La città di Rieti ha dato i
natali ad importanti personaggi, ad iniziare, da Marco Terenzio Varrone (116-27 a .C.), - giustamente chiamato
“Romanorm eruditissimus” - il grande imperatore romano Tito Vespasiano (9-79
d.C.), capostipite dei Flavi, per limitarci a qualcuno del mondo antico e, in
epoca più a noi recente, i grandi studiosi Eugenio Dupré (1898-1975),
medievalista insigne, Renzo De Felice (1929-1996), massimo studioso del
fascismo - fino a diventare un’autorità indiscussa in tale campo – e, infine,
Eugenio Garin, noto storico della filosofia, sempre per menzionare i più
ragguardevoli.
Quest’ultimo, nato a Rieti nel 1909, realizzò l’intero ‘cursus honorum’
nei migliori Atenei italiani – Cagliari, Palermo, Firenze, Normale di Pisa –
non senza esercitare, come era di prammatica allora, il proprio magistero
didattico anche nelle scuole secondarie superiori. Esperto dei nostri Medioevo,
Umanesimo e Rinascimento, lo studioso dedicò a tali importanti movimenti di
pensiero diverse opere quali, per rammentarne alcune, ‘Umanesimo italiano’
(1947), ‘Medioevo e Rinascimento’ (1954), ‘Cronache di filosofia italiana’
(1955), ‘L’educazione in Europa’, 1400-1600’ (1957), ‘Cronaca di Educazione umanistica
in Italia’ (1949-1966, 2^), ‘Ritratti di umanisti’ (1967-1973, 2^), etc.
Lo storico ha redatto anche un ‘Manuale di storia della filosofia’
(1968) in tre volumi per le scuole secondarie superiori nella cui premessa
leggiamo che “il detto comune, che prima convenga vivere e poi filosofare, è
vero solo entro certi limiti, finché, cioè, alla vita si dia il significato di
un puro vegetare che non intende rendersi conto di nulla; di una pura passività
in cui noi, che pur viviamo, non prendiamo parte alcuna”. Da qui la conclusione
del Reatino secondo cui “nella storia del pensiero occidentale noi prendiamo
contatto con i nostri padri spirituali, della forma precisa in cui si è
definita noi il nostro problema di vita”.
Studioso di fama mondiale, Eugenio Garin, di origini aostane, ha legato
il proprio nome anche a tantissime iniziative culturali non senza dirigere,
diverse Riviste e, in particolare, ‘Il giornale critico della filosofia
italiana’, fondato dall’insigne filosofo Giovanni Gentile. Quest’ultimo nel
celebre saggio ‘Il pensiero italiano del Rinascimento’ (Sansoni, Firenze, 1968,
4^) ebbe parole di stima nei riguardi dell’autore – appunto Eugenio Garin - del
saggio ‘La ‘dignitas hominis’ ( Firenze, 1938, I^).
Il pensatore scriveva, testualmente, non solo che si trattava di un
“accurato studio”, ma aggiungeva anche che in esso “si riconosce lo speciale
rilievo e significato che il concetto di umana dignità assume posteriormente, e
che pertanto, anche dopo i nuovi studi, queste mie pagine di più di vent’anni
‘mantengono oggi tutto il loro valore’”. Ad ogni modo, lo storico reatino ha
lasciato tracce indelebili non solo nel campo specifico degli studi umanistico-rinascimentali,
ma pure in altre sfere della filosofia e della cosiddetta ‘Kulturgeschichte’.
La sua ‘Storia della filosofia italiana’ e le sue ‘Cronache di filosofia
italiana’ restano un importante monumento culturale e, come scrisse il filosofo
italiano Vittorio Mathieu, Eugenio Garin “il controllo più rigoroso lo
esercitava anche sui dati che utilizzava nelle sue ricerche, caratterizzate da
quella virtù di precisione che i dotti chiamano ‘acribìa’”.
Da qui, la definizione di ‘ultimo grande umanista del Novecento’
ascrittogli dagli studiosi, come ad esempio, Armando Torno, il quale sulle
colonne del ‘Corriere della sera’ (30 dicembre 2004) osservò,
significativamente, che egli “fu un uomo che seppe combattere il pessimismo con
la volontà e che riusciva ad affascinare chiunque dopo poche parole” perché
“sapeva, come i veri maestri, mettere sempre l’interlocutore perfettamente a
suo agio: gli bastavano due o tre battute, un sorriso,un gesto”.
Un’altra opera capitale del filosofo reatino risponde al nome di
‘Ritratti di umanisti’ (Sansoni, Firenze, 1967) nella quale, com’egli osservava
nell’Avvertenza, “sono (…) riuniti, aggiornati nella bibliografia, e talora
arricchiti di documenti ignoti, sette profili di grandi figure del
Quattrocento, intorno a cui si annodano e si addensano eventi e personaggi non
banali”. Ripresentarli, concludeva lo studioso, “non è certo agevole, ma
tentarlo val bene la pena”.
E i menzionati uomini, tutti di prim’ordine, rispondevano e rispondono
ai nomi di Enea Silvio Piccolomini, Paolo dal Pozzo Toscanelli, Guarino Veronese,
Filippo Beroaldo, Angelo Poliziano, Gerolamo Savonarola e Pico della Mirandola.
Mirabile, in tale testo, il giudizio gariniano sulla nostra Rinascenza: “Il
Rinascimento italiano è stato una stagione splendida della storia del mondo:
non una stagione lieta. Savonarola e Machiavelli, Leonardo e Michelangelo hanno
aspetto tragico, non gioioso; la loro grandezza è sempre terribile; la loro
serenità è oltre il dolore, di là di ogni illusione”.
I profili dei nostri grandi umanisti continuano nell’altro bel saggio
dello studioso reatino - intitolato ‘Educazione umanistica in Italia’ (Laterza,
Bari, 1966) – e comprendente personaggi del calibro di Coluccio Salutati,
Leonardo Bruni, S. Bernardino da Siena, Maffeo Vegio, Pier Paolo Vergerio,
Matteo Palmieri, Leon Battista Alberti, Antonio dei Ferrariis e Vittorino da
Feltre.
Dal
loro magistero apprendiamo, puntualizzava l’Autore nell’Introduzione, “ciò che
caratterizza lo spirito di tutta l’educazione umanistica” ed ovverosia, egli
proseguiva, “l’esigenza della formazione dell’uomo integrale, buon cittadino e,
se occorre, buon soldato, ma insieme, uomo colto, uomo di gusto, che sa godere
della bellezza e sa gustare la vita; che dal mondo sa trarre tutto quanto il
mondo può dargli”.
Purtroppo, anche un uomo del valore di Eugenio Garin – un po’ come la
maggioranza degli intellettuali italiani – incappò, in qualche giudizio storico
contraddittorio allorquando, per esempio, nell’esaminare fenomeni politici a
lui coevi, così si espresse: “Quel che erano dal 1890 al 1900 gli operai che
attraverso persecuzioni e a carceri capitanavano il movimento della loro
classe, furono dal 1919 al 1921 i giovani ardenti che chiamavano gli Italiani
alla riscossa contro il bolscevismo”.
Altrove – riferendosi, a Marx e ad Engels – confermò il giudizio
precedente condannando la sostanza liberticida del marxismo ma, in seguito, in
un’intervista al ‘Corriere della sera’, paragonò il ‘Manifesto del partito
comunista’ al Sermone della Montagna. La medesima indecisione mostrò nel campo
prettamente speculativo; eppure durante tutti gli anni Trenta, lo storico della
filosofia ammirò l’attualismo gentiliano contrapponendolo alla crudeltà della dottrina
marxistica.
Scrisse, infatti, tra l’altro, nelle pagine dedicate al filosofo
dell’Atto puro – in una sua ‘Storia della filosofia’, edita nel 1944, a Firenze, da
Vallecchi – che “in questa coscienza profonda della vita spirituale stanno il merito più
grande e l’efficacia profonda della speculazione gentiliana”; eliminò, invece, quest’ultima dichiarazione nell’edizione dello
stesso manuale edito, dalla Sansoni, nel 1968.
Nel quale, però, l’apprezzamento
per il neo-idealismo di Gentile rimase, nel complesso, positivo nel momento in
cui egli sottolineò che “quel suo onnipresente filosofare non è che richiamo,
nell’universale vivere e operare, al senso di ‘un’umanità profonda’, che è il
senso dell’onnipresenza dello Spirito”. Non a caso, alla fine del capitolo
dedicato al neo-idealismo italiano, il Reatino inserì quelle belle pagine
gentiliane dedicate alla riflessioni sulla morte; pagine tratte dal ‘Saggio di
filosofia pratica’, sottotitolo del volume ‘Genesi e struttura della società’,
grande ed ultimo capolavoro del filosofo.
Lino Di Stefano
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