sabato 28 marzo 2015

La nascosta vitalità della cultura tradizionale

 Un influente amico mi chiede d'incontrare il savonese Christian Peluffo, autore di un libro di cui mi è proposto di scrivere la prefazione. Fisso un appuntamento a Genova e poiché ho sentito citare per la prima volta il nome del visitatore immagino che si tratti di un giovane principiante, autore di un libro in cerca di editore.
 Peluffo in realtà è un dotto quarantenne, insegnante di religione, sagace e instancabile studioso, ed avvincente scrittore. Nel 2014 ha pubblicato un robusto saggio, E venne ad abitare in mezzo a noi. La rivoluzione cristiana nella storia, per i tipi di Marco Sabatelli, affermato editore di Savona. D'altra parte Peluffo mi conosce solo per recente sentito dire: l'ignoranza è reciproca e canonica.
 I pochi chilometri che separano Genova da Savona, per i cattolici irriducibili all'eresia progressista, diventano una distanza incolmabile, quasi la drammatica misura di un involontario sequestro.
 Gli studiosi impegnati nella strenua difesa della tradizione cattolica, forse a causa di inconfessati  personalismi, forse per la mancanza di uno stabile punto d'incontro, agiscono in (colposo) ordine sparso e nel (colpevole) disinteresse dei quotidiani indirizzati ai lettori, che si riconoscono negli ideali della destra ben pensante. Giornali nelle terze pagine dei quali è più facile leggere scritti vedovili, concepiti in lode di cinerei autori neopagani appartenenti alla classe dei vù inizià?, piuttosto che citazioni dei  viventi, strenui protagonisti della resistenza cattolica alla mafia nichilista, rampante nel vuoto prodotto dalla filosofia marxiana.
 Il saggio di Peluffo ad ogni modo merita di essere letto almeno dai frequentatori dei numerosi siti e dei blog attivi (in ordine rigorosamente sparso) nell'area del cattolicesimo militante.
 Peluffo, infatti, affronta senza riguardi gli incensati banditori dell'ateismo urlante nella carta stampata, e dimostra la deprimente insignificanza e la squillante stupidità dell'umanesimo ateo: "secondo l'ateologo Eugenio Scalfari l'essere umano e la mosca possiedono il medesimo valore sostanziale, mentre per Jacques Monod [un autore venerato dalla demenziale/squillante neodestra] l'uomo è soltanto un numero uscito dalla roulette".
 Peluffo contrasta e ridicolizza gli incubi che turbano il comico pensiero dei figli della roulette, e perciò fa proprie e rilancia le tesi di un grande e dimenticato etnologo cattolico, il padre Guglielmo Schmidt s. v. d., tesi di recente confermate dagli studi di un autorevole sociologo delle religioni, l'americano Rodney Stark [1].
 In un saggio di storia comparata delle religioni, edita dalla Morcelliana nel 1943, il padre Schmidt (al quale si devono, fra l’altro, alcune magistrali stroncature della teologia di Karl Barth) proponeva la seguente, rivoluzionaria conclusione: “Presso i popoli etnologicamente più antichi, i Pigmei, i Fueghini, gli Australiani sudorientali, i Californiani nordcentrali, gli Algonchini, ... il culto dell’Essere supremo raggiunge le vette più alte”.
 All’origine della civiltà umana non si trova il politeismo, tanto apprezzato dalla fantasticheria a monte dei dogmi elucubrati dagli antropologi moderni e postmoderni, ma una forma elevata (e universalmente diffusa) di monoteismo, ossia una conferma del racconto della Genesi.
 Il padre Schmidt, che leggeva e interpretava i racconti dei primitivi alla luce di un rigore scientifico incontestabile, ha dimostrato che il monoteismo delle origini fu l’effetto di una rivelazione divina e non il risultato di una ricerca condotta con il solo ausilio del lume razionale: “non c’è mai alcun indizio, scriveva nel saggio citato, che la loro [dei popoli primitivi] religione sia il risultato delle loro ricerche o esigenze, ma invece ci consta sempre che essi fanno risalire la religione all’Essere Supremo  come tale, il quale sia in via immediata sia col tramite del capostipite da lui incaricato, avrebbe comunicato e inculcato agli uomini le dottrine di fede, i precetti morali e le forme di culto”. 
 Un ampio capitolo del saggio di Peluffo è dedicato all'abuso sui minori, un'infezione vetero pagana giustificata e addirittura promossa dalla cultura emanata dalla rivoluzione sessantottina: "pur non scomparendo nella società perversioni e degradazioni, con l'avvento del Cattolicesimo le mentalità si modificò, innescando una progressiva ma autentica rivoluzione culturale, assolutamente imprevedibile prima della venuta di Cristo, il bambino venne finalmente considerato un piccolo essere umano, una persona, possessore di diritti fondamentali, come quello di vivere e, naturalmente, di essere rispettato sessualmente". Diritti oggi bestialmente negati e conculcati dalla scuola asservita a un potere politico infettato dalla mitologia francofortese & californiana.
 Peluffo di seguito affronta una delle più ostinate mitologie in corsa falsa e bugiarda contro il Cristianesimo, i dubbi, che i prelati e i teologi avrebbero manifestato sull'anima immortale delle donne nel 585, durante il Concilio di Macon.
 Peluffo, dopo aver rammentato che nel 585, a Macon, si svolse un Sinodo e non il Concilio descritto dagli storici di scuola laicista, dimostra, che durante un intervallo delle sedute, i dottori cattolici  si chiesero se il termine homo potesse essere usato per indicare entrambi i sessi nell'accezione di persona umana, e mai misero in dubbio l'esistenza dell'anima delle donne. D'altra parte Peluffo rammenta che la Chiesa cattolica "contrastò con veemenza, ponendola all'indice, la famosa opera Disputatio nova contra mulieres". 
 Di seguito sono chiariti da Peluffo i motivi dell'impostazione guelfa della attività ecclesiastica e della disperata resistenza del clero all'assolutismo monarchico. Motore della teologia gallicana l'assolutismo fu il vettore della rivoluzione anticattolica, contrastata tardivamente da Luigi XVI,  avvertito dai bestiali massacri compiuti dai giacobini nel settembre 1792, quando la follia democratica era fuori controllo.
 Rilevante è il capitolo sullo schiavismo, infezione neopagana, diffusa nel corpo dell'Europa assolutista e contrastata dalla Chiesa cattolica, impegnata a respingere i numerosi e pressanti tentativi di ridurla a semplice appendice delle monarchie. Al proposito Peluffo rammenta che l'opposizione cattolica allo schiavismo non fu imitata dalle chiese riformate, la Chiesa anglicana, ad esempio, "in quanto la sua massima autorità è lo stesso re d'Inghilterra, dunque non può stupire che le violenze e le oppressioni che la potenza inglese impartì ai neri e agli indigeni americani, non potevano essere ostacolate o denunciate dal capo dell'Anglicanesimo, primo responsabile delle stesse".
 L'opera di Peluffo, in definitiva, si raccomanda quale contributo a una lettura spregiudicata della storia e in ultima analisi quale aggiornata apologia di un Cattolicesimo refrattario al modernismo in circolazione del sottobosco post-conciliare. Apologia concepita in umiltà dall'orgoglio di professare la fede di sempre.

Piero Vassallo 




[1]             Rodney Stark  (Janestown 1934) ha pubblicato alcuni testi nella collana dell'editore torinese Lindau. Si veda ad esempio Il trionfo del Cristianesimo, edito nel 2011.

Maria I Tudor: La strenua difesa della Santa Messa

"Il giudizio del mondo è un giudizio privo di misericordia. Perché allora il mondo non dovrebbe essere giudicato nello stesso modo nel quale esso giudica?"
Paolo Pasqualucci

 La regina Maria I Tudor (1516-1558) restituì, per la durata  del suo breve regno (1553-1558) l'Inghilterra a Cristo.  Amata dal suo popolo fu odiata dalle canaglie, gaudenti una ricchezza turpe, ottenuta grazie al furto dei beni ecclesiastici commesso da Enrico VIII, il re posseduto dal delirio teologico discendente da una implacabile infezione libertina.
 La intrepida regina restaurò la Santa Messa e ripristinò l'ordine turbato e devastato dall'odio viscerale nutrito da Enrico VIII contro i cattolici, ai suoi occhi colpevoli di fedeltà a Clemente VII (1478-1534), il papa che aveva negato la consacrazione dell'amorazzo adulterino del re con la cortigiana Anna Bolena, rapporto da cui era nata la futura regina Elisabetta.
 L'orgoglio smisurato e il rovente fanatismo del re scismatico, autore dell'empio Act of Supremacy, che dichiarava il re capo supremo della chiesa d'Inghilterra, avevano diviso la nazione e incrementato quella devastante miseria, che è narrata negli scritti di San Tommaso Moro (1478-1535) il sapiente refrattario all'ideologia divorzista, che fu fatto decapitare dal folle re.
 Il divieto del padre Enrico VIII aveva impedito a Maria, cattolica irriducibile, di apprendere la scienza politica. La madre, la devota e irriducibile Caterina d'Aragona, le insegnò a giudicare la salvezza delle anime superiore ad ogni altro bene. La dottrina cattolica le fu insegnata dalla Beata Margaret Pole, che sarà martirizzata dagli eretici nel 1541.
 Hilaire Belloc ha dimostrato che Maria Tudor "possedeva una solida virtù e una chiara impostazione morale, mentre Elisabetta possedeva una certa tenacia senza scopo e combinata con il suo capriccio". 
 Maria, salita al trono dopo la morte di Enrico VIII e del successore, il suo fratellastro, il cagionevole Edoardo VI, fu amata dal suo popolo perché riabilitò la Messa cattolica, fece rimpatriare il cardinale Reginald Pole (1500-1558) e i sacerdoti fedeli al papa e restituì ai conventi la proprietà delle terre destinate all'uso dei contadini poveri.
 Fu odiata dall'oligarchia scismatica, da lei privata del bottino, detestata dal clero eretico e corrotto e finalmente calunniata da una storiografia asservita ai perpetui e oscuri poteri della menzogna e del disordine.
 Sposa del grande Filippo II di Spagna, Maria Tudor desiderò ardentemente un figlio cui affidare il compito di proseguire la missione finalizzata alla restaurazione cattolica.
 Delusa la sua attesa, morì rassegnata al volere di Dio e lasciò l'eredità del regno alla sorellastra, la miscredente e ipocrita Elisabetta, che, fingendo, professava la fede cattolica.
 In quanto figlia illegittima di Enrico VIII e di Anna Bolena, Elisabetta non aveva diritto alla successione, vero è che il papa non riconobbe il suo regno. E con piena ragione poiché il primo atto del regno elisabettiano fu la profanazione della Messa cattolica. Elisabetta, preso atto dell'ostilità del papato (sarà scomunicata da San Pio V nel 1570) gettò la pia maschera: sostenne apertamente la fazione anglicana, promosse la persecuzione dei cattolici e avviò una politica intesa a rovesciare l'alleanza con la Spagna. La fortuna della regina impropriamente detta vergine, si deve in larga misura al grave errore di Filippo II, che ostacolò l'ascesa al trono d'Inghilterra di Maria Stuarda, perché la regina di Scozia era favorevole a un accordo con il regno di Francia piuttosto che con la monarchia ispanica. In tal modo iniziò quella trionfale marcia dell'impero britannico, che fu macchiata dalla ferocia e dall'untuosa empietà, prima di scivolare nell'impero delle banche d'America e di raggiungere il suo squillante/imbalsamante epilogo nei torridi fumetti della birichina principessa Diana e nelle alte ombre della pedofilia intorno alla regia corte.
 Per fare luce sulla vera storia di Maria Tudor il grande scrittore e sacerdote cattolico Robert Hugh Benson (1871-1914) scrisse, nel 1907, una magnifica storia romanzata, La Tragedia della Regina Maria Tudor, sovrana incompresa, che è ora riproposta da Fede e Cultura, casa editrice in Verona (il volume di pagine 365 è in vendita nelle librerie cattoliche a euro 15).
 Geniale e instancabile scrittore, Benson fu uno dei protagonisti della insorgenza spirituale e culturale, che, all'inizio del ventesimo secolo, destò la speranza di una rinascita cattolica in Inghilterra.
 Protagonisti del romanzo sono personaggi storici e personaggi inventati da una fantasia che mai sconfina nell'inverosimile.
 Il profilo della regina è disegnato con un'arte che mai si discosta dalla verità storica: Benson, pur non nascondendo le debolezze di Maria Tudor riconobbe e apprezzò la sincerità della fede da lei professata  e le attribuì il merito di aver sconfitto i promotori dello scisma "che avevano strappato il Corpo di Cristo dalle loro chiese".
 Il celebre romanziere rammentò inoltre che la regina cattolica difese e protesse i poveri "i teneri agnelli che avevano pianto così pietosamente da villaggi e strade, vagando senza un pastore, soffrendo la fame per mancanza di cibo salutare".
 D'altra parte Benson affermò e dimostrò la doppiezza e l'arroganza Elisabetta: nel romanzo il minaccioso discorso, con cui la futura regina vergine tenta di indurre al tradimento uno studioso fedele a Maria, è un capolavoro di letteratura al servizio della verità storica.

 Il romanzo di Benson, libro che non può mancare in una biblioteca seria, si raccomanda quale efficace antidoto all'anglofilia squillante  nei pensieri della più retriva e sciocca borghesia italiana. E come lettura disintossicante, necessaria agli irriducibili, che intendono interrompere e spezzare il vizioso circolo ecumenico avviato dagli ammiratori degli avvoltoi in volo modernizzante sopra l'infelice Concilio Vaticano II.

Piero Vassallo

venerdì 27 marzo 2015

VINO ANNACQUATO CHE INACETISCE (di Piero Nicola)

  I vescovi e cardinali infedeli a Cristo, sostenendo uno iato tra dottrina dogmatica e dottrina o prassi pastorale, sono affetti da scempiaggine sistemica. Forse alcuni, increduli calcolatori, intendono garantirsi il benessere nei non molti anni che restano loro ancora da vivere.
  Essi ragionano all'incirca come Berlusconi, che fa politica secondo i sondaggi di opinione, quasi si trattasse d'un'indagine di mercato per vendere un prodotto. Tuttavia, il Silvio nazionale, prima del suo ultimo declino, poteva contare su un carisma politico, tanto più avendo almeno un occhio buono in mezzo ai ciechi.
  Ma questi prelati liberali o progressisti o modernisti - a scelta - i quali mostrano di fare assegnamento su un'attività religiosa che prende per il suo verso lo sviamento morale e spirituale della società, eventualmente al fine di sollevarla (non si parla di conversioni, figurarsi! - e questa rinuncia conferma l'eresia), non possiedono nemmeno il dono di catturare simpatizzanti (se dicessi fedeli, bisognerebbe chiedersi di quale specie, ed escluderei gli atei e gli acattolici, oggetto del sacrosanto dialogo - altro elemento di comportamento eretico).
  In sostanza, avviene per loro quel che succede in piazza San Pietro o tra i chiacchieroni dei dibattiti e dei salotti televisivi, tra i diversi compiaciuti del saper fare dimostrato dall'argentino biancovestito (bravo comunicatore, egli ha capito che giova ammiccare dando la buonasera da sacri balconi, ma non conviene privarsi del fascino e dell'ascendente della divisa). La folla degli ammiratori va in chiesa meno di prima, pratica la Confessione meno di prima, fa il bene e il male, nella migliore delle ipotesi, come prima li faceva. Insomma, la comprensione da essi ricevuta, anziché incoraggiarli alla devota osservanza, li spinge a giustificare le nere macchie della loro anima, applicandosi la fraterna indulgenza (che è lungi dall'essere francescana di San Francesco!)
   Così il porporato Walter Kasper ("c'è una battaglia in corso", ha detto in vista della ripresa del sinodo invalido, dove si ammette che un dogma sia messo in discussione), l'arciv. di Monaco Reinhard Marx ("non siamo una filiale di Roma", ha asserito riguardo alla pastorale decisa dalla Conferenza episcopale) e il loro protettore card. Karl Lehmann, quand'anche vincessero la loro infera guerra, faranno una messe di cristiani spuri, che si tengono Dio tra i vari confort domestici e psicologici, con la vaga speranza di avere una discreta sistemazione oltre il salto nel buio della morte. Perché di là, non si sa mai, potrebbe esserci qualcosa di somigliante alle leggendarie destinazioni ultraterrene nelle quali credevano le pie nonne.
  In effetti, essi non vinceranno nessuna battaglia. Probabilmente sarebbero abbastanza intelligenti da poter capire che sarebbe una vittoria fittizia per la loro chiesa. Ma hanno l'intelligenza stupida di Lucifero, quella priva di modestia. Nonostante la superbia che dimostrano, la loro viltà li priva di vera ambizione. Se avessero ambizione e non  il coraggio del coniglio, vorrebbero riportare un grande successo. Il loro colto intelletto, il loro acume, tuttavia malamente adoperato e abituato, potrebbero illuminare la banalità per cui un cibo reso insipido, una dottrina indebolita, una disciplina addolcita e facilitata, sono cose destituite di forza tenace, cose allettanti  che presto vengono a noia, cose che meritano la nausea spettante alla corruzione.
Mentre la grandezza viene dalle conquiste forti, elevate.
  Sento già il birbone osservare che le dottrine eroiche e intransigenti sono quelle naziste o del fondamentalismo maomettano. Costui sta in agguato: pronto a mettere sotto accusa le Crociate, il Potere Temporale dei Papi, la violenza dei vecchi predicatori cattolici, ecc. ecc. senza sapere di che cosa parli, essendo il pappagallo del modernismo, del protestantesimo, del positivismo, ecc.
  Dopo il Vecchio Testamento, il Vangelo e le Lettere apostoliche sono tutto vigore e regole rigorose. C'è da scommettere che, se nelle omelie e nelle letture che si fanno ancora dei Sacri Testi, risaltasse la dura verità dei comandamenti, degli insegnamenti di Gesù e dei Novissimi, prima, le navate vedrebbero i pochi ma buoni; in seguito, si affollerebbero di gente seria e di buon esempio. La liturgia tradizionale  - mi si perdoni il paragone - avrebbe lo stesso effetto suggestivo della veste papale. I preti aggiornati non comprendono nemmeno questo.
   Molti cercano la promozione con poca fatica e raccomandazioni. Ma nel loro intimo la disprezzano e si disprezzano per averla ottenuta senza merito. Chi non si vorrebbe cimentare per ottenere il premio? Il cimento è nondimeno secondo legge di natura. Quanti dandosi agli sport cercano di superare se stessi o si impegnano in altre pratiche la cui molla è la vanità, il cui esito è una rovina!
  Stesso criterio vale per la politica: ai fuochi sulfurei e cattivanti del cattivo estremismo è tempo perso opporre la moderazione, semmai si muove guerra. Quando i miasmi soporiferi della palude social-liberale - il cui estremismo è portare all'estremo le fognarie libertà - invadono il paese, è inutile contrapporvi altre dolcezze, altri accomodamenti per benpensanti.
  Dice: non dobbiamo spaventare, non bisogna pontificare, bando alla rigida legge! Hanno schiacciato il Timor di Dio! Ridicoli! Il Giudice, il Signore del bene e del male, non più temibile diventa falso, inverosimile. E davanti si spalanca il vuoto. Fioco Timor di Dio: corrotta Fede.
  Volendo guadagnare la salvezza occorre farsi eroi mediante la Grazia, cui si accede con fatica e sacrificio. Al di fuori della salvezza guadagnata eroicamente, al di fuori di questo movimento religioso benedetto dal Cielo, c'è vino annacquato che inacetisce: ignominia, eresia e perdizione.


Piero Nicola

giovedì 26 marzo 2015

IL TORCHIO EUROPEO (di Piero Nicola)

Qualcuno dei nostri amici obiettivi storce ancora il naso davanti a una cruda definizione della politica attuata dagli organi dell'UE verso i singoli stati comunitari, in particolare, verso quelli che hanno il debito pubblico più grande.
  Gli obiettivi capiscono che la Commissione europea e la Banca europea mettono sotto il torchio di una presunta equità (il rispetto dei trattati) i paesi economicamente più deboli e stanno rovinando anche gli altri imponendo un'austerità fuori luogo, ma si rifiutano di vedere la malafede, il disegno perverso. Balza davanti alla loro mente la parola dietrologia, cui non si prestano.
  Credo che tale reazione si debba, almeno per alcuni, al fastidio di doversi ricredere su posizioni assunte in passato, allorché non sospettarono o non vollero subodorare complotti internazionali, a vantaggio o a svantaggio dei capi di partito da essi preferiti.
  Teoricamente non ci sarebbe niente da eccepire sulle regole che Bruxelles e Francoforte intendono tutelare. I paesi comunitari non devono far crescere il loro debito pubblico, perché danneggerebbero la moneta comune e ciò sarebbe ingiusto verso i soci virtuosi.
  A parte le eccessive svalutazioni delle monete nazionali più deboli al momento della loro conversione  in euro, ci fu senz'altro un errore nel vincolare ad esso economie differenti, stati che avevano situazioni di finanza pubblica disparate. Con questo errore, da un lato si è speculato, dall'altro lato si è trasformata la moneta comune in una trappola, che rende difficile abolire lo sbaglio tornando indietro alla propria moneta e sovranità monetaria, cioè in una condizione di normalità. Per non parlare dell'inganno costituito dalle leggi infami e moralmente disgregatrici che l'UE impone ai mal governati soci dell'europarlamento, il quale del resto, per vari motivi, ha scarso peso di potere legislativo rispetto alla Commissione. Sicché è realistico affermare che decide e comanda l'asse Bruxelles-Francoforte su questioni della massima importanza.
  Prendendo l'Italia, si ricorderà che tra gli anni '70 e '80 i buoni del tesoro erano in buona parte acquistati dai cittadini italiani. I forti saggi di interesse creavano liquidità interna; consumi e produzione camminavano abbastanza. Non che le banche fossero virtuose, ma restavano piuttosto legate al patrio suolo. Oggi gli italiani sarebbero ancora in grado di comprare il debito pubblico, viceversa esso è in balia della grande speculazione. Ciò ha determinato il pagamento da parte dell'erario (che siano tutti noi) di interessi esagerati: il famoso spread indica tassi cento volte superiori a quelli del prestito pubblico tedesco, senza alcuna giustificazione economica (la nostra economia è tuttora forte, sebbene si faccia di tutto per rovinarla, in ogni sede).
  Non va dimenticata la speculazione sui nostri titoli, quando fece salire lo spread a livelli folli: essa ci costerà, per molto tempo ancora, un ingiustificato esborso di miliardi.
  Varie notizie attendibili ormai confermano la facile supposizione: il fattaccio si compì con la complicità di governanti stranieri, per far cadere Berlusconi, che cercava di difendere la nostra economia.
  Tutta storia assai nota; utile per venire meglio al sodo.
  La condizione della Grecia differisce abbastanza dalla nostra. Certo le sue industrie non sono paragonabili alle nostre; tuttavia i greci hanno una flotta mercantile tra le prime nel mondo, un turismo prospero e un buon grado di sviluppo in ogni settore vitale.
  Dal cambio dell'esecutivo, avvenuto in seguito alle recenti elezioni, assistiamo agli sforzi del primo ministro e del ministro delle finanze ellenici per ottenere proroghe ai pagamenti del prestito nazionale, finanziamenti per rimediare ai vuoti di cassa e concessioni per allentare la stretta dell'austerità.
  Provvedimenti primari e indispensabili se si vuole il ricupero d'una minima normalità, che assicuri la salute del consorzio civile e lo scampo dal fallimento statale.
  Tsipras e Varoufakis, cercando trattative più onorevoli ed equanimi, si sono opposti alla Troika (Commissione europea + BCE + Fondo monetario internazionale) che stringe la Grecia in una combinata morsa delle condizioni per ricevere aiuti. Essi si sono ribellati all'imposizione di governare secondo un dettato esterno e iniquo. Iniquo per lo stesso motivo per cui noi lo stiamo subendo.
  In altri termini, fu sottoscritto una sorta di contratto leonino: moneta unica, che richiederebbe un unico stato, o una confederazione di stati, invece assegnata a nazioni aventi economie incomparabili e assetti sociali assai indipendenti (i problemi dei singoli paesi, di fatto, non vengono risolti in comune, con le risorse comuni), e conseguenti danni inflitti dalla speculazione.
  Giustizia vuole che il patto non sia valido, almeno non del tutto, e che si debba poter retrocedere da esso senza subire uno scapito eccessivo. La nazione greca, come altre europee, è ben poco responsabile degli sbagli commessi dai suoi rappresentanti inetti o infedeli.
  I membri della Troika dovrebbero onestamente concedere una via di uscita, onorevole per tutti. Anzi, dovrebbero ammettere che l'euro è stato un errore grossolano, d'oscuro avvenire; essi dovrebbero badare a rimettere le cose in ordine.
  Ma no! Ogni volta la musica è la stessa: bisogna fare le riforme, bisogna tenere i conti in regola.
  Nell'ultimo incontro tra la Merkel e Tsipras, la signora ha ribadito le condizioni, che non dipendono neppure dalla Germania: aumentare l'età pensionabile, aumentare l'Iva. Così, riferiscono stampa e televisioni.
  La condanna al ristagno è evidente. La prima condizione significa disoccupati; la seconda deprime i consumi, la produzione, l'occupazione.
  Miopia? Attaccamento ossessivo al proprio posto? Cocciutaggine di chi non vuol riconoscere di aver aderito a un progetto errato? Dev'esserci di più, ossia la consapevolezza del misfatto che si sta consumando.
  Se avessero voluto l'osservanza dei patti e il vantaggio europeo, avrebbero dovuto lasciar fallire la Grecia. Invece mostrano di trattare, fanno sorrisi e danno pacche sulle spalle, adoprano il dialogo ripetibile. Se la Grecia uscisse dall'euro o dall'Europa, l'uno e l'altra ne sarebbero rafforzati. Né regge il timore che si creerebbe un pericoloso precedente: esso potrebbe indurre all'imitazione soltanto popoli ben guidati o troppo malconci. D'altra parte, è chiaro che la ripresa dei popoli di questo continente passa per il ritorno all'indipendenza dello statu quo ante. Lo intendiamo bene noi profani di politiche economiche delle alte e complesse sfere.
  Inoltre, l'Unione non ha niente da guadagnare dal mondialismo, ha da perdere con le immigrazioni incontrollate, con il trasferimento delle industrie fuori dei suoi confini, con l'acquisto di grandi manifatture effettuato da capitali stranieri, e non risulta che ponga argini a queste perdite. In ogni caso, essa non salvaguarda le particolari realtà sociali, se qui da noi le vediamo mortificate, ferite dai suddetti fenomeni di immigrazione, di concorrenza e di accaparramento internazionale.
  L'unica spiegazione del comportamento eurocratico sta nella concordanza con l'intento di stabilire un generale statu quo di miseria e soggezione, poiché dalla presente crisi non ci si riprende sottostando alle regole del gioco.
  Coi prestiti della BCE alle banche, con la svalutazione dell'euro rispetto al dollaro, con il costo del petrolio ribassato, con le belle nuove sulla ripresina in atto in Italia e altrove, i responsabili ricalcano l'esecuzione di un programma d'assoggettamento delle genti in un certo grado di miseria materiale e in un grado ben maggiore di miseria morale, ché una crisi depauperante più profonda sarebbe suscettibile di produrre rotture e ritorni al passato.
  Non è immaginabile che gli incalliti conduttori del'eurocrazia siano ignari di quello che stanno combinando ormai da lungo tempo!
 

Piero Nicola

lunedì 23 marzo 2015

Lettera sugli intellettuali a Destra più prorpiamente detti studiosi

Se fosse consentito giocare con le parole direi che la destra non deve avere intellettuali, ma impostare una politica culturale (nel senso stabilito da Maria Adelaide Raschini) capace di attingere idee dagli studiosi liberi e disorganici (gli intellettuali organici, infatti, appartengono all’universo sinistrorso).
 Nei primi anni Settanta, la destra politica italiana ha spezzato la cerniera che la univa alla sua cultura scegliendo di avere un intellettuale organico, Armano Plebe, sedicente “turista della vita”.
 Con quella scelta sciocca e infelice la destra rinunciò al confronto con i qualificati interpreti italiani della filosofia, i pensatori, che collaboravano con l'Ispe, con la Fondazione Volpe, con il quotidiano “Il Tempo”, con l’Associazione dei giusnaturalisti cattolici e con il Sindacato libero degli scrittori italiani:  Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Armando Carlini,  Nicola Petruzzellis, Carmelo Ottaviano, Marino Gentile, Augusto Del Noce, Ennio Innocenti, Michele Federico Sciacca, Francisco Elias de Tejada, Ettore Paratore, Fausto Gianfranceschi, Giovanni Torti, Fausto Belfiori, Francesco Grisi, Silvio Vitale, Gianfranco Legitimo, Pucci Cipriani, Roberto de Mattei, ecc. ecc.)  
 La povertà culturale e l'insignificanza della destra d’oggi dipendono dalla catastrofica scelta a favore della cultura politicizzata (la cultura del comiziante organico e del pensatore obbediente).
 Purtroppo gli attuali esponenti della desta politica preferiscono una cultura dal profilo basso e facile. Marcello Veneziani non ha tutti i torti quando sostiene (paradossalmente) che il compianto Mike Buongiorno è il vero filosofo della destra d’oggi.
 La debolezza dei pensieri in circolazione a sinistra incoraggia a credere che l’ottimismo condensato nello stridulo grido “allegria!”  sia la vera risposta alle funeree elucubrazioni della sinistra ex “pensante”. Non è lecito denigrare l’ottimismo, anzi. Se non che la cultura della destra superficiale e gongolante non è in grado di affrontare i drammatici problemi sociali, suscitati dalla devastante rivoluzione nichilista avviata dai francofortesi e sostenuta dai banchieri thanatofili.        
 Ora le idee abitano in aree non frequentate dai politicanti. In Liguria, ad esempio, opera un robusto popolo di studiosi indipendenti che elaborano, in perfetta indipendenza, le idee che potrebbero qualificare la politica di una destra fedele alla tradizione italiana.
 Cito i nomi di studiosi della mia regione, che professano la fede nella genuina tradizione italiana.: Pier Paolo Ottonello, Peppino Orlando, Ettore Bonessio di Terzet, Lucia Giavotto, Piero Nicola, Emilio Artiglieri, Paolo Mangiante, Massimiliano Lussana, Ilaria Pisa, Alessandro Casareto, Mario Bozzi Sentieri, Bruno Pampaloni. Elenchi di pari valore sono leggibili in quasi tutte le grandi e medie città d'Italia.
 L'impresa che i politici della destra liquida e circense dovrebbero tentare in vista dell'uscita dalle sabbie mobili non contempla l'annessione e l'asservimento dei numerosi e qualificati studiosi d'area e la loro fatua esibizione, quasi fossero ectoplasmi di Armando Plebe. Al contrario consiste in alcune scelte dettate dalla realistica valutazione dei limiti entro i quali si muove la classe politicante:

a.       conoscere il pensiero degli studiosi d'area e usarlo per uscire dall'umiliante/irritante bla-bla televisivo ossia
b.      usare la tradizione per spezzare le incapacitanti/estenuanti catene del parolaio televisivo;
c.       leggere o interpellare gli studiosi autentici quando si affacciano problemi ai quali i politicanti non sanno dare soluzioni serie;
d.      conoscere la storia della cultura italiana e rispettare la libertà dei suoi eredi legittimi;
e.       abbandonare di conseguenza le marginali, squillanti suggestioni di quel pensiero esoterico, che ha screditato la destra riducendola correnti in perpetuo e vuoto conflitto.

 Non si può dire che i politici del centro destra oggi obbediscano a questi elementari ed essenziali obblighi. Alcuni di loro credono addirittura di pensare. I più sfacciati scrivono i loro "pensieri". Se potessi concedermi una malignità (di quelle che a pronunciarle si fa peccato ma non si sbaglia) direi che disprezzano il sapere che trascende il loro angusto pensatoio.
 L'attualità della cultura tradizionale si deduce dal vuoto coribantico e bancario a sinistra: i pensatori francofortesi hanno rovesciato la filosofia di Marx nella fossa dei serpenti nietzschiani e kafkiani e hanno trasferito gli ex marxiani nei templi dell'usura. Purtroppo nell'area destra circola l'illusione imperterrita intorno all'efficacia terapeutica del magismo/nichilismo di Julius Evola. Di qui l'oblio dei precursori sulla via delle riforme, quali Giuseppe Toniolo e Werner Sombart. Privo della sua memoria  storica, il fantasma della destra naviga senza bussola in un mare sconosciuto e desolato.
 Riusciranno i nostri sparuti naviganti ad approdare nell'isola della politica pensante? La sconfitta di Marie  Le Pen, guida di una neodestra inquinata dal pensiero magico e neopagano, indica quale è il terreno sul quale la politica della destra non deve scivolare e suggerisce la svolta tradizionale, che si deve compiere per affrontare il difficile futuro dell'Occidente sfidato dall'islam.
   

 Piero Vassallo

domenica 22 marzo 2015

Raffale Francesca, la poesia sequestrata dalla città agonizzante

 Cinque anni fa nella sterile e cimiteriale città di Genova moriva Raffaele Francesca, uomo di alta cultura, scrittore di polso, fantastico romanziere e coraggioso testimone della dottrina e della storia proibita. 
 Bon vivant indenne da umiliante invidia e da grigio malanimo sopportava allegramente l'emarginazione decretata dal lugubre salotto, tribunale allestito per incensare scriventi senza ispirazione, conformisti senza ritegni, poeti della domenica, torturatori delle grammatiche e maestri del copia e incolla.
 Era soprannominato il mascalzone, per le sue ratte irruzione alle casse delle birrerie, dove gli amici, ad esempio Giano Accame, Luciano Garibaldi, Pier Franco Malfettani, Cesare Viazzi, Alberto Rosselli, Mario Sossi, e Sergio Pessot,  consumavano - con intenzione di pagare romanamente - libagioni, che la presenza di Raffaele rendeva allegre e felici.
 La nobile origine meridionale, la strutturale generosità e la nostalgia fascista tuttavia hanno vietato l'integrazione di Raffaele in una città ignobile, fetida e grigia come l'acqua del torrente Bisagno.
 Inoltre l'amicizia con il fascista repubblichino Walter Chiari e con altri intoccabili fece salire al più alto livello la disistima della resistenziale città nei suoi confronti.    
 Quasi personificazione di uno sfortunato/ingannato eroe kafkiano, stava in attesa della meritata stima davanti alla porta del suo castello, occupato dai poteri della mediocrità urlante dai palchi della cultura ufficiale.
 L'ingenua fede nella giustizia gli faceva talora credere impossibile la negazione del suo indubbio valore. Ritornava sui suoi passi quando incontrava l'indifferenza settaria, che "spariglia i pensieri, come paglia nell'aria, questo spaesamento che, non pago di condurre il gioco, ignobilmente si diverte a barare".
 La sua indeclinabile, spirituale infanzia ascoltava stupita gli applausi scroscianti dal potere che compensa la vaselinosa adulazione del fantasma progressista. Era incapace di comprendere il settarismo, che persuadeva gli intellettuali collocati nel lato sinistro dello scisma totalitario a ignorare la qualità elegante della sua prosa.
  L'amore per la bella prosa lo costringeva ad apprezzare autori lontani dai suoi ideali. Si era perfino abbassato all'ammirazione della tristezza allo struscio nelle composizioni di un cantautore appartenente all'anarchia alto-borghese.

  La nobiltà d'animo gli impediva la visione della tortuosa e livida gelosia della setta progressista. Disarmava gli amici che tentavano di mostrargli il prolungamento letterario dell'odio di classe alzando le spalle: "Io non sono un capitalista".
 Se non che l'invidia accompagnava il girotondo della città, sedicente colta, intorno alla chimera regnante sui cascami della rivoluzione partigiana & sessantottina.
   Un sinedrio di anime morte tra fasulli allori e senile albagia, gli negava perfino l'opportunità di opporre alla pia leggenda la monumentale documentazione sul delitto - l'immane strage - consumato dai partigiani sulla collina di San Benigno.  
 Era un amante della bella lingua. Nel risvolto del suo ultimo libro si legge: "Convinto che la lingua italiana sappia farsi dipinto e musica, la usa con dovizia e precisione, opponendosi al dilagante imbarbarimento che la riduce a pochi, ripetitivi vocaboli". Probabilmente scritta da lui, questa dichiarazione di guerra alla letteratura progressista è l'incipit di un trattato sull'arte di farsi nemici e un preludio alla biografia dell'intelligenza sottovalutata ed emarginata.
 Indenne da spocchia era incapace di alzare una barriera davanti alla tormentosa chiacchiera del culturame non pensante e non leggente, squallida fabbrica di sentenze sputate per abbassare e umiliare le stature non appiattite sulla zero a sinistra.
 Scendendo sulla sua pelle i silenzi della grigia città - luogo degli anomali e mostruosi inciuci tra la finanza iniziatica e il socialismo irreale - consegnavano la limpida malinconia di Raffaele all'onda opaca della depressione.
 Mal di Genova, la nascosta depressione di Raffaele, male trasmesso dallo scirocco fetido e appiccicoso, dal fiato del conformismo assillante, dalla voce implacabile dei microcefali, dalle scemenza soffiate nel salotto emanato dai classici coglionifici, mulini che macinano il cadaverico lezzo della modernità.
  Dalla città morta l'agonia di un'anima nobile e incapace di arrampicarsi: "Mentre un'ansia maligna costantemente ti spegne dentro desiderii, speranze, sete di vivere, impulso a uscire nel mondo, voglia di fare le cose che hai sempre amate ...mentre ciò accade, l'insolenza dolorosa e livida del male oscuro, ... le sue inquietudini incessanti che non concedono parole atte a narrarle, inappellabilmente ti precludono la fugace, magari truffaldina, consolazione di un chi sa".
  Raffaele è morto di sfinimento in una triste notte del 2005. La sua poesia ha combattuto invano contro la noia invincibile della città grigia. Nell'esilio il suo canto testimonia la vita che non si arrende.

Piero Vassallo

La tragica vicenda dei fascisti repubblicani e la parabola dei loro ideali (di Lino Di Stefano)

Il recente libro di Vanni Teodorani – ‘Quaderno’ 1945-1946 (Ed. Stilgraf. Cesena, 2014) – dovrebbe essere letto da tutti gli Italiani, in particolare da quelli nati dopo la fine del secondo conflitto mondiale, perché, in tale maniera, essi comprenderebbero le intere implicazioni che portarono l’Italia alla sconfitta al termine del menzionato scontro. Nato, nel 1916, a Torino, ma romagnolo purosangue, l’Autore del lavoro di cui ci stiamo occupando fu un esponente politico importante sia durante il regime, sia nel dopoguerra, periodo in cui cercò di orientare il MSI in direzione di una linea nazionale-cattolica.

Giornalista, Direttore di diverse testate – ‘Asso di Bastoni’ e ‘Rivista Romana’, per fare qualche esempio - ed eminente uomo di cultura, come si evince dalla lettura dell’intero libro, Teodorani fu anche legato al Capo del fascismo essendosi unito in nozze con la figlia di Arnaldo, fratello di Mussolini, mettendo in evidenza tutte le sue qualità di soldato, di scrittore e di diplomatico anche se, in quest’ultima veste, non gli arrise la fortuna per una serie di circostanze avverse indipendenti dalla sua volontà e dai suoi evidenti meriti. Il tutto fortificato, altresì, dall’esperienza delle patrie galere.

Curato e presentato dai figli Anna e Pio e introdotto da Giuseppe Parlato, l’attraente ‘Diario’ del conte si fa oltremodo apprezzare non solo per la scioltezza della forma e la puntualità delle argomentazioni, ma anche per la grande dose di ‘veridicità, presente dalla prima all’ultima pagina dato, a detta dei Presentatori, che “richiamare tradizioni ed eventi lontani può contribuire a raddrizzare vecchie e nuove storture, e soprattutto ad impostare un generale ripensamento ideale della nostra società e della nostra storia”. E la prima impressione, suffragata da tutto il volume, che si prova al cospetto di questa testimonianza - imprescindibile per capire la storia d’Italia più recente – consiste, appunto, nell’osservazione che tale “documento umano”, parole dell’Autore, possiede la presunzione di dire tutta la verità, come, tra l’altro, alla fine del volume, egli ribadisce e cioè che “è tutto vero”.

Il lavoro teodoriano, dopo tante pagine confidenziali, corroborate dal supporto di intensi e dolorosi ricordi, vissuti in prima persona, ma sempre nell’ossequio dei fatti nudi e crudi, al momento opportuno entra “in medias res” mercé reminiscenze non solo di carattere familiare, bensì pure di ordine storiografico vero e proprio in quanto esso passa in rassegna gli eventi più vicini all’Autore; non esclusi gli uomini politici più in vista di quel tempo. Ed sebbene, talvolta, l’Autore indulga a qualche affermazione come quella secondo cui “tutto quest’odio che c’è tra comunisti e fascisti è per me una riprova della stretta parentela che c’è fra noi”, resta pur vero che per lui “i veri italiani che possono trattare da pari a pari con i generali russi, i laburisti inglesi, i nazional socialisti tedeschi sono i fascisti rivoluzionari nei quali ho sempre avuto l’onore di militare”.

Del resto i fascisti hanno sempre cercato di venire ad accordi con la Russia”. E, non a caso, egli continua, “l’ultimo leninista italiano è apparso a Piazzale Loreto vicino a Mussolini”. Cioè Bombacci. Ora, è vero, d’accordo con Teodorani che “extrema tanguntur”, ma è altrettanto certo che non sempre i comunisti, nell’immediato dopoguerra – al momento della vendetta – utilizzarono la menzionata parentela in maniera solidale. Tutt’altro!

Ad onta di qualche fugace opportunismo togliattiano, i cosiddetti ‘giorni dell’ira’, furono tremendi, considerata l’immane strage di ben 300.000 fascisti, numero riportato dallo stesso Teodorani. E, in merito, l’Autore non ha nessuna tenerezza per gli americani i quali - considerati “i più umani soldati del mondo” - sganciarono bombe atomiche a dimostrazione che essi iniziarono la guerra da statunitensi e la terminarono da tedeschi. Su tale osservazione non sembrano esserci dubbi. Anche in occasione della ricerca di Mussolini, gli stessi si fecero giocare dai servizi segreti di Sua Maestà Britannica, a conferma del loro dilettantismo e del loro infantilismo.

Il volume, ricchissimo di riferimenti storici e culturali, colpisce, in modo duro, non solo i voltagabbana che il 25 aprile si presentarono con una sedicente verginità, ma anche i cosiddetti ‘fuoriusciti’, non senza un singolare elogio per Mussolini considerato come “uno degli uomini più buoni che siano mai esistiti e, caso mai, un po’ troppo buono tanto da diventare debole”; talmente debole, così continua, da accorgersi solo il 25 luglio “che un re di corona, nato re, figlio di re, poteva macchiare il suo focolare con atti di fellonia”.

Notevole, inoltre, la stima per Croce e per Gentile; quest’ultimo, parole di Teodorani, “Presidente dell’Accademia d’Italia, e degno successore di Marconi e d’Annunzio”, pagò “col martirio la sua lealtà, la sua fede e soprattutto il suo devoto amore per Mussolini”. Anche nei riguardi di Churchill, l’Autore del libro si esprime in termini positivi, segnatamente laddove egli scrive che lo statista inglese “ha sempre stimato Mussolini da quel che risulta, e credo che lo stimi di più dopo le sue recenti disavventure elettorali. Bravo Winnie!”.

Nessun avvenimento, remoto o recente, e nessun personaggio storico – a lui attuale o dell’antichità - sfugge all’occhio vigile di Vanni Teodorani; egli discute, ad esempio, di Nitti e di Giolitti dimostrando comprensione per il primo e stima per il secondo - definito “grande tecnico della psicologia italiana” - sebbene ripudiati dal fascismo “per rispetto al nostro santone numero uno l’adorabile poeta Gabriele che morto a tempo e ricongiunto ai fratelli arcangeli si può dire che oggi è beato”.

Un’altra persona stimata, non a torto, dall’Autore, è Ferruccio Parri definito bravo, onesto e retto per i meriti acquisiti per la sua moderazione mentre non può sottrarsi ad un franco giudizio nei riguardi di Mussolini reo, secondo lui, in buona fede, di aver creduto che “gli italiani erano tutti ritornati antichi romani” quando, invece, gli stessi sono e restano, in fondo, un po’ traditori. E sempre a proposito di Mussolini, nel ricordare la comprensione evidenziata da Nenni alla notizia dello scempio di Piazzale Loreto, Teodorani ha espressioni di biasimo nei confronti di Alcide De Gasperi il quale, durante una riunione, a Roma, a Palazzo dei Marescialli, di fronte alla tragica morte di Mussolini, fu il solo a commentare: ”Meno male! Così non parla!”. Verso la fine del suo lavoro, l’Autore ribadisce la propria professione di fede politica proclamando: “sono fascista, perché sono socialista” e liberale, non senza aggiungere, significativamente: “mi piacciono i comunisti”.

Teodorani prende posizione anche intorno alla “vexata questio” dell’eccidio delle Fosse Ardeatine addebitato ai fascisti, precisando, altresì, di aver “conquistato una nuova concezione della giustizia” visto che essa non esiste e dato che è meglio “ripiegare sulla pietà”. L’Autore, ricostruisce, in Appendice, le complesse vicende, vissute in prima persona, tese a salvare la vita di Mussolini vittima, purtroppo, delle divergenze fra gli Alleati, ponendo anche l’accento, infine, sulla volontà omicida di Togliatti espressa in un sedicente discorso del 26 aprile, ma riportato dall’’Unità’ solo il 7 maggio!

Un altro episodio riferito, dall’Autore, concerne una curiosa richiesta di scarpe del gen. Castellano agli Alleati; questi non sapeva che la Wehrmacht, da due anni, camminava con milioni di paia sottratte ai magazzini del Regio Esercito di cui “a quanto pare lo Stato Maggiore Generale ignorava l’esistenza e consistenza”! Chiudono il considerevole volume, alcune poesie – in cui è ognora presente la patria - tratte da alcuni volumi dell’Autore: evidentemente poeta oltreché scrittore.

Che dire, in conclusione, della bella fatica di Vanni Teodorani? Che essa rimane un documento fondamentale per comprendere, nella loro interezza, le intricate vicende di un periodo storico ancora tutto da scoprire e da studiare prima di pronunciare sentenze definitive di fronte al tribunale della storia. Dopo settant’anni dalla fine della guerra non è possibile, infatti, emettere verdetti con obbiettività visto, inoltre, che la storia la fanno i vincitori. Il libro di Teodorani, ad ogni modo, colma una parte delle attuali lacune storiografiche rimanendo una testimonianza considerevole per procedere sulla strada della verità.

Lino Di Stefano

QUALE DIGNITÀ? (di Piero Nicola)

  A vario proposito, ma specialmente riguardo all’eutanasia e a pratiche similari, si fa un gran parlare di morte non dignitosa, di sofferenza con deplorevoli menomazioni della personalità, di agonie o di stati preagonici che sarebbero un insulto alla dignità dell’uomo.
  È assai probabile che queste idee indichino la perdita della fede di chi l’abbia avuta e la vana presunzione di averla. Infatti, per esse, si disprezzerebbe il culmine della Passione di Cristo, che chiese d’essere imitato, in tutto da chi ne avesse avuto la vocazione, e lo fu da santi martiri e confessori che patirono come lui prima di morire.
  Ma anche al di fuori di questi assistiti dalla grazia divina, devastati nel corpo spesso con studiati supplizi, e offesi in ogni loro facoltà naturale, sono numerosi gli esempi di eroismo naturale, fatto di sopportazione di strazi, di torture accettate essendo preludio di una morte edificante.
  Quanto ai fedeli moribondi che farebbero a meno di una fine tormentata, la Chiesa insegnò che Dio la vuole o la permette. Essa ne raccomandò l’offerta come di ogni altro patimento, e indicò il rimedio della tentazione che quella fine comporta, cioè il ricorso al sacerdote e alla richiesta di grazie, in particolare della Madonna, condannando chi volesse abbreviare la vita nel suo estremo, come autore di un delitto consumato anzitutto contro il Padrone di ogni vita.
  L’affermazione apodittica che vuole le pene estreme siano un affronto alla dignità è sonoramente smentita. Si può anzi sostenere il contrario: tali afflizioni sono anche occasione di salvezza, di puro sacrificio. Vorremmo sapere da questi pedestri – ed è dir poco – stimatori dell'efficienza umana, della salute corporea, come facciano a escludere che le agonie possano essere salvifiche, come riescano a stabilire che esse debbano gettare il sofferente nell’avvilimento disperato, facendolo soggiacere sino in fondo al danno proveniente dal male che l’opprime fisicamente, come  sanno che i patimenti dell'infermo riescono sempre ingrati agli occhi altrui.
  Quante delittuose menzogne si dicono in nome della dignità umana, di cui è stato talmente artefatto il senso, che ormai molta gente non ci si raccapezza più, se non ne travisa affatto il significato a causa della sostituzione della falsa dignità alla vera, per cui il ricupero dell'immagine del Creatore da parte della creatura scompare dietro una dignità finta o contraddittoria.
  L'uomo biancovestito ha ripetuto, con la sua caratteristica retorica, che si perde la dignità quando si perde il lavoro che procura una vita decorosa. Siamo daccapo: secondo l'insensatezza fuorviante divenuta verità convenuta, anche la miseria comporta una perdita della somiglianza con Dio, per chi la possieda, o un grave impedimento ad ottenerla, per chi non la possieda. La dignità è diventata qualcosa che altri ci può togliere! Viceversa, niente e nessuno riesce a farlo, se non cediamo, perché essa appartiene soltanto a noi, al pari del libero arbitrio.
  Abbiamo la contraddizione - mai chiarita - secondo cui la dignità che, elevata a prerogativa intangibile dell'uomo e ragione dei suoi diritti, apparterebbe ugualmente ad ogni essere umano, sicché potrebbe essere soltanto violata, non tolta o diminuita, sarebbe invece gravemente diminuita da malattia grave o miseria. Da affermazioni rivolte contro il delinquente e il suo complice, dedurremmo che anche costoro risultano indegni. Insomma: confusione.
  Effettivemente, la dignità appartiene a chi la merita, perciò l'incongruenza è doppia: sia avendo esteso la dignità di creature nel campo della dignità personale, sia avendo trasformato gli agenti esterni in possibili padroni delle anime.
  Per rimediare, dovremmo acconsentire a un'improprietà di linguaggio secondo cui si adopera dignità al posto di facoltà, che vengono offese, compromesse, con scapito equivalente a quello provocato dalla disgrazia incolpevole. Per il cristiano l'offesa ricevuta è, da un lato: una tentazione, una prova, dall'altro lato: un'occasione per la virtù e, recando danno: una disgrazia che sta nelle mani di Dio. Infine può esservi offesa dissimulata, che insinua una corruzione per la morale e anzitutto per la fede.
  Invece si parla di maligni coinvolgimenti nella complicità delittuosa come di un abbassamento deplorevole, e si tralascia il lato principe: la fede. Fa più male il camorrista o l'eretico? La risposta è indubbia. L'uno attenta al comportamento, induce a diventare peccatore o un peggior peccatore. L'altro attenta alla fede, induce a peccare contro lo Spirito Santo, a una fissata perdizione.
  Ma quando mai, si sente accusare i diffusori di errori e di eresia? Ora che sarebbe oltremodo importante, quando mai si addita il maggior pericolo per la nostra proprietà essenziale: per l'anima? Nemmeno per sogno! Impossibile! Coi banditori di falsità filosofiche e religiose si dialoga amichevolmente!
  Dunque, per coerenza, si posterga l'azione principale della vita: restaurare, per mezzo della fede e dei Sacramenti, la dignità ferita dal peccato originale e dalle sue conseguenze.
  Certo: per coerenza, perché questi abusivi una piccola credibilità devono mantenerla nella loro dolce impostura: se dovessero dare l'importanza che merita al Simbolo apostolico e ai Mezzi della grazia, dovrebbero tornare a distinguersi debitamente da eretici, scismatici, atei e compagni, nemici del Signore.
  Nelle ore precedenti le esternazioni dello pseudo-magistero, il guastatore ha voluto far brillare un'altra carica esplosiva nell'edificio della Chiesa. Egli ha giudicato senz'altro cattiva la pena di morte, sempre accettata dalla Chiesa, praticata da essa e da suo santi (p. e. San Pio V).
  Questa condanna della pena capitale combacia con lo stato dell'incredulo. Senza entrare nel merito della giustizia, giova considerare la speciale opportunità data al condannato di avere una buona morte, ossia una buona probabilità di salvezza per la vita eterna. Conseguentemente, la stessa fonte che deplora il capestro o la sedia elettrica, non fa nulla per rialzare al suo sommo rango il Ministero cattolico che reca la Confessione, la Comunione e le estreme assistenze religiose al giustiziato.
Tutto torna.


Piero Nicola

venerdì 20 marzo 2015

LE PAROLE CHE UCCIDONO IL NOSTRO FUTURO (di Piero Nicola)

  Chi intende operare - a suo modo e secondo le opportunità - mirando alla liberazione dalla decadenza esiziale in cui siamo rinchiusi, deve rendersi ben conto che senza aver smascherato, sbugiardato, mostrato nel loro postribolo e infine additato alla condanna certe parole tabù, non è possibile combinare un bel niente.
  Già i vecchi avevano nel dizionario luoghi di imbroglio, adesso i repertori di vocaboli sono diventati vetrine di meretrici. E non tanto perché la degradazione anglosassofila mostri l'indecente  tradimento della patria, in tali opere che recano un marchio coloniale. No. Sono da mondare vocaboli importanti vecchi e nuovi, che si stamperebbero a tutte maiuscole, quelli delle magne carte. Così come sono, vanno gettati nella spazzatura: destando lo stupore indignato, le ire e ogni altra forma di avversione e disprezzo, cui occorre rispondere per le rime.
  Non sarà diplomatico, non sarà nemmeno prudente, bisognerà preparavi il terreno? Meglio procedere per gradi o prendere il toro per le corna? Chissà! Dipende da diversi fattori. Certo è che di lì bisogna passare, con assoluta convinzione e decisione.
  Insomma! Dopo tanti anni di fallimento crescente, quando la perversione dei costumi e delle leggi, l'inefficienza cronica dello Stato rispetto a beni essenziali, l'ignoranza, la stupidità, l'abiezione diffuse in ogni strato sociale, si sono dimostrati effetti progressivi, irreversibili e procedono per folle inerzia, quale deduzione, quale diagnosi? Il sistema è marcio per cause intrinseche, è una macchina deteriorata per un telaio e per un motore truccati sin dalla loro installazione. Una macchina da rottamare e da sostituire con tutt'altri elementi strutturali e meccanici.
  Che significa se dei preti felloni, molli e illusi, possono credere in essa ed inchinarsi ai suoi malefici  meccanismi?
  Ma questa macchina diabolica, da togliere di mezzo assolutamente come opera di Satana, sta ancora su, rabberciata per mezzo di parolone cortigiane di bassa lega, entrate nel sangue dei più, persino di gente dabbene, invero affetta, generalmente, da dabbenaggine o da subdola infingardaggine.
  "Osano insegnare che la migliore costituzione dello Stato ed il progresso civile esigono assolutamente che la società umana sia costituita e governata senza verun riguardo della religione come se non esistesse, o almeno senza fare veruna differenza tra la vera e le false religioni".
  "Osano proclamare la volontà del popolo, manifestata, come dicono, con la pubblica opinione, o in altro modo, costituire la legge suprema, prosciolta da ogni diritto umano e divino".
  "Tutte e singole le prave opinioni e dottrine ad una ad una in questa Lettera ricordate con la Nostra Autorità Apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; e vogliamo e comandiamo che da tutti i figli della Chiesa cattolica s'abbiano affatto come riprovate, proscritte e condannate".
 La Lettera Enciclica è la Quanta cura, 1864, di Pio IX. Le proposizioni condannate, qui ridotte all'osso, sono elementi integranti delle costituzioni degli Stati democratici, della definizione di democrazia e ne informano la traduzione in pratica. Senza sovranità popolare e senza diritto del popolo, o dei suoi eletti (il che fa lo stesso), di legiferare con assoluta indipendenza, senza il laicismo, il presente concetto di democrazia sarebbe distrutto.
  Perciò bisogna che i cattolici degni di questo nome considerino come "riprovata, proscritta e condannata" la presente parola democrazia, in quanto essa contiene senza meno le "prave opinioni e dottrine" oggetto dell'Enciclica e del Sillabo ad essa connesso, e che per brevità non citerò, come non citerò le analoghe sentenze dogmatiche di altri Pontefici.
  Se mai si debba ammettere il laicismo come un male ora ineliminabile, da accettarsi per la giusta causa del bene comune, ovvero per scongiurare un male maggiore e certo, rimane l'obbligo di denunciare l'empietà e l'iniquità della convenuta democrazia, considerata da tollerarsi.
  Tolleranza che, tuttavia, non arresterebbe l'inarrestabile morbo, il quale altera la mente e il corpo della società trattata col metodo democratico. Esso ovunque genera gli stessi esiti: una classe politica e di incaricati statali formatasi senza alcun criterio e selezione morale, soggetta all'influenza o al comando di forze esterne e clandestine rispetto al sistema costituito, divisa in partiti concorrenti e faziosi, condizionata dal consenso elettorale per la propria sussistenza, svincolata dalla legge naturale e divina: essa ricorre alla frode e all'inganno, si serve di leggi corruttrici per lusingare, sedurre, viziare e addormentare il popolo, avvilendone la dignità. Le prove di questo processo di sudicia demagogia sono accessibili a chiunque si spogli dei pregiudizi.
  Prendo qualche esempio lampante. Sino agli anni '60 del secolo scorso, negli USA l'aborto era proibito da leggi severe nonché dalla pubblica opinione (vedi il film Pietà per i giusti, 1951), benché non cattoliche.
Nell''800 l'omosessualità veniva punita con pene severe, p.e. in Inghilterra (vedi processo e condanna di Oscar Wilde). L'eutanasia è permissione nuova, in paesi come l'Olanda. Il divorzio da noi fu introdotto negli anni '70. Altrove fu ugualmente una novità, oppure venne facilitato. L'America è la patria del banditismo del Far West e del gangsterismo. In Italia, dal dopoguerra il potere delle organizzazioni criminali si è moltiplicato; la diffusione della droga in ogni ceto e dall'adolescenza in avanti non trova riscontro alcuno prima del 1960. Le democrazie occidentali hanno rotto le difese contro le diverse forme di corruzione dei costumi e adonestano aberrazioni in materia sessuale, di procreazione e familiare.
  Tutto questo è valutato dagli inqualificabili amanti del progresso come riconoscimento di diritti e debita liberazione, altrimenti - per loro gentile concessione - come conseguenza minore e inevitabile del benessere. Possiamo noi acconsentirvi anche minimamente, senza macchiarci di omissione o di collusione infami e peccaminose? Niente affatto! Non esistono buona coscienza e scusa morale che ci salverebbero! E commettiamo una grave diserzione, se omettiamo di parlar chiaro.
  Le conseguenze dei vizi legalizzati sono diventate macroscopiche: corruzione di singoli, di società e di enti; spadroneggiare di mafie, complici i poteri politico-amministrativi; governi succubi di loschi interessi internazionali; crisi economiche artefatte per le medesime convenienze; moralità individuale e pubblica sempre più scadente e in una condizione di quasi irreversibile pervertimento.
  Non vuol dir nulla che questo stato deplorevole potrebbe doversi addebitare ad un regime senza Dio d'altra specie. Il cresciuto e crescente stato morboso è figlio dell'idea e dell'esercizio democratici e di nessun altro. Finché di essi non s'imporrà l'aspetto mostruoso e vergognoso, non avremo speranza di uscire da questo infernale parco di Walt Disney, che leva scenari di cartapesta su miserie e pestilenza.
  A questo segno, mi accontento di elencare gli altri termini che fanno corona alla ferale e ormai largamente infetta democrazia: la libertà (che si proclamò indeterminata e soverchia, per giungere a legittimare inaudite fornicazioni); i diritti umani (pretesto con cui si propinano allucinogeni alle masse, che indulgono alle licenze indecenti o criminali: p. es. facoltà di aborto, di spacciare dottrine mortali, diritto di sciopero o di serrata); il dialogo (nefandezza per la quale bisognerebbe considerare degni gl'indegni, venire a compromessi inaccettabili con i nemici di Dio e della giustizia, insomma disubbidire a Nostro Signore); ecc.
  Sorge la domanda: allora quale soluzione, quale alternativa? Eh già! Dopo anni di lavaggio del cervello siamo ridotti a questo: sembra che ogni altra via d'uscita sia preclusa dall'ostacolo dell''iniquità antidemocratica! Impostura!
  Premesso, di nuovo, che non possiamo noi, cattolici credibili, ignorare il dovere cui sottostà qualsiasi regime di osservare anzitutto la divina Volontà e di onorare il Creatore, dovere che, una volta rispettato,  rende ogni forma di reggimento dello Stato ammissibile, ricordato ciò, restano disponibili tutte le forme di Stato storicamente riconosciute dalla Chiesa.
  Considerando quelle che sembrano maggiormente convenire a questa bassa epoca, c'è il corporativismo, sperimentato con buona riuscita nel Novecento da alcune nazioni; c'è, in genere, una costruzione statale semplice, esente da partiti e da sindacati politici, ove risaltino i soggetti responsabili del governo e della legiferazione, ove il sacrificio di certe libertà e facoltà risulti un valore e non un'ingiustizia, ove ai valori autentici (Dio, patria, famiglia, sacrificio, onore) sia ridato il posto che spetta loro. 
  Per finire, non mi tengo dallo spendere in due righe il soggetto di un'ampia disamina. Trattasi della falsità dell'informazione colta in fallo. Informazione di sicuro al servizio del suo padrone: il potere democratico. Sicché non si presti credito nemmeno ai dati statistici, ai vari indici economici pubblicati: non sono gli angeli a compilarli...
  Dunque, i vari notiziari internazionali hanno mostrato il ministro delle finanze di Atene in un filmato: nell'atto di fare un gesto volgarissimo, osceno e offensivo del governo tedesco. La trasmissione, attuata con grande effetto di discredito del ministro ellenico, in un momento cruciale dei rapporti fra Grecia e UE, ha fatto fiasco (parzialmente, in quanto dopo qualche giorno) per il solo motivo che il fotomontaggio del dito alzato era troppo mal fatto e verificabile!
  Regimi diversi potrebbero scendere così in basso, ma sono davvero patetici gli ingenui democratici che insistono a portare sugli scudi il regno della massa (o piuttosto dei ladri e dei lestofanti): questa cosa che mette ribrezzo toccare col bastone.


Piero Nicola

martedì 17 marzo 2015

Dopo la filosofia moderna il tomismo

"Come ha ben osservato Pio X nell'Enciclica Pascendi il male del quale soffre il mondo moderno è anzitutto un male dell'intelligenza: l'agnosticismo. Esso, sia sotto forma di positivismo empirico sia sotto quella di idealismo, mette in dubbio il valore ontologico delle nozioni primordiali nonché dei primi principi della ragione, non permettendo più di provare con certezza obiettivamente sufficiente l'esistenza di Dio" Réginald Garrigou-Lagrange


 Quasi non avessero udito il rumore prodotto dalla rovinosa caduta della filosofia moderna nel vaniloquio francofortese e fossero altresì ignari dell'imbarazzante regresso delle avanguardie laiciste all'antica eresia gnostica, i compunti e saccenti prelati, addetti  alla diminuzione dell'autorità cattolica e alla modernizzazione della dottrina, hanno steso il velo di un immotivato e autolesionistico silenzio sulle trionfanti ragioni della metafisica tomista.
 Con felice e tempestiva scelta la veronese casa editrice Fede & Cultura ha deciso di pubblicare, quasi provocatoriamente, Essenza e attualità del tomismo, il magistrale saggio del padre domenicano Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), opera che ha costituito la premessa alla restaurazione della filosofia compiuta da padre Cornelio Fabro (e gettata al vento dai velisti in navigazione clericale sulle acque torbide e infide della modernizzazione).
 Scritto da uno specialista e indirizzato al clero dotto, il testo di padre Réginald è tuttavia comprensibile dal qualunque lettore cattolico istruito dal catechismo e interessato seriamente alle indeclinabili ragioni della metafisica, in uscita vittoriosa dai labirinti della modernità e dalla palude del modernismo.
 L'illustre domenicano sostenne infatti che le verità della philosophia perennis hanno radice nel senso comune e citò quale prova di tale affermazione l'uso universale del verbo potere: "dicendo, per esempio, che la materia può diventare - per assimilazione nutritiva - pianta, animale o carne umana, tutti diciamo che l'intelligenza umana può conoscere facilmente i primi princìpi e le conclusioni che ne derivano immediatamente". 
 La metafisica ha origine dal pensiero comune: i filosofi che hanno confutato le suggestioni dello scetticismo,  hanno attuato il passaggio dalla nozione generica di potere "alla nozione distinta di potenza sia attiva che passiva e a quella di atto. ... Come conciliare senza le nozioni di potenza ed atto, il principio di non contraddizione o di identità con il divenire e la molteplicità degli esseri?"
 I modernisti hanno avvelenato la radici della filosofia rifiutando il programma inteso alla adaequatio rei et intellectus per gettarsi all'inseguimento delle chimere dei progressisti.
 Il rifiuto delle tradizionali nozioni di potenza e atto ha screditato i princìpi primi del pensiero, ha promosso la mitologia intorno all'evoluzione della verità ("Veritas non est immutabile plusquam ipse homo, quippe quae cum ipso, in ipso, et per ipsum evolvitur"), ha frenato la reazione  all'assurdo sessantottino (Herbert Marcuse secondo il quale il principio di identità e non contraddizione è fascista) e ha indebolito la reazione al gorgo tenebroso e disperato della rivolta contro la vita, progettata dalle filosofie malthusiane e ultimamente avviata dalla finanza iniziatica e dalla politica decerebrata e servile.
 Padre Réginald, quasi prevedendo e annunciando le fragilità buoniste e gli empiti sincretisti in scena nel Vaticano II,  affermava l'impossibilità di scendere a patti con le filosofie in rivolta contro la realtà, e citava al proposito la squallida parabola della riduzione modernistica della fede a pura esperienza religiosa: "Era l'indizio non di una crisi della fede, ma di una malattia assai grave delle intelligenze, che conduceva il modernismo sulle tracce del protestantesimo liberale e, attraverso il relativismo, allo scetticismo assoluto".   
 Opportunamente padre Réginald propone lo schema storiografico, che deve guidare gli studiosi cattolici alla comprensione dei mortiferi errori in circolazione nella baldoria moderna: "All'origine degli errori d'oggi ci sta, fin dai tempi di Hume e di Kant, il seguente sbaglio: la relazione essenziale dell'intelligenza con l'essere extramentale viene soppressa: perciò l'intelligenza moderna non può più elevarsi con certezza a Dio, primo Essere; essa ricade su se stessa e dice finalmente che Dio non esiste nell'ordine trascendentale, ma che Egli diviene in noi. Fu così che l'agnosticismo di Kant condusse al panteismo di Fichte e all'evoluzionismo assoluto di Hegel".
 Un approfondito esame delle radici gnostiche dello hegelismo e dell'evidente naufragio del pensiero moderno nel nichilismo, "fenomenologia dell'autodistruttore", giusta la magistrale definizione di Marcel de Corte, segnala ai cattolici l'urgenza di una seria revisione degli incauti e rovinosi slanci sincretistici suggeriti dalle tesi di Giovanni XXIII intorno all'autocorrezione del pensiero moderno.
 L'estenuante e sterile dialogo con la fallimentare filosofia moderna può essere finalmente  rovesciato nella rinnovata cognizione dell'eccellenza della metafisica di San Tommaso,  "che considera ogni cosa non in rapporto al movimento, al fieri, né in rapporto all'io umano o all'azione umana, bensì in rapporto all'essere, cioè in rapporto al primo intelligibile, oggetto proprio della metafisica".
 Alla gerarchia cattolica la crisi del moderno offre l'opportunità di recuperare le verità filosofiche conquistate da San Tommaso d'Aquino e opposte agli errori del moderno da geniali interpreti quali sono stati Réginald Garrigou-Lagrange e Cornelio Fabro.

 L'uscita dalle griglie incapacitanti del buonismo non può aver altro inizio che la riscoperta della indeclinabile filosofia dell'Angelico.

Piero Vassalllo