onda. Ha prevalso la viltà del conformismo.  
  Siamo al 1968. Nel paese in cui risiedono i Marsavi (Andrea e Francesca), agisce un prete scandaloso, progressista, che sobilla gli operai. I giovani lavoratori sono corrotti, molti di loro lo seguono. Acli e Cisl, populisti scriteriati, vanno d'accordo con la Cgl, con i PC. Il parroco è sconcertato dai capricci di studenti e dipendenti cui non manca nulla. All'assenteismo - comportamento inedito nel tempo andato - s'accompagna l'aumento delle paghe e dei diritti. Gli studenti si compiacciono delle idee della rivoluzione culturale, del nuovo corso inaugurato da Mao, e ne ignorano i metodi criminali. Lo strapotere dei sindacati sottomette i politici.
  Ambrogio e Fanny hanno tre figli, hanno superato i disaccordi coniugali. In un momento di strano abbandono, di vagheggiamento del passato, egli ha mandato a Colomba, vedova con prole, un biglietto di auguri. Ciò li porta a un incontro struggente, edificante, perché entrambi frenano l'impulso del loro amore preservando onore e fede sponsale. Tuttavia il loro eroismo anacronistico, ottenuto non senza intimo combattimento, saprà condurli sino in fondo nella vecchia e usata integrità, sino al termine dell'esistenza?
  1974. Michele vede nell'instaurazione del divorzio in Italia la fine d'un periodo di civiltà. Sin d'ora, il senso etico e i preti sono permissivi verso i rapporti prematrimoniali e l'adulterio. Però la nuova morale è immorale.
  Assistiamo alla scena di Filippo e Manno, i figli universitari di Ambrogio, in auto sulla superstrada e diretti a Nomana. Il traffico è intenso, la campagna è scomparsa, il paesaggio appare snaturato, ma i ragazzi ci sono cresciuti e non lo sanno. Anche al villaggio, le nuove costruzioni internamente confortevoli e di varia foggia, alcune stravaganti, di cattivo gusto, predominano avulse dal vecchio borgo rimpiccolito, e alterano lo sfondo stagliandosi sulle care montagne.
  Filippo vivace, estroverso, frequenta la Statale; Manno la Cattolica. I giovanotti discutono sui temi attuali. L'università pubblica è un caos. Alla Cattolica non va molto meglio. Manno si batte con Michele per il referendum sul divorzio, perché la legge divorzista sia abolita. I politici democristiani tradiscono la loro insofferenza nei riguardi del movimento antidivorzista. All'ateneo fondato da padre Gemelli, dal Gemellone quasi sopportato dai genitori, il preside di facoltà Apollonio cacciò via una professoressa ripristinando un certo ordine. Prima di morire, ormai critico emarginato, scrisse intorno al "mondo cattolico infrollito". Manno confida nella vittoria, sebbene nella sua università agli oratori contrari al divorzio sia impedito di tenere conferenze. Filippo, detto Popi, accetta invece la qualifica di "qualunquista".
  L'Italia sta andando a rotoli nei costumi e nell'ordine pubblico. Borghesi e rossi associati per ottenere il divorzio, quando il successo dei cattolici potrebbe segnare l'inversione di rotta degli italiani.
  A Nomana emergono i figli contestatori, indocili verso papà e mamma, emerge la droga. Il ragazzo di Pieretto, dopo aver lasciato il seminario, ha partecipato a cortei di protesta, ha bruciato macchine. Il prete del paese, che dirige un giornale progressista, prende le sue difese, lo tiene partecipe alla redazione. I progressisti bazzicano un bar nel centro dell'abitato, come fosse casa loro. Sono per i comunisti del Vietnam, contro l'imperialismo americano, che continua dopo l'evacuazione dell'esercito dalla penisola vietnamita.
  Qui, ci manca l'accusa rivolta al liberalismo anglosassone, formulata dal cattolico avveduto. Invece è azzeccata la diagnosi che individua il plagio attuato dagli organi d'informazione e dai centri culturali, conquistati per mezzo della via tracciata da Gramsci alla politica comunista. Gli stessi cristiani avrebbero distrutto la loro civiltà e infine la fede, avviando l'ateismo. Un processo europeo, che si diramava dalla Francia.
  I seminari si svuotano. Il benessere succeduto alle ristrettezze del dopoguerra, tuttora perseguito, tiene la gente inquieta e scontenta. Si riaffaccia la crisi dovuta all'aumento dei salari e alla chiusura di fabbriche. Michele costata il tradimento delle Acli e dei sindacati, l'ignavia di un clero inerte. In regioni come la Valtellina, dove egli si reca a tenere comizi, i cattolici tralignano in buona fede. Ci sono tanti qualificati campioni dell'illuminismo, che coprono - naturalmente a fin di bene - i crimini comunisti.
  A questo punto giunge lo sproposito. In seguito allo smascheramento del mondo comunista, allorché sarebbero state rivelate le stragi e le guerre tra paesi e genti marxiste, ci sarebbe stato un risveglio cristiano, cui avrebbe contribuito il vigoroso papa polacco. E il Corti osserva che "sarebbe stato proprio lo scossone della sconfitta nel referendum sul divorzio a costituire il principio del risveglio".
  Purtroppo la realtà storica dice altro, dice ancora una volta che un albero cattivo (l'albero italico era senza dubbio troppo deteriorato, abbisognava di un radicale risanamento) non può produrre buoni frutti.  
  Inoltre non si sarebbe più trattato di comunismo. Il procedimento della dissoluzione anticattolica avrebbe mirato altrove, essendo rilevato da poteri dissimulati, plutocratici, per i loro interessi.
  

Piero Nicola

giovedì 13 agosto 2015

11 agosto 2015: nono anniversario della morte del professor Auriti (di Luciano Garofoli)

Supplica alla Madonna di Fatima per la difesa dell’umanità dalla grande usura

Madre Santissima, oggi i popoli del mondo sono soffocati ed oppressi sotto il peso della grande usura che li espropria del loro denaro e dei loro beni. I popoli del terzo mondo, prima di essere dilaniati dalla fame, sono dilaniati dal debito.
Noi ti supplichiamo, Madre di Dio e Madre nostra, di intercedere presso il tuo Santissimo Figlio, perché liberi l’umanità dall’angoscia imposta dai padroni del denaro.
Fa’ che sin dall’emissione, ogni popolo sia riconosciuto proprietario e non debitore del suo denaro.
Fa’ che si sostituisca finalmente alla moneta debito, la moneta proprietà, al numero della bestia, il numero dell’uomo e che l’umanità possa vivere tempi nuovi a dimensione umana.
Con approvazione ecclesiastica





Il Santuario della Madonna dei Miracoli di Casal Bordino, ti sovrasta e ti abbraccia allo stesso tempo, con la sua vasta mole al lato di una grande piazza chiusa da una fila di edifici che sembrano sue braccia strette intorno a te.
Provo un certo tipo di emozione un qualcosa di strano ed intenso allo stesso tempo: gli amici sono arrivati dalla Romagna, dalla Puglia, dalle Marche, io dall’Umbria e dall’Abruzzo i più.
Rocco Carbone è lì ad aspettarci con il suo viso sereno e serio, ma che di certo non è musone o peggio sprizzante rancore o malignità!
Rocco ci guida dentro la bellissima chiesa: grande, solenne, ma inondata di luce con sopra l’altare maggiore la statua della Santissima vergine avvolta in un manto azzurro e con una corona d’oro in testa.
Da lontano arriva, camminando lentamente, una piccola figura di religioso è Padre Colombaro; capelli bianchissimi, occhiali di metallo dorato che cerchiano occhi serafici, che emanano dolcezza, pace, serenità. Sono lo specchio di un’anima che totalmente si è donata a Dio, che ha permesso a Lui di prenderne totale possesso e che segue solo la sua volontà con gioia e soprattutto senza timori, o paure vane, con un senso di sicuro e fermo abbandono.
Quando comincia a parlare anche la voce contribuisce ad aumentare questa atmosfera di coinvolgente, direi quasi contagioso senso di benessere e di atarassia, di distacco dagli affanni, delle passioni, dalla vanità del quotidiano.
Mi pare di stare in un altro mondo!
Ci racconta di quando un giorno il professor Giacinto Auriti si presentò in sacrestia mentre lui si accingeva a celebrare la Santa Messa: con umiltà, rispetto disponibilità il professore chiese a Padre Colombaro se poteva avere l’onore ed il grande privilegio di servigli la Messa.
Fu un chierichetto perfetto: concentrato, attento e soprattutto assolutamente assorto nella sua preghiera personale. Si era presentato senza dire niente di sé, di quale ruolo ricoprisse, senza vantarsi o peggio pretendere in funzione del rango e del riguardo della sua posizione. All’epoca era Prorettore dell’Università di Teramo e titolare della cattedra di Teoria Generale del Diritto; don Giacinto era fatto così! Qualche momento prima era in mezzo ai campi a parlare con i suoi operai di coltivazioni e subito dopo, con le stese scarpe sporche di fango, saliva in cattedra a parlare di moneta, di diritto, di signoraggio ai suoi ragazzi rapiti da quello che diceva.
Padre Colombaro ci ha raccontato di un episodio davvero particolare. Il professor Auriti stava passeggiando con la moglie sulla spiaggia di Casal Bordino, quando la sua attenzione fu attratta da un pezzo di vetro che sporgeva dalla sabbia. Lo raccolse, era un fondo di bottiglietta su cui erano impressi dei numeri. Cominciò a pensare, spinto da una forza interiore, cosa mai volessero dire quei numeri, mentre stava tornando a  casa incontrò una signora anziana che conosceva la quale ex rupto gli disse di giocare quei numeri al Lotto e con il ricavato della vincita costruire un chiesetta dedicata alla Madonna di Fatima. In effetti i primi due erano 13 e 5 il giorno ed il mese dell’apparizione mariana più famosa del mondo.
Detto fatto consegnò una banconota da diecimila lire alla moglie e le disse di giocare quei numeri. La signora pensò che la somma fosse troppo alta e giocò soltanto mille lire. Totale uscì una quaterna secca!
Padre Colombaro ci dice che il professore era un Cristiano “completo”, in quanto perfetto è soltanto  Dio e lui essendo una creatura non poteva essere al pari del Signore. Prima di lasciarci il padre benedettino ci dà una benedizione particolare, sempre con molta carità e dolcezza alzando gli occhi al Cielo per invocare tutta la potenza divina, quella stessa che invocava durante gli esorcismi, che su incarico del vescovo, eseguiva per la diocesi di Chieti. Ancora oggi qualcuno lo prega di voler aiutare queste infelici creature a liberarsi dal maligno: ma lui si limita soltanto a benedire solennemente in quanto praticare esorcismi è possibile soltanto con il mandato conferito dal Vescovo. Gli effetti che sortiscono da queste benedizioni è esattamente lo stesso r la pace torna in quelle creature.
Facciamo qualche chilometro costeggiando l’Adriatico “aspro e selvaggio” e arriviamo a Brecciaio una frazione di Sant’Eusanio del Sangro.
E’ qui che, con i soldi della vincita del lotto, Auriti costruì la famosa chiesetta come gli aveva raccomandato la signora anziana. Donò anche il terreno: ma la cosa più bella fu che costruì la chiesa in modo tale che un ulivo secolare fosse esattamente nel posto dell’altare: lo fece segare,  il troncone è diventato la base dell’altare ed il resto, è il piano di appoggio della mensa eucaristica: il tutto molto suggestivo. Anche questa chiesetta, donata alla Contrada, è luminosissima: la statua della Madonna di Fatima incoronata sovrasta in modo discreto, direi materno, ma assolutamente non invasivo l’altare: assiste alla celebrazione della Messa, ne è compartecipe come, ai piedi della croce, fu compartecipe della passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo e Corredentrice dell’Umanità.
In una nicchia sono conservati degli abitini da battesimo bianchi, come riconoscenza per la grazia di una nascita ottenuta grazie all’intercessione della Vergine di Fatima, ma c’è anche conservata una collana d’argento ed il medaglione che altri non è che il famoso fondo di bottiglia con incisi i numeri della quaterna.
Quando ce lo mostrano mi prende una certa emozione: ha qualcosa di ieratico nella sua semplicità ed assoluta povertà di materiale in cui è fatto!
L’ultima parte della giornata di questa specie di pellegrinaggio non ha di certo lesinato emozioni. Siamo stati ospiti della famiglia del professore a Guardiagrele il suo paese natale.
Una bellissima casa gentilizia appena entrati nell’androne l’onda dei ricordi: lui seduto dietro un tavolo che cambiava le lire con i Simec [1] alla gente che accorreva dalla riviera e dai paesi vicini per poter comperare merce praticamente a metà prezzo.
Quel giorno il professore era raggiante: finalmente vedeva calata nella realtà la sua teoria monetaria, anche io comperai tutta la serie di Simec che ancora conservo chiusi in una busta firmata da lui.
Purtroppo qualche giorno dopo, una ventina di auto della GdF ed altrettante tra Carabinieri e Polizia circondarono il paese: i militi in tuta d’assalto, sequestrarono tutti i Simec in circolazione fermando la gente in strada ed entrando nei negozi per prelevarli con la forza. Le solite “trombatopate” italiane, nemmeno avessero dato la caccia a pericolosi terroristi o dovessero arrestare Bin Laden!!
Ci siamo ritrovati, pieni di commozione, intorno ad un tavolo insieme alla moglie del professore la signora Rachele a tutti i figli: Michela, Francesca, Clelia, Filippo e Raffaella ed una serie di testoline bionde che educatamente arrivavano, a folate, per prendersi dei piccoli bastoncini ripieni di cioccolato.
 Chi crede, come me, nella Comunione dei Santi ha sentito forte aleggiare la presenza dello spirito di Don Giacinto che sorridente abbracciava e pregava per tutti noi. Ognuno con spontaneità e senza nessuna remora ha raccontato episodi, piccoli particolari, ricordi intensi e bellissimi vissuti insieme  a lui.
Di aneddoti ce ne sono tantissimi ve ne presento due. Il primo lo raccontava spesso   Don Giacinto stesso, quindi di prima mano se vogliamo. Quando era Rettore dell’Università di Teramo organizzò un grande convegno internazionale su temi monetari. Tra i vari relatori invitati c’era anche l’allora Cardinale Joseph Ratzinger prefetto per la Congregazione della fede. Il professore ebbe molti colloqui e contatti con lui. Una volta mentre si recava a fargli visita nel palazzo della Congregazione, doveva attraversare un portico con al centro un pozzo. La sua attenzione fu attratta da una strana figura vestita di nero, con sembianze umane, ma dai lineamenti molto particolari, direi quasi deformati, dall’aspetto quasi demoniaco. Questo essere era appoggiato al pozzo e lo guardava con un sorrisetto sardonico. Il professore capì che era il maligno e gli gridò: “Non mi fai paura”. L’altro con il solito sorrisetto stampato sulle labbra disse che lo sapeva, ma che comunque si sarebbero rincontrati e poi si gettò nel pozzo!!
L’altra più che un aneddoto è forse una leggenda metropolitana a cui ognuno può dare il valore che vuole, ma che di certo ha il finale caratteristico del carattere focoso ed impulsivo di Auriti.
Era il tempo appena successivo al sequestro dei Simec, alla denuncia del Governatore Ciampi per truffa, appropriazione indebita, falso in bilancio ed istigazione al suicidio: già la consorteria bancaria, all’unisono,  ligia agli ordini superiori, aveva cominciato a chiedere il rientro dagli scoperti sui suoi conti correnti.
Strane circostanze tutte insieme le banche che chiedono la stessa cosa.
Al professore viene chiesto un appuntamento da due alti dirigenti dello stato e lui glielo concede: argomento la composizione dei vari contenziosi giuridici aperti nei suoi confronti. La Ragion di Stato questo consigliava per prudenza e per convenienza di entrambe le parti.
 I funzionari arrivarono e furono ricevuti in casa Auriti: dopo una presentazione riassuntiva della situazione, uno dei due, più pragmatico e se volete più audace, estrasse un blocchetto di assegni e disse al professor Auriti di scrivere lui la somma per porre fine al tutto. La reazione da parte sua fu allo stesso tempo fulminante e furiosa: partì lancia in resta inondando i due poveri malcapitati di una tempesta di epiteti, riaffermò che lui non era in vendita e che in quella casa da secoli si praticava soltanto onestà ed integrità morale. Alla fine li cacciò in malo modo.
Ognuno dia un suo giudizio in materia: tutto può essere romanzato, o reale sicuramente quello che è la verità è la reazione finale e la cacciata dei funzionari da casa sua come quella dei demoni da Arezzo operata da San Francesco d’Assisi. 
L’ultimo saluto è stata una preghiera davanti alla cappella dove Giacinto Auriti è sepolto, tutti raccolti e compresi.
Mi piace ricordarlo così da quel punto di vista umano e “perfettamente” cristiano che erano la sua più intima e fortissima essenza.
Don Giacì siamo sicuri che farai più danni ai “giganti della malavita” da lassù di quelli (tanti) che già quaggiù gli arrecasti, anche perché mi pare di vederti mentre continui implorare, con insistenza, il Padre Celeste di liberare i suoi figli dal cancro dell’Usura.

Luciano Garofoli




[1] Simbolo monetario econometrico.

mercoledì 12 agosto 2015

L'imperdonabile militarismo di Simonetta Scotto

 La pace, alzi una mano chi osa non amare la pace. Nessuno è astrattamente contrario al disarmo totale, alla drastica abolizione della qualunque arma, dalla bomba H al coltello da cucina e alla forchetta oculistica.
 Un orizzonte color rosa è peraltro scolpito, nei cuori teneri e in quelli duri, dalla magia al potere nel salotto autorevole, su cui scendono petali di garofani e di crisantemi.
 Se non che anche le mani dell'uomo possono fungere da armi. Anche il karate può ferire e uccidere. Purtroppo il pacifismo radicale dovrebbe passare attraverso la mutilazione delle armi anatomiche. Uomini senza mani avanzerebbero sulla via del pacifico futuro.
 Forse non avanzerebbero neppure, visto che anche i piedi possono ferire e uccidere. Il disarmo totale contemplerebbe un dolente corteo di mutilati sulle quasi immobili carrette del Settecento francese disegnato da Jacovitti.
 Il pacifismo estremo allestirebbe, infatti, una scena da corte dei miracoli. La perfetta pace, in questo mondo, manderebbe in onda un film dell'orrore, per il divertimento di vescovi ubriachi.
 Sappiamo finalmente che l'ombra bieca e feroce del karate divora, confuta e ridicolizza il pacifismo perfetto, che è annunciato dalle allegre (gaie) grancasse del partito radicale.
 Dispiace ma si è obbligati a malincuore a riconoscere che armi e armati al momento non possono essere aboliti. Gli eserciti del salotto hanno debellato le dittature non le baionette, che, peraltro, costituiscono materia di un suo sapiente, occulto e fruttuoso traffico.
 La totale utopia pacifista, sopravvive in un cortile psicotico, allestito da maghi onusiani e applaudito da monsignori (europei e sudamericani) ubriacati e folgorati dalla nouvelle théologie.
 Rimane la tenue speranza in un'astratta potenza, capace (si spera) di fare uso buono e ragionevole delle armi. E' questo il tema dei racconti della scrittrice Simonetta Scotto, concepiti alla luce "dei princìpi a cui i miei protagonisti non vengono mai meno: il Dovere, l'Onore, la Lealtà, il Sacrificio".
 I libri di Scotto sono dichiarazioni di guerra alla sragione circolante nel salotto chic. Non per caso i racconti della scrittrice genovese sono dedicati ai marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, imprigionati dalla polizia di un paese i cui tribunali (con rispetto ecumenico parlando) nutrono pensieri discendenti dal tenebroso delirio teologico saettante nella Bhagavad Gita.
 Di Simonetta Scotto è uscito in questi giorni un avvincente racconto O con lo scudo o sullo scudo, pubblicato a Tricase di Lecce.
 In nomi dei protagonisti - Steve e James - hanno un suono americano, ma l'autrice precisa che essi incarnano idealmente tutti i protagonisti della lotta contro i malavitosi, i ciechi, arnesi del nichilismo alto, che promuove lo spaccio della droga in esecuzione di un mortifero piano  di stampo malthusiano.
 La tesi che attraversa il fascinoso racconto di Scotto contempla l'arduo obbligo di associare il rispetto delle regole alla mano pesante dei militari, che deve essere impietosamente calata sui criminali che governano i cartelli dello spaccio.
 L'opera di Scotto contribuisce all'affermazione di una cultura refrattaria ai fantasmi della democratica indulgenza nei confronti del vizio in corsa sfrenata nella terra del tramonto, in vista della finale catastrofe ecumenica in arrivo dai paesi islamici.


 Piero Vassallo

lunedì 10 agosto 2015

Ripristinare la naja? Buona idea. Ma con quali criteri? (di Paolo Pasqualucci)

Della recente proposta dell’on. Salvini mi sembra abbia parlato solo “Il Giornale” in un articolo di G. De Lorenzo, del 29 luglio 2015, in termini elogiativi, formulando anche alcuni possibili criteri.  Non so se questi criteri siano del tutto personali del giornalista o se riflettano anche il pensiero di chi sta elaborando la proposta dell’on. Salvini.
In sintesi, il nuovo servizio militare obbligatorio potrebbe esser così articolato: 
1.  Sei mesi di addestramento obbligatorio per i ragazzi, solo volontario per le ragazze. 
2.  Paga dignitosa.
3.  Strutture organizzative nuove da aggiungersi alle attuali.
4.  Uso di questi giovani anche per “calamità naturali” o lotta alla criminalità.
5.  Da considerare il costo, che inciderebbe sul bilancio della Difesa, già striminzito.

La naja viene invocata per i giovani a causa del suo aspetto formativo sul piano del carattere.  I ragazzi vi imparano la disciplina, il rispetto per l’autorità, il senso dell’ordine.  Oggi sembra ne abbiano particolarmente bisogno.  Il servizio militare obbligatorio verrebbe dunque giustificato moralmente soprattutto per il valore educativo nei confronti dei giovani e anche per il vantaggio che procurerebbe alle famiglie, togliendoli per sei mesi dal loro bilancio, visto che per quel periodo camperebbero a spese dello Stato.

O s s e r v a z i o n i  :

1.  Sulle motivazioni.  Mi sembrano giuste ma incomplete.  Si vede la cosa soprattutto dal punto di vista della formazione del giovane e delle famiglie.  Ma il servizio militare non si giustifica innanzitutto con l’esigenza di difendere la Patria?  Il cittadino “in armi” impara l’arte della guerra per potere difendere un domani la Patria, la casa comune, tutti noi, anche con la forza, se necessario.  E qui la forza è la guerra:  addestrarsi a fare la guerra non a soccorrere i civili nelle calamità naturali o a dar la caccia ai delinquenti.  Addestrarsi a combattere, ad uccidere il nemico con le armi, sapendo che si può essere uccisi.

Quindi, due osservazioni

a. Non si ricorda il motivo obiettivo, patriottico e di difesa nazionale del servizio militare obbligatorio, giustificato dall’esistenza di un bene comune a tutti, spirituale e materiale (beni, territorio), per il quale l’individuo deve esser pronto a sacrificare la vita combattendo, se necessario.  Non si tratta solo di contribuire alla formazione del carattere dei giovani.   
b.  Si perpetua la strana idea che l’esercito abbia tra i suoi compiti istituzionali quello di aiutare nella lotta alla delinquenza organizzata o di soccorrere nelle calamità naturali.  Errore grave:  il compito delle forze armate è solo quello di addestrarsi a combattere, a fare la guerra, non quello di sostituirsi alla polizia e alla protezione civile o di affiancarvisi in modo significativo.  Ciò può avvenire, naturalmente, ma dovrebbe aver luogo solo in presenza di eventi assolutamente eccezionali e per periodi brevi.

2.  Mi chiedo poi se sei mesi non siano troppo pochi.  E questa è la terza  osservazione. Si dovrebbe trattare di un servizio militare moderno, non macchinoso e burocratico come quello del vecchio esercito da caserma.  Giusto.  Però bisogna chiedersi:  che tipo di addestramento si vuole dare?  Se si vogliono costituire veramente delle “riserve addestrate” e non accontentarsi di una “pre-militare” che alla fine lascia il tempo che trova, allora penso ci vorrebbero almeno otto o dieci  mesi.  L’ideale sarebbe un anno, secco, obbligatorio per tutti i maschi appena finite le scuole superiori (a 18 anni), così nessuno sarebbe svantaggiato rispetto agli altri, e senza esenzioni di alcun tipo.   Un anno per tutti, escludendo le ragazze.  Che anzi non dovrebbero esser ammesse, nemmeno  come volontarie.  La promiscuità imperante oggi in tutti gli eserciti “occidentali”, in nome dell’ugualitarismo femminista, non è una buona cosa, lo sanno tutti, anche se è proibito dirlo.  Obbliga ad abbassare gli standard di addestramento, perché le donne sono più deboli fisicamente, fa aumentare i costi, fa allentare la disciplina e crea non poche volte situazioni di disagio dal punto di vista morale.  Le donne, a parte qualche eccezione individuale, non sono tagliate per la guerra.  Gli israeliani, che hanno uno dei migliori eserciti del mondo, a causa della scarsità della popolazione le costringono al servizio militare ma non le impiegano mai in reparti combattenti, per limiti evidenti.
Tornando alla durata della ferma.  Inizialmente i giovani devono imparare a salutare, marciare, attenti-riposo, insomma tutti gli aspetti puramente formali della naja, noiosi ma indispensabili se non si vuole avere un’armata brancaleone.  Si può ridurre questo tempo a poche settimane, occupate anche da addestramento teorico e dai primi esercizi di tiro.  Se però la recluta deve costituire il serbatoio di una riserva addestrata per il futuro, non si può limitare la sua preparazione a nozioni teoriche e all’apprendimento (non specializzato) dell’uso delle armi.  Esaurito un breve ma (si suppone) intenso periodo di addestramento di base deve esser mandata a quello che una volta si chiamava il “reggimento operativo”, le unità che costituiscono effettivamente l’esercito dal punto di vista operativo, al fine di completarvi l’addestramento stesso. E qui i tempi si allungano, se si vuole che le reclute diventino effettivamente dei soldati, anche solo di leva.   Non solo devono imparare bene ad usare le armi, ma devono sottoporsi a ripetute e complesse esercitazioni di diverso tipo, di giorno e di notte, con ogni tempo, integrandosi il più possibile con la componente permanente delle forze armate.  E non credo che 4-5 mesi sarebbero sufficienti, per raggiungere buoni risultati.  Per le esigenze di un esercito moderno, un anno sarebbe il minimo. Un anno, comunque, non sarebbe una tragedia; passerebbe presto, per un giovane di 18 anni, se il servizio militare fosse fatto bene. Alla maggior parte dei giovani addestrarsi a fare la guerra per difendere la Patria, piacerebbe di sicuro, pur trattandosi di un’attività faticosa e anche pericolosa, è inutile negarlo.  Ma piacerebbe solo nel caso fossero impegnati in modo efficace, continuo, sul campo, se avessero sempre la sensazione di esser comandati ed addestrati bene e utilmente al fine per il quale sono lì.

3. E circa la paga, quarta osservazione.  La paga deve esserci, è ovvio, ma non si può pretendere che sia gran che.  “Dignitosa”, certo.  Tutto sta ad intendersi sul significato del termine.  Tanto il denaro extra da spendere in libera uscita, i militari di leva se lo fanno mandare sempre da casa, in un modo o nell’altro, e si tratterebbe sempre di piccole somme, per la famiglia.  Piuttosto che ad una “paga” per i coscritti, sarebbe bene pensare ad un sistema di vitto basato su mense-tavole calde di buon livello all’interno delle caserme (magari comuni a ufficiali, sottufficiali e soldati:  finite le esercitazioni giornaliere, “rancio” uguale per tutti) e ad un equipaggiamento all’altezza, come qualità e quantità del materiale.  C’è poi il problema del costo dell’addestramento.  Fondamentale per gli eserciti moderni è la possibilità di poter fare numerose esercitazioni a fuoco, con proiettili veri.  Bisognerebbe poter sparare spesso, con tutti i tipi di armi. Occorrono tante munizioni e le munizioni costano.  

4.  C’è infine l’aspetto politico. Qui entriamo in un altro campo, che tuttavia non si può ignorare, anche se esula dai problemi della naja in senso stretto. Voglio dire, il problema posto dall’infausto art. 11 della Costituzione che in pratica ci impedisce di fare la guerra, in generale, e in sostanza di difenderci.  Fu scritto nella logica dell’antifascismo al tempo dominante e fors’anche per servilismo verso i vincitori, eravamo nel 1946-1947; logica non solo antifascista ma (con qualche eccezione) antipatriottica e antiitaliana.  Il testo recita:  “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.  Al Giappone è andata anche peggio.  L’art. 9 della sua costituzione, imposta in pratica dal generale americano Mac Arthur dice:  “il popolo nipponico rinuncia per sempre alla guerra come mezzo di conquista della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzi per risolvere dispute internazionali”.  L’attuale governo giapponese, ci dicono le cronache, sta cercando di ricostituire finalmente forze armate degne di questo nome ma trova un grave ostacolo in quest’articolo, sul quale fa leva un’ampia opposizione nel paese, diventato in larga misura (anche se forse non maggioritaria) “pacifista”, dopo il tragico e apocalittico epilogo della II g.m.
È chiaro che in Italia bisognerebbe una buona volta eliminare la situazione equivoca nella quale sono costrette a vivere le nostre forze armate per colpa di questo art. 11 della Costituzione, a ben vedere indegno di un paese civile:  ci mette, infatti, nella condizione di non poterci difendere dalle aggressioni dei nemici esterni, ci rende inermi.  Si potrebbe tentare in futuro di modificare l’articolo, scrivendo per esempio che si rinuncia alla “guerra di aggressione” o “offensiva”,  non a quella “difensiva”, studiare emendamenti di questo tipo.  Ma si tratterebbe pur sempre di metterci una pezza.  La cosa migliore sarebbe abolire l’articolo.  Il problema è grosso, trattandosi di una riforma costituzionale, ma bisognerebbe cominciare a pensarci, specialmente se si vuol seriamente rimettere la leva obbligatoria e dotare il Paese di un esercito all’altezza delle nostre attuali necessità di difesa; che sono sempre più serie, con l’avanzarsi nel Mediterraneo dell’Islam sanguinario e terrorista, ogni giorno più spavaldo.


Paolo Pasqualucci