lunedì 10 agosto 2015

Ripristinare la naja? Buona idea. Ma con quali criteri? (di Paolo Pasqualucci)

Della recente proposta dell’on. Salvini mi sembra abbia parlato solo “Il Giornale” in un articolo di G. De Lorenzo, del 29 luglio 2015, in termini elogiativi, formulando anche alcuni possibili criteri.  Non so se questi criteri siano del tutto personali del giornalista o se riflettano anche il pensiero di chi sta elaborando la proposta dell’on. Salvini.
In sintesi, il nuovo servizio militare obbligatorio potrebbe esser così articolato: 
1.  Sei mesi di addestramento obbligatorio per i ragazzi, solo volontario per le ragazze. 
2.  Paga dignitosa.
3.  Strutture organizzative nuove da aggiungersi alle attuali.
4.  Uso di questi giovani anche per “calamità naturali” o lotta alla criminalità.
5.  Da considerare il costo, che inciderebbe sul bilancio della Difesa, già striminzito.

La naja viene invocata per i giovani a causa del suo aspetto formativo sul piano del carattere.  I ragazzi vi imparano la disciplina, il rispetto per l’autorità, il senso dell’ordine.  Oggi sembra ne abbiano particolarmente bisogno.  Il servizio militare obbligatorio verrebbe dunque giustificato moralmente soprattutto per il valore educativo nei confronti dei giovani e anche per il vantaggio che procurerebbe alle famiglie, togliendoli per sei mesi dal loro bilancio, visto che per quel periodo camperebbero a spese dello Stato.

O s s e r v a z i o n i  :

1.  Sulle motivazioni.  Mi sembrano giuste ma incomplete.  Si vede la cosa soprattutto dal punto di vista della formazione del giovane e delle famiglie.  Ma il servizio militare non si giustifica innanzitutto con l’esigenza di difendere la Patria?  Il cittadino “in armi” impara l’arte della guerra per potere difendere un domani la Patria, la casa comune, tutti noi, anche con la forza, se necessario.  E qui la forza è la guerra:  addestrarsi a fare la guerra non a soccorrere i civili nelle calamità naturali o a dar la caccia ai delinquenti.  Addestrarsi a combattere, ad uccidere il nemico con le armi, sapendo che si può essere uccisi.

Quindi, due osservazioni

a. Non si ricorda il motivo obiettivo, patriottico e di difesa nazionale del servizio militare obbligatorio, giustificato dall’esistenza di un bene comune a tutti, spirituale e materiale (beni, territorio), per il quale l’individuo deve esser pronto a sacrificare la vita combattendo, se necessario.  Non si tratta solo di contribuire alla formazione del carattere dei giovani.   
b.  Si perpetua la strana idea che l’esercito abbia tra i suoi compiti istituzionali quello di aiutare nella lotta alla delinquenza organizzata o di soccorrere nelle calamità naturali.  Errore grave:  il compito delle forze armate è solo quello di addestrarsi a combattere, a fare la guerra, non quello di sostituirsi alla polizia e alla protezione civile o di affiancarvisi in modo significativo.  Ciò può avvenire, naturalmente, ma dovrebbe aver luogo solo in presenza di eventi assolutamente eccezionali e per periodi brevi.

2.  Mi chiedo poi se sei mesi non siano troppo pochi.  E questa è la terza  osservazione. Si dovrebbe trattare di un servizio militare moderno, non macchinoso e burocratico come quello del vecchio esercito da caserma.  Giusto.  Però bisogna chiedersi:  che tipo di addestramento si vuole dare?  Se si vogliono costituire veramente delle “riserve addestrate” e non accontentarsi di una “pre-militare” che alla fine lascia il tempo che trova, allora penso ci vorrebbero almeno otto o dieci  mesi.  L’ideale sarebbe un anno, secco, obbligatorio per tutti i maschi appena finite le scuole superiori (a 18 anni), così nessuno sarebbe svantaggiato rispetto agli altri, e senza esenzioni di alcun tipo.   Un anno per tutti, escludendo le ragazze.  Che anzi non dovrebbero esser ammesse, nemmeno  come volontarie.  La promiscuità imperante oggi in tutti gli eserciti “occidentali”, in nome dell’ugualitarismo femminista, non è una buona cosa, lo sanno tutti, anche se è proibito dirlo.  Obbliga ad abbassare gli standard di addestramento, perché le donne sono più deboli fisicamente, fa aumentare i costi, fa allentare la disciplina e crea non poche volte situazioni di disagio dal punto di vista morale.  Le donne, a parte qualche eccezione individuale, non sono tagliate per la guerra.  Gli israeliani, che hanno uno dei migliori eserciti del mondo, a causa della scarsità della popolazione le costringono al servizio militare ma non le impiegano mai in reparti combattenti, per limiti evidenti.
Tornando alla durata della ferma.  Inizialmente i giovani devono imparare a salutare, marciare, attenti-riposo, insomma tutti gli aspetti puramente formali della naja, noiosi ma indispensabili se non si vuole avere un’armata brancaleone.  Si può ridurre questo tempo a poche settimane, occupate anche da addestramento teorico e dai primi esercizi di tiro.  Se però la recluta deve costituire il serbatoio di una riserva addestrata per il futuro, non si può limitare la sua preparazione a nozioni teoriche e all’apprendimento (non specializzato) dell’uso delle armi.  Esaurito un breve ma (si suppone) intenso periodo di addestramento di base deve esser mandata a quello che una volta si chiamava il “reggimento operativo”, le unità che costituiscono effettivamente l’esercito dal punto di vista operativo, al fine di completarvi l’addestramento stesso. E qui i tempi si allungano, se si vuole che le reclute diventino effettivamente dei soldati, anche solo di leva.   Non solo devono imparare bene ad usare le armi, ma devono sottoporsi a ripetute e complesse esercitazioni di diverso tipo, di giorno e di notte, con ogni tempo, integrandosi il più possibile con la componente permanente delle forze armate.  E non credo che 4-5 mesi sarebbero sufficienti, per raggiungere buoni risultati.  Per le esigenze di un esercito moderno, un anno sarebbe il minimo. Un anno, comunque, non sarebbe una tragedia; passerebbe presto, per un giovane di 18 anni, se il servizio militare fosse fatto bene. Alla maggior parte dei giovani addestrarsi a fare la guerra per difendere la Patria, piacerebbe di sicuro, pur trattandosi di un’attività faticosa e anche pericolosa, è inutile negarlo.  Ma piacerebbe solo nel caso fossero impegnati in modo efficace, continuo, sul campo, se avessero sempre la sensazione di esser comandati ed addestrati bene e utilmente al fine per il quale sono lì.

3. E circa la paga, quarta osservazione.  La paga deve esserci, è ovvio, ma non si può pretendere che sia gran che.  “Dignitosa”, certo.  Tutto sta ad intendersi sul significato del termine.  Tanto il denaro extra da spendere in libera uscita, i militari di leva se lo fanno mandare sempre da casa, in un modo o nell’altro, e si tratterebbe sempre di piccole somme, per la famiglia.  Piuttosto che ad una “paga” per i coscritti, sarebbe bene pensare ad un sistema di vitto basato su mense-tavole calde di buon livello all’interno delle caserme (magari comuni a ufficiali, sottufficiali e soldati:  finite le esercitazioni giornaliere, “rancio” uguale per tutti) e ad un equipaggiamento all’altezza, come qualità e quantità del materiale.  C’è poi il problema del costo dell’addestramento.  Fondamentale per gli eserciti moderni è la possibilità di poter fare numerose esercitazioni a fuoco, con proiettili veri.  Bisognerebbe poter sparare spesso, con tutti i tipi di armi. Occorrono tante munizioni e le munizioni costano.  

4.  C’è infine l’aspetto politico. Qui entriamo in un altro campo, che tuttavia non si può ignorare, anche se esula dai problemi della naja in senso stretto. Voglio dire, il problema posto dall’infausto art. 11 della Costituzione che in pratica ci impedisce di fare la guerra, in generale, e in sostanza di difenderci.  Fu scritto nella logica dell’antifascismo al tempo dominante e fors’anche per servilismo verso i vincitori, eravamo nel 1946-1947; logica non solo antifascista ma (con qualche eccezione) antipatriottica e antiitaliana.  Il testo recita:  “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.  Al Giappone è andata anche peggio.  L’art. 9 della sua costituzione, imposta in pratica dal generale americano Mac Arthur dice:  “il popolo nipponico rinuncia per sempre alla guerra come mezzo di conquista della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzi per risolvere dispute internazionali”.  L’attuale governo giapponese, ci dicono le cronache, sta cercando di ricostituire finalmente forze armate degne di questo nome ma trova un grave ostacolo in quest’articolo, sul quale fa leva un’ampia opposizione nel paese, diventato in larga misura (anche se forse non maggioritaria) “pacifista”, dopo il tragico e apocalittico epilogo della II g.m.
È chiaro che in Italia bisognerebbe una buona volta eliminare la situazione equivoca nella quale sono costrette a vivere le nostre forze armate per colpa di questo art. 11 della Costituzione, a ben vedere indegno di un paese civile:  ci mette, infatti, nella condizione di non poterci difendere dalle aggressioni dei nemici esterni, ci rende inermi.  Si potrebbe tentare in futuro di modificare l’articolo, scrivendo per esempio che si rinuncia alla “guerra di aggressione” o “offensiva”,  non a quella “difensiva”, studiare emendamenti di questo tipo.  Ma si tratterebbe pur sempre di metterci una pezza.  La cosa migliore sarebbe abolire l’articolo.  Il problema è grosso, trattandosi di una riforma costituzionale, ma bisognerebbe cominciare a pensarci, specialmente se si vuol seriamente rimettere la leva obbligatoria e dotare il Paese di un esercito all’altezza delle nostre attuali necessità di difesa; che sono sempre più serie, con l’avanzarsi nel Mediterraneo dell’Islam sanguinario e terrorista, ogni giorno più spavaldo.


Paolo Pasqualucci

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