Cinque
anni fa nella sterile e cimiteriale città di Genova moriva Raffaele Francesca,
uomo di alta cultura, scrittore di polso, fantastico romanziere e coraggioso
testimone della dottrina e della storia proibita.
Bon
vivant indenne da umiliante invidia e da grigio malanimo sopportava
allegramente l'emarginazione decretata dal lugubre salotto, tribunale allestito
per incensare scriventi senza ispirazione, conformisti senza ritegni, poeti della
domenica, torturatori delle grammatiche e maestri del copia e incolla.
Era
soprannominato il mascalzone, per le sue ratte irruzione alle casse
delle birrerie, dove gli amici, ad esempio Giano Accame, Luciano Garibaldi,
Pier Franco Malfettani, Cesare Viazzi, Alberto Rosselli, Mario Sossi, e Sergio
Pessot, consumavano - con intenzione di
pagare romanamente - libagioni, che la presenza di Raffaele rendeva
allegre e felici.
La
nobile origine meridionale, la strutturale generosità e la nostalgia fascista
tuttavia hanno vietato l'integrazione di Raffaele in una città ignobile, fetida
e grigia come l'acqua del torrente Bisagno.
Inoltre
l'amicizia con il fascista repubblichino Walter Chiari e con altri intoccabili
fece salire al più alto livello la disistima della resistenziale città nei suoi
confronti.
Quasi
personificazione di uno sfortunato/ingannato eroe kafkiano, stava in attesa
della meritata stima davanti alla porta del suo castello, occupato dai
poteri della mediocrità urlante dai palchi della cultura ufficiale.
L'ingenua
fede nella giustizia gli faceva talora credere impossibile la negazione del suo
indubbio valore. Ritornava sui suoi passi quando incontrava l'indifferenza
settaria, che "spariglia i pensieri, come paglia nell'aria, questo spaesamento
che, non pago di condurre il gioco, ignobilmente si diverte a barare".
La sua
indeclinabile, spirituale infanzia ascoltava stupita gli applausi scroscianti
dal potere che compensa la vaselinosa adulazione del fantasma progressista. Era
incapace di comprendere il settarismo, che persuadeva gli intellettuali
collocati nel lato sinistro dello scisma totalitario a ignorare la qualità
elegante della sua prosa.
L'amore
per la bella prosa lo costringeva ad apprezzare autori lontani dai suoi ideali.
Si era perfino abbassato all'ammirazione della tristezza allo struscio nelle
composizioni di un cantautore appartenente all'anarchia alto-borghese.
La
nobiltà d'animo gli impediva la visione della tortuosa e livida gelosia della
setta progressista. Disarmava gli amici che tentavano di mostrargli il
prolungamento letterario dell'odio di classe alzando le spalle: "Io non
sono un capitalista".
Se non
che l'invidia accompagnava il girotondo della città, sedicente colta, intorno
alla chimera regnante sui cascami della rivoluzione partigiana &
sessantottina.
Un
sinedrio di anime morte tra fasulli allori e senile albagia, gli negava perfino
l'opportunità di opporre alla pia leggenda la monumentale documentazione sul
delitto - l'immane strage - consumato dai partigiani sulla collina di San
Benigno.
Era un
amante della bella lingua. Nel risvolto del suo ultimo libro si legge: "Convinto
che la lingua italiana sappia farsi dipinto e musica, la usa con dovizia e
precisione, opponendosi al dilagante imbarbarimento che la riduce a pochi,
ripetitivi vocaboli". Probabilmente scritta da lui, questa
dichiarazione di guerra alla letteratura progressista è l'incipit di un
trattato sull'arte di farsi nemici e un preludio alla biografia
dell'intelligenza sottovalutata ed emarginata.
Indenne
da spocchia era incapace di alzare una barriera davanti alla tormentosa
chiacchiera del culturame non pensante e non leggente, squallida fabbrica di
sentenze sputate per abbassare e umiliare le stature non appiattite sulla zero
a sinistra.
Scendendo
sulla sua pelle i silenzi della grigia città - luogo degli anomali e mostruosi inciuci
tra la finanza iniziatica e il socialismo irreale - consegnavano la limpida
malinconia di Raffaele all'onda opaca della depressione.
Mal
di Genova, la nascosta depressione di Raffaele, male trasmesso dallo
scirocco fetido e appiccicoso, dal fiato del conformismo assillante, dalla voce
implacabile dei microcefali, dalle scemenza soffiate nel salotto emanato dai
classici coglionifici, mulini che macinano il cadaverico lezzo della modernità.
Dalla
città morta l'agonia di un'anima nobile e incapace di arrampicarsi: "Mentre
un'ansia maligna costantemente ti spegne dentro desiderii, speranze, sete di
vivere, impulso a uscire nel mondo, voglia di fare le cose che hai sempre amate
...mentre ciò accade, l'insolenza dolorosa e livida del male oscuro, ... le sue
inquietudini incessanti che non concedono parole atte a narrarle,
inappellabilmente ti precludono la fugace, magari truffaldina, consolazione di
un chi sa".
Raffaele è morto di sfinimento in una triste
notte del 2005. La sua poesia ha combattuto invano contro la noia invincibile
della città grigia. Nell'esilio il suo canto testimonia la vita che non si
arrende.Piero Vassallo
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