lunedì 18 maggio 2015

LA LIQUEFAZIONE DELLO STATO (di Luigi Copertino)

Aristotele e Tommaso d’Aquino insegnano che l’uomo è un essere politico, ovvero per natura, non per contratto ossia non per decisione di volontà soggettiva (come hanno ritenuto più tardi Hobbes, Locke e Rousseau), vocato alla vita comune con gli altri uomini, secondo modulazioni di appartenenza comunitaria che dalla famiglia passando per il comune e la professione o il ceto – tutte queste considerate “communitates imperfectae” – giungono fino alla Comunità politica – considerata “communitas perfecta” – la quale ha storicamente conosciuto forme diverse: il clan tribale, la polis antica, i regni e gli imperi precristiani, l’impero ed i regni feudali, il comune medioevale, le monarchie nazionali e le repubbliche. Lo Stato moderno, che nasce con la monarchia nazionale e si sviluppa poi in repubblica liberale e democratica, è pertanto solo una forma storica della dimensione politica dell’uomo.
All’ordine del giorno della odierna discussione filosofico-politica vi è la questione del “tramonto dell’epoca della statualità” ossia della modernità. Per comprendere questo fenomeno è necessario però indagare storicamente sulle origini della Comunità Politica, di cui lo Stato, come detto, è la forma nata nella modernità.
La Comunità Politica è sempre stata, presso ogni cultura umana, radicata nella sfera del Sacro sicché ciò che era comune, e dunque “politico” nel senso nobile di questa parola, era immancabilmente consacrato da un’investitura dall’Alto. Da qui la sua sacralità riflessa sul piano immanente.
L’antica tripartizionale funzionale indoeuropea, studiata dal Dumezil, esprimeva proprio questa connessione del Politico con il Sacro. Una connessione che non apparteneva soltanto all’ambito indoeuropeo perché presente in ogni cultura umana, indipendentemente dall’area linguistica o etnica. La consacrazione dei re di Israele da parte dei profeti ne è un chiaro esempio in ambito ebraico. La sacralità della funzione monarchica o imperiale nelle più diverse aree culturali, come ad esempio l’antico Giappone o l’antica Cina, ne è un altro esempio. Persino la stretta relazione esistente tra lo sciamano ed il guerriero capo tribù nelle popolazioni nomadi, come i pellerossa, è esempio della stretta connessione da sempre sussistente nella storia dell’umanità tra Sacro e Politico.
Questa connessione non è affatto venuta meno, come molti erroneamente ritengono, con il Cristianesimo. Se è vero che Cristo ha ben distinto, ma non conflittualisticamente separato, ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare, è tuttavia verissimo che, attraverso il riconoscimento che Nostro Signore ha fatto della legittimità dell’impero romano – cosa questa che ha contribuito a renderlo sospetto alla cultura ebraica del suo tempo la quale aspettava un messia guerriero e liberatore dal dominio romano – la Chiesa ha ereditato i grandi valori universalistici ed etici del diritto romano individuando in essi l’espressione, preparatoria dell’Annuncio cristiano, del diritto naturale, iscritto, al di là dell’opzione di fede, da Dio nel cuore umano. Su questa base l’Aquinate ha potuto porre tra la Legge di Dio e la legge civile la legge di natura. La legge di natura fu riconosciuta come intimamente propria a ciascun uomo ed a ciascuna epoca anche se variamente modulata, ma non nell’essenziale, a seconda delle culture e delle epoche. Ponendo la legge di natura quale mediazione tra la sfera divina e quella umana, tra Trascendenza e Politico, la riflessione teologico-politica medioevale evitò, da un lato, ogni laicismo separatista e, d’altro canto, distinguendo le due sfere proprio grazie all’intermediazione del diritto naturale, ogni tentazione teocratica o fondamentalista. 
La tradizionale connessione tra Sacro e Politico comportava la natura “guerriera” ovvero “militare” dell’Auctoritas Politica (la medioevale Potestà temporale). La Res Pubblica romana, ad esempio, nacque dall’organizzazione militare dell’esercito che si fondò prima, in epoca monarchica, sui comitia curiata e poi, nell’età repubblicana vera e propria, sui comitia centuriata. I patres conscripti senatoriali erano, almeno all’origine, i capi famiglia responsabili dell’inquadramento in armi dei membri della propria gens al momento della chiamata da parte della Res Pubblica. La gens romana era, originariamente, una sorta di tribù con seguito servile: un po’, in altro ambito ed al di là del carattere non nomade dell’Urbe prisca, come quella di Abramo. Anche successivamente, come dimostra il periodo delle guerre civili e la carriera di famosi tribuni tipo Pompeo e Cesare, il cursus honorum del cittadino alle alte cariche dello Stato romano iniziava dal duro e lungo servizio militare. Non si diventava cittadini a pieno titolo se non attraverso il percorso della carriera militare. Sebbene sempre più formale che sostanziale, la natura militare dell’Imperatore rimase anche in età post repubblicana. Questa origine comportava anche una concezione essenzialmente militare dell’organizzazione civile della Res Pubblica. Tutto l’apparato amministrativo dello Stato romano era modellato, anche nelle carriere, sull’organizzazione militare. Si trattava di un modello gerarchico, di ordini e di esecuzioni, che assicurava, secondo il ferreo spirito militare coltivato nelle legioni romane, la massima efficienza dell’apparato statuale come se si trattasse di un esercito in guerra il cui scopo fosse la vittoria con il minimo di perdite umane. Sebbene in un mutato spirito dei tempi, connesso con la fragilità feudale e comunale, anche in età medioevale l’organizzazione amministrativa, per quel poco che di essa sussisteva, rimase legata, nei diversi livelli dell’Impero, dei regni, dei feudi e dei comuni, a modelli di origine militare e pertanto fortemente gerarchici.
In età pre-moderna questo tipo di organizzazione della Comunità Politica e delle sue funzioni si reggeva essenzialmente, pur con tutte le umane deficienze, sulla sacralità dell’Autorità (autorità deriva dal latino “augere” che significa “far crescere, aumentare”), sicché coloro che incarnavano o rappresentavano, ai vari livelli, lo “Stato” si sentivano investiti di quella stessa sacralità anche perché erano selezionati, mediante la dura esperienza delle armi, attraverso prove che ne mettevano in luce le doti di Fides, di Pietas, di Humanitas, secondo i valori propri della romanità. Successivamente, con la trasformazione della romanità in cristianità, a dette doti se ne aggiunse un’altra, più alta dei predetti ma ad essi strettamente confacente, quella, soprannaturale, della Caritas. Chi era al comando, in altri termini, doveva dimostrarsi, agli occhi dei “suoi” uomini ossia del “suo” popolo o perlomeno tentare di apparire tale, “militarmente” degno per virtù umane della posizione occupata. In età cristiana, di essere degno, o tentare di esserlo, anche dell’infusione soprannaturale della Grazia Divina. Tutto ciò naturalmente in linea ideal-tipica di principio, laddove la realtà era ben altra. Tuttavia, si trattava di una concezione comunque, in epoche non ancora secolarizzate, effettivamente agente nella formazione della mentalità diffusa e dunque nei rapporti sociali.
A parte il caso della Monarchia ispano-asburgica, che all’epoca rappresentò una valida alternativa alle emergenti monarchie nazionali (1), lo Stato moderno nasce nel XVI secolo nella forma delle monarchie assolute “superiorem non recognoscentes” (dove per “superiorem” devono intendersi le due compagini universali del medioevo ossia la Chiesa e il Sacro Romano Impero). In tal senso, come ha rilevato Carl Schmitt, lo Stato moderno è “il primo agente della secolarizzazione”. Esso, sul piano del Politico, ha rinnegato ogni legittimazione di tipo sacrale, ha chiuso le vie verso l’Alto ed ha aperto inesorabilmente la via verso il basso imponendosi come una grande macchina fondata sul “contratto sociale” stipulato, in un supposto e mitico “stato di natura”, da individui originariamente totipotenti che, in tal modo, avrebbero inteso regolare i reciproci e necessari rapporti di utilità mediante un accordo artificiale delle volontà soggettive. Un contratto che, secondo le diverse prospettive dell’unico filone gius-filosofico contrattualista, diventa la legittimazione immanentista, decisionista e volontarista, dello Stato moderno sia esso quello assoluto, il Leviatano, di Hobbes, sia esso quello costituzionale di Locke o quello totalitario, fondato sulla Volontà Generale, di Rousseau. Per i suoi teorici, da Machiavelli a Bodin passando, appunto, per Hobbes, Locke e Rousseau, lo Stato moderno rappresenta uno spazio politico finalmente affrancato da qualsiasi trascendenza (anche laddove questa, come nel caso di Locke, sia deisticamente lasciata immota ed indifferente sullo sfondo).
Lo Stato moderno ha rappresentato la momentanea e necessaria tappa per il passaggio dall’Universalismo romano-cristiano ad un altro tipo di universalismo, non più cristiano, che oggi chiamiamo globalizzazione. Nel momento in cui lo Stato ha assolto alla sua funzione di completa desacralizzazione del Politico, momento coincidente con il passaggio storico dal moderno al postmoderno, esso è stato dissolto dalle stesse forze nichiliste e destrutturanti che ha contribuito, innescando il processo di secolarizzazione, a scatenare. Sicché è una pura illusione il fatto che l’emergere di apparentemente antiche istanze localistiche, federalistiche, sussidiarie, sia una sorta di ritorno alla Comunità Politica di tipo pre-moderno. In realtà queste istanze sono del tutto strumentali al completo compimento del processo di globalizzazione (si parla ormai di “glocalizzazione”) mediante la perforazione transfrontaliera dello Stato nazionale, erede democratico delle monarchie assolute del XVI secolo, in favore di assetti territoriali di tipo regionale (l’Europa delle regioni, ad esempio) in concorrenza tra loro nel mercato globale amministrato dalle organizzazioni planetarie dell’economia e della finanza: dalla bancocratica U.E. al W.T.O., dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale, per finire, oggi che l’O.N.U. si è dimostrato incapace del governo globale dei conflitti, agli stessi Stati Uniti d’America che hanno, sin dal 1945, sostituito l’Inghilterra nel ruolo di gendarme coloniale del mondo.
Quando attualmente da più parti si contrappone la società liquida postmoderna alla modernità solida, che è ormai alle nostre spalle, andrebbe anche osservato che quest'ultima ha generato lo Stato nazionale moderno il quale, a suo tempo, si impose contro la Cristianità medioevale cercando tuttavia, nonostante rinnegasse a suo fondamento la Trascendenza, di conservare, fino a quando gli è stato possibile, una apparenza artificiale di sacralità però immanente. Dietro la apparente contrapposizione tra post-modernità liquida e modernità solida, messa in luce da Zygmunt Bauman, si nasconde in realtà una sostanziale continuità: il postmoderno porta a compimento tutto il nichilismo politico, ossia la liquefazione della dimensione comunitaria, che era già virtualmente implicito nella modernità. La quale aveva sostituito una artificiale e meccanica forma sociale al comunitarismo medioevale fondato sulla Trascendenza sacrale. Se, infatti, alla “modernità solida”, può applicarsi la metafora del ghiaccio, alla post-modernità, che da essa consequenzialmente si sviluppa, corrisponde la metafora dell’acqua allo stato liquido: ma si tratta della medesima acqua che prima, ghiacciata, aveva forma solida.

Il comunitarismo premoderno della Cristianità medioevale era, tuttavia, anche stratificazione e gerarchia sociale che proprio lo Stato moderno ha livellato gradualmente distruggendo le comunità intermedie e la stessa stratificazione sociale. Però in tal modo lo Stato moderno ha anche fatto nascere da un lato l’individuo astratto, ossia senza relazioni sociali se non quelle utilitaristiche, e dall’altro il collettivo, ossia la somma sinallagmatica degli individui astratti, che non è certo “comunità”. Questa complementarietà dialettica e meccanicistica tra individuo e collettivo ha poi trovato corrispondenza nella distinzione tra privato e pubblico, tra mercato e burocrazia. Lungo questo percorso si sarebbe giunti successivamente, complice anche le trasformazioni tecnologiche della Rivoluzione Industriale, alla società di massa, ossia ad una società sociologicamente parcellizzata tenuta unita solo dalla legge impersonale e dal contratto. La società di massa, a sua volta, ha conosciuto prima un momento politicamente “forte”, coincidente con i grandi totalitarismi ed i dinamici autoritarismi, appunto, di massa, e poi un momento politicamente “debole”, coincidente con la dissoluzione dello Stato, in precedenza egemone sulla società sottostante, nella “società civile”, ossia nel mercato, nella pura immanenza, che ha finito per soppiantare il primato della Comunità politica organizzata a Stato. Parallelamente abbiamo assistito al progressivo prevalere dell’economia sul Politico, della finanza sull’economia reale ed allo sconfinamento transnazionale dei mercati ossia alla globalizzazione. Il Globalismo del Mercato Mondo, dissolvendo lo Stato nazionale moderno (nonostante ogni sua pretesa alla conservazione di una sacralità artificiale ed immanente), ha creato una rete transnazionale di micro unità economiche territoriali, in continua trasformazione, sulla quale circola indisturbato, e completamento libero da ogni legame e responsabilità sociale o nazionale, il capitale finanziario apolide.

Nel medioevo, soprattutto a partire dalla riscoperta, intorno all’anno mille, del Corpus iuris justinianus, l’idea politica romana della Auctoritas/Potestas e le figure giuridiche della lex e del negotium tornarono certamente ad essere presenti, sia nell’elaborazione universitaria che nella pratica civile. Ma questo non significa che esse fossero colte allo stesso modo nel quale erano state elaborate in età classica dagli antichi maestri come Ulpiano. Glossatori e Commentatori medioevali rielaborarono i concetti politico-giuridici del diritto romano-giustinianeo alla luce della spiritualità e dell’idealità personalista, comunitaria ed universalistica della Fede cristiana. Dimodoché le stesse figure giuridiche romanistiche assunsero un senso esegetico più incline all’equilibrio con il comunitarismo tipico del medioevo.
La concezione medioevale del “diritto comune” era fondata sull’equilibrio tra “iura propria”, i diritti dei singoli e delle comunità locali o corporative, e “ius universalis”, il complesso del diritto romano e canonico valido “in universo mundo”. Erano, in tal modo, garantite le concrete “libertates” cittadine, comunitarie, associative, professionali. La moderna ed individualistica “Liberté” astratta, quella del trinomio rivoluzionario, era del tutto sconosciuta nel medioevo. Come ha spiegato Jacques Le Goff, in età medioevale, l’economia era avvolta in una fitta rete di vincoli corporativi e comunitari, caritativi ed associativi, per cui parlare, per quell’epoca, di libero mercato è anacronistico. Sarebbe, in altri termini, un falso storico. Maestri di tale falsificazione della storia sono tutti coloro che si sforzano di dimostrare come risalente all’età medioevale l’elaborazione, se non di una teoria integrale dell’economia di mercato, perlomeno dei suoi princìpi basilari. Il “libero mercato”, infatti, ha bisogno di razionalità uniformante. Cosa che solo l’imperio della legge impersonale e del contratto, quindi dello “statalismo” e dell’“individualismo” non dunque della consuetudine e del comunitarismo, può assicurare. Non a caso il libero mercato nasce, gradualmente, proprio mentre i vincoli comunitari vengono distrutti dagli emergenti Stati nazionali egemonizzati dalle borghesie pre-moderne. Questo il motivo per il quale Karl Marx, perfetto figlio del razionalismo moderno,  ne “Il Manifesto” del 1848, esaltava il ruolo della borghesia che distruggeva i “variopinti legami feudali” e raffreddava le “esaltazioni mistiche e religiose” per imporre a tutto il mondo “lo spietato pagamento in contanti” ed il “nudo calcolo economico”.
Quello cha ha portato alla morte dello Stato moderno è stato un lungo processo durato almeno cinque secoli. All’inizio anche lo Stato moderno ha preteso di conservare una propria sacralità artificiale sebbene si trattasse ormai, per via della pretesa di disconoscere le superiori istanze universalistiche della Cristianità, di una sacralità sempre più tendenzialmente immanente. Ecco perché lo Stato moderno, con il suo accentramento amministrativo, appare immediatamente come una macchina, un meccanismo, e non più come una Comunità Politica Organica. Lo stesso monarca non è più, come in precedenza, il Luogotenente, ossia il Vicario, del Christus Rex ma diventa il primo “funzionario” della macchina statuale (“l’Etat c’est moi” diceva Luigi XIV, il Re Sole, in base ad una concezione copernicana ed esoterica della sovranità che voleva tutti i corpi del regno girare intorno al Re assoluto come i pianeti intorno al sole). Max Weber ha visto nello Stato moderno una “grande fabbrica” che si sviluppa in stretta unione con la rivoluzione protestante, il razionalismo filosofico, il contrattualismo sociale (anche quando esso si veste di “giusnaturalismo” non più cattolico, come in Locke, o non più neanche cristiano, come in Hobbes e nei filosofi illuministi, da Rousseau a Voltaire), il mercantilismo e/o la fisiocrazia economica, fino appunto alla Rivoluzione Industriale ed al liberismo.
Anche se, sin dall’inizio, ha posto le premesse della sua stessa odierna dissoluzione, lo Stato moderno, come si diceva, conservava una sorta di sacralità artificiale che si esprimeva nella sua posizione di “paterna” ed accettata egemonia sui sudditi, continuando fino alla fine del XVIII secolo a godere dell’aurea di sacralità che ancora circondava il Sovrano, e nell’accentramento del potere nella persona stessa del monarca non più vincolata ai patti tradizionali e consuetudinari in precedenza sussistenti tra il re ed i ceti, i corpi intermedi, le città del regno. Accentramento del potere che fu organizzato, l’esempio prussiano è un classico, su un’organizzazione di tipo gerarchicamente militare in senso moderno. Un apparente ritorno alla romanità che però, per la pretesa di rinunciare alla cristianità, era una epocale scimmiottatura della stessa romanità antica: quest’ultima, infatti, fu il precursore pagano della Cristianità (“Quella Roma onde Cristo è romano”, cantava Dante nei secoli medioevali) mentre la riedizione neopagana della romanità, umanistico-rinascimentale prima, puritano-americano ed illuministico-giacobina poi, è stata la pretesa storica di baipassare la Cristianità medievale “corruttrice” per riallacciare, con un volo pindarico ed ideologico, la Roma antica, o meglio il suo fantoccio mitico, alla Nuova Roma o Terza Roma (così Mazzini), opponendo a-storicamente la Roma pagana delle prische virtù civiche alla Roma cristiana ed oscurantista dei Papi.
La Pubblica Amministrazione nasce proprio dallo sviluppo di questo accentramento del potere nelle mani del monarca assoluto per la trasmissione ed esecuzione dei suoi ordini. Questo comportava da parte dei funzionari pubblici un senso altamente militare di fedeltà al Sovrano ed un’etica della responsabilità nell’amministrazione della cosa dello Stato, coincidente per lo più con il patrimonio del re, che rendeva, per i tempi e nonostante ogni resistenza comunitaria, meccanicisticamente efficiente l’amministrazione proprio perché gerarchicamente strutturata. Un’efficienza che qualificava persino l’amministrazione di realtà politiche plurinazionali e pluriconfessionali come l’Impero Asburgico, ultimo residuo del Sacro Romano Impero e, dunque, di quel “superiorem” che le monarchie nazionali assolute avevano disconosciuto.
Quando con la Rivoluzione Francese i sudditi diventano cittadini e la repubblica si sostituisce alla monarchia siamo già un passo avanti nel processo di desacralizzazione dell’apparato statuale ed amministrativo (2) e tuttavia quella sorte di sacralità spuria, che abbiamo visto caratterizzare le monarchie assolute, ha continuato a sussistere anche nella nuova forma repubblicana dello Stato come testimoniano slogans rivoluzionari del tipo “La Republique ou la mort”. Con l’illuminismo ed il giacobinismo la sacralità artificiale delle monarchie assolute si muta in messianismo rivoluzionario. Nasce qui la “religione della patria”, alla quale faranno seguito quelle della razza, della classe ed, oggi, del mercato. L’auto-incoronazione di Napoleone è il gesto epocale che meglio rappresenta questa sacralità immanente che con la modernità si impone nonostante tutte le sue dichiarazioni di “laicità”. Proprio per questo, e nonostante la Grande Rivoluzione, rimase tuttavia ancora in piedi il concetto dello Stato, e del Pubblico, come di qualcosa di “sacro” e di egemone sulla società civile. Questa idea, si badi, continuò ad agire sia, come è ovvio, nei sistemi autoritari ed in quelli totalitari in forma di “ideocrazia” (autoritarismo e totalitarismo non sono affatto la stessa cosa ed, in quanto a grado di avanzamento verso il moderno esito nichilistico del Politico, il secondo è più avanzato del primo) che nelle liberal-democrazie. In queste ultime la sacralità spuria si manifesta nella forma legalistica dell’“etica pubblica” o in quella della massonica “religione civile”: entrambe di radici luterane.
Pur con tutta l’equivoca sacralità che lo ha caratterizzato, tuttavia lo Stato moderno ha, a suo tempo, svolto una funzione storica essenziale ossia quella di comporre interclassisticamente il conflitto sociale, scatenato dal capitalismo e dalla rivoluzione industriale, che altrimenti avrebbe distrutto lo Stato stesso ed anche il mercato. Lo Stato sociale, prima della sua declinazione democratica e/o socialdemocratica, nacque a “destra” lungo un filone che comprende la denuncia reazionaria dei costi sociali della rivoluzione borghese (il “socialismo aristocratico” odiato da Marx), il movimento sociale cattolico ottocentesco (Opera dei Congressi, Giuseppe Toniolo, Leone XIII) ed i regimi autoritari di massa, come quelli fascisti o di socialismo nazionale, che, in quanto di massa, erano propensi ad una forte politica di modernizzazione e socializzazione dirigista. Lo Stato sociale è appunto la forma che lo Stato nazionale moderno ha assunto tra XIX e XX secolo per rispondere alla necessità di comporre il conflitto sociale. In tale forma lo Stato ha caratterizzato l’Europa post-bellica e, in misura minore ed in forme diverse, gli Stati Uniti fino agli anni ’80 del secolo scorso, quando la politica neoliberista di Margaret Thatcher in Inghilterra e quella di Ronald Reagan in America hanno dato una forte spinta al processo di globalizzazione dei mercati e quindi al superamento  dello Stato nazionale moderno che ha coinvolto anche lo Stato sociale accusato di ingenerare un insostenibile debito pubblico ed una spesa pubblica inefficiente.  Ma, senza che la spesa pubblica sia effettivamente diminuita, le politiche neoliberiste hanno ottenuto soltanto l’effetto di riaprire la più aspra conflittualità sociale tra gruppi, classi ed individui. Una conflittualità che fa della attuale compagine sociale qualcosa di analogo ad un corpo morto in putrefazione che si dissolve nella dis-organicità e nella polverizzazione ed alla quale oggi si cerca di porre rimedio, in nome della sussidiarietà orizzontale, con proposte di “welfare community” o “welfare society”, alternative al tramontato “Welfare State”, ma finora senza la stessa efficienza a suo tempo storicamente dimostrata dal vecchio Stato sociale. La putrefazione sociale è l’esito dell’individualismo che crede di poter legittimare i legami sociali riducendoli a meri reciproci contratti tra individui a tutela dell’egoismo utilitarista di ciascun contraente.
Con il passaggio dall’età moderna al postmoderno, storicamente realizzatosi nel corso del XX secolo con una forte accelerazione dal dopoguerra, ed in particolare dal 1968, per diventare palese tra la fine del secolo scorso e l’inizio del secolo presente, si è avuto contestualmente l’inasprirsi del processo di desacralizzazione del Politico con la tendenziale trasformazione dello Stato, inteso come apparato amministrativo, da organizzazione burocratica, ancora legata ai vecchi modelli gerarchici di tipo militare, ad organizzazione aziendale ispirata ai nuovi, postmoderni appunto, modelli del management: sicché parlare oggi di burocrazia diventa sempre più improprio in quanto, al contrario, gli apparati organizzativi della Pubblica Amministrazione stanno sempre più assumendo, secondo gli auspici già ottocenteschi di Saint Simon ripresi nel novecento da Thorstein Veblen, un carattere tecnocratico. Nel modello tecnocratico ciò che è prevalente non è più la legittimità o la legalità procedurale, sancite dal principio costituzionale, di matrice liberale classica, del “nulla potestas sine lege”, principio nel quale riecheggiava ancora quella sorta di “sacralità” artificiale che ha caratterizzato lo Stato moderno, ma, al contrario, il profitto che, calato nella Pubblica Amministrazione, è chiamato “rapporto costo/benefici”.
Per un’organizzazione pubblica adottare i criteri tipici di un’azienda è innaturale. Quanto più in Italia dove il processo di unificazione nazionale ha prodotto uno scollamento totale tra la cultura “illuminista” prevalente nei ceti dirigenti e la cultura del popolo italiano forgiatasi nel Cattolicesimo, con la conseguenza – salvo la breve parentesi, però autoritaria, del fascismo – che lo Stato unitario è nato sulla base di un sentimento di disprezzo anti-nazionale ed anti-popolare coltivato appunto dalle classi borghesi egemoni che realizzarono il Risorgimento di matrice massonica ossia l’unità nazionale realizzata contro l’identità religiosa cattolica del popolo. Lo scollamento tra cittadini ed istituzioni, che tutti oggi conosciamo, nasce da questo dramma storico: gli apparati pubblici dello Stato italiano, in qualche modo, si portano ancora dietro quella stessa diffidenza verso il popolo amministrato che mostrò sin dall’origine lo Stato unitario liberalmassonico, governato da affaristi che dopo aver fatto l’Italia – diceva persino un insospettabile di reazionarismo come Gramsci – l’hanno divorata. Uno Stato unitario che si sentiva, a torto o a ragione, minacciato dalle masse ancora sottomesse al “clericalismo” o avviate verso il “socialismo”.
Qui ci sia ora consentito notare che la trasformazione dello Stato in azienda segna il definitivo esito nichilista del moderno processo di desacralizzazione. Al culmine di questo processo di desacralizzazione sfociato nella liquefazione postmoderna, è dato infatti registrare che, dissolto il legame tra Sacro e Politico, alla “morte di Dio” è seguita a ruota la morte della politicità naturale dell’uomo e, dato che l’uomo è “creatura sociale”, anche della Comunità Politica nella sua forma statuale moderna.

Ne è conseguita la riduzione, mortificante, della Politica dapprima a pura amministrazione e poi a gestione meramente clientelare di affari: non che in precedenza non vi fosse anche l’aspetto della amministrazione degli affari correnti e straordinari della Res Pubblica, ed anche un certo tasso inevitabile di corruzione, ma la Politica non era questo o perlomeno non era solo questo, essendo essa, un tempo, innanzitutto progettualità (“il chiamare genti diverse a fare qualcosa insieme” secondo la definizione di Ortega y Gasset) e, prima ancora, opera di modellazione, per quanto le deboli forze umane lo consentissero, della legge civile sulla legge di natura e, quindi, in ultima istanza e per mediazione di questa, alla Legge di Dio (3). “Per Me reges regnant” era inciso, non a caso, sulla corona del Sacro Romano Impero, e si trattava della trascrizione delle parole della Sapienza, ossia del Verbo di Dio, tratte da un passo biblico attribuito a re Salomone (Prov. 8, 15).
Ma se un tempo ad una forma storica della Comunità politica ne succedeva un’altra, oggi allo Stato moderno non sembra subentrare alcuna forma di nuova associazione politica. Infatti la Politica, nel senso alto e nobile del termine, è ormai chiaramente defunta ed al suo posto è subentrato il potere di anonimi tecnocrati nonché una egemonica bancocrazia transnazionale che, mediante la spoliazione centralbancaria del monopolio di emissione e controllo della moneta e l’abbandono dell’approvvigionamento finanziario degli Stati alla mercé dei “mercati”, ha letteralmente castrato la sovranità nazionale per favorire la speculazione finanziaria globale. I politici oggi sono i camerieri dei banchieri e gli esecutori delle ricette, impolitiche, dei tecnocrati. La sostituzione alla Politica dei poteri anonimi non è avvenuta alla luce del sole ma surrettiziamente ossia mantenendo apparenti forme democratiche nella gestione della cosa pubblica e tuttavia svuotando i parlamenti di effettivi poteri decisionali. Non è un caso che sempre più spesso si parla di “demo-tecnocrazia”, nel senso di un governo nel quale la volontà popolare è guidata ed indirizzata, naturalmente per il suo “bene”, dalla “saggezza” di una Oligarchia – sì: questa è la vera Casta! – di tecnocrati non eletti da nessuno ma cooptati da lobby transnazionali. Insomma, si tratta della democrazia sotto tutela a dimostrazione che proprio a questo è servita, alla fin dei conti, la Rivoluzione Francese: togliere il potere ai re per passarlo nelle mani della tecnocrazia bancocratica apolide lasciando al popolo l’illusione di essere diventato esso il sovrano. Ecco perché non è più possibile parlare ancora di “politica” ma solo, tutt’al più, di apparati di partito, tenendo però conto che, come ulteriore effetto della desacralizzazione del Politico, non esiste più il vecchio modello del partito ideologico di massa ma che anche i partiti sono diventati a modo loro delle “aziende” come, del resto, tutta la lotta tra i partiti un agone pressoché esclusivamente mediatico.
Di uno Stato ancora dotato di una sacralità artificiale, come quella sopra descritta, possiamo storicamente parlare soltanto fino agli anni ’30-60 del XX secolo, quando persisteva ancora in qualche modo l’idea che il compito principale dello Stato fosse garantire il bene comune e non quello di una fazione contro l’altra.
Nonostante ogni speranza, nutrita da Pio XI, e nonostante ogni plausibile ed effettiva possibilità storica del momento, di “battezzare” il regime trasformandolo secondo i principi del corporativismo e del sindacalismo cattolico, quello “corporativista” del fascismo era uno Stato etico hegeliano storicisticamente votato alla futura coincidenza immanente con il substrato produttivo nazionale auspicata da corporativisti “comunisti” come Ugo Spirito (l’ultimo Giovanni Gentile, non a caso, era sospeso tra il richiamo, fortemente sentito, al riavvicinamento, se non alla conversione, alla fede cattolica e la fascinosa tentazione che su di lui ancora esercitava la prospettiva dell’eticismo immanentista del corporativismo a tendenza comunista, che egli considerava l’inevitabile esito dello Stato etico ed ad attendere le more dello sviluppo del quale invitava i suoi allievi corporativisti di sinistra e persino gli avversari comunisti). Eppure anche lo Stato etico di matrice hegeliana rivendicava per sé una sacralità artificiale, spuria, ed accampava una propria “trascendenza” rispetto alla società civile. Si trattava senza dubbio di una pretesa senza effettivo e duraturo fondamento, quindi assolutamente temporanea e circoscrivibile a quella fase della dinamica secolarizzatrice che Augusto Del Noce chiama, appunto, “sacrale” per distinguerla da quella successiva ovvero “profana” caratterizzata dal disincanto del pensiero forte.
Tuttavia, in quella fase benché temporanea di apparente ed artificiale “sacralità”, la scelta dei regimi autoritari di massa, come quello fascista italiano, di subordinare il partito unico allo Stato, e non il contrario, è indicativa del persistere, all’epoca, di una etica pubblica che travalicava lo stesso fondamento ideocratico del regime. Infatti, pur tenuti alla formalità del giuramento di fedeltà al regime e del tesseramento al partito, i funzionari pubblici rimanevano, in una qualche misura, autonomi dall’ideologia continuando ad essere reclutati mediante pubblici concorsi ed a far carriera per esperienza e professionalità acquisita. Cosa questa che l’ala più intransigente del fascismo sempre rimproverò a Mussolini accusandolo di aver in tal modo castrato le potenzialità rivoluzionarie del regime avendone affidato lo sviluppo non a commissari politici ma alla vecchia burocrazia a-fascista. Gli storici ben sanno che, infatti, a differenza della Germania nazista e della Russia comunista, nell’Italia fascista il partito era subordinato allo Stato (il federale era subordinato al prefetto di nomina e carriera statale), cosa che, appunto, assicurava, per quanto la situazione di un regime autoritario di massa lo consentisse, una certa indipendenza degli apparati statali dalla faziosità che inevitabilmente accompagna l’ideologia, non esclusa, nell’Italia del tempo, quella dei fascisti più radicali (4).
Se l’immanenza assoluta tra Stato e società è ciò che, per i politologi, caratterizza, a differenza dell’autoritarismo di massa, il totalitarismo, d’altro canto è soltanto una mitizzazione la comune convinzione che esso sia stato in grado di realizzare una organizzazione perfetta. Questo era ciò a cui esso aspirava ma, per eterogenesi dei fini, in realtà ha prodotto soltanto una forma di “caos organizzato”. Chi studiasse il funzionamento degli apparati nazista e sovietico scoprirebbe, con sua grande meraviglia, una sordida lotta di potere tra gruppi rivali per accrescere la propria sfera di influenza agli occhi del Capo. Una concorrenza che sconvolse, per l’accavallarsi delle competenze e dei centri decisionali, nella contraddittorietà delle direttive erogate, la vita normale dello Stato, fagocitato dal partito unico.
Una situazione non dissimile, tuttavia, è quella delle democrazie pluripartitiche e di mercato: anche qui l’illusione che la concorrenza sia sempre benefica e, quindi, il caos organizzato. La differenza sta nel fatto che nelle democrazie i Capi possono essere sostituiti. Una differenza non di poco conto ma che nulla toglie al volto “oscuro” del potere quando esso rimane chiuso ad istanze superiori.
Generalmente si ritiene che Marx fosse statalista. Nulla di più errato: per Marx lo Stato, nella società comunista compiuta, doveva scomparire per lasciare il posto all’auto-organizzazione spontanea della società (“ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni”). I liberali, fedeli all’idea della spontaneità sociale garantita dalla “mano invisibile”, sono costretti, se intellettualmente onesti, a riconoscere, inevitabilmente, in questa prospettiva marxiana la propria medesima filosofia sociale, anche al di là del fatto, filosoficamente del tutto secondario, che per Marx l’obiettivo era raggiungibile solo con l’abolizione della proprietà privata. Non a caso i cosiddetti “anarcoliberisti” americani, che rappresentano la punta più avanzata del liberalismo e sognano le “privatopie”, si considerano marxiani.
Del resto anche nella prassi liberale la proprietà non è adeguatamente tutelata. Il capitalismo si è sviluppato grazie allo schema della società anonima nella quale la proprietà è sostanzialmente abolita perché essa non appartiene agli azionisti. Il titolo azionario, infatti, è solo un titolo di credito, non di proprietà, per mezzo del quale gli azionisti possono rivendicare verso la società anonima un diritto al dividendo sociale degli utili. Ma la proprietà del capitale, a differenza di quanto avviene nel caso delle società di persone nelle quali essa è in comproprietà pro quota tra i soci, è attribuita alla “persona giuridica” ossia a quella fictio iuris, centro impersonale ed astratto di imputazione di diritti e di poteri, che Giacinto Auriti chiamava “società strumentalizzante”, dietro la quale si nascondono le persone fisiche degli amministratori. Secondo questo stesso schema agiva lo Stato comunista, proprietario effettivo del capitale nazionale che però era gestito e controllato, benché in nome del popolo, dalla nomenclatura del Partito, l’oligarchia privilegiata del sistema totalitario. Ma, con perfetta analogia, lo schema della finzione della personificazione giuridica è proprio anche dello Stato costituzionale liberale. Dietro l’apparente forma procedurale liberale e democratica agiscono in realtà lobby, consorterie di loggia o di partito o tecnocrazie apolidi  vere detentrici del potere. Ecco perché, a modo suo, ha ragione Francesco Giavazzi quando afferma che il liberismo è di sinistra. Solo che essendo figlio della stessa utopia solipsista marxiana, anche il liberismo è puntualmente destinato all’eterogenesi dei fini, come i fatti hanno e stanno dimostrando. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Dagli anni ’60-’70 del secolo scorso è, dunque, iniziata la fase acuta della desacralizzazione dello Stato che è coincisa con una progressiva destatualizzazione. Non può negarsi, sotto un profilo storico, che questa fase acuta della depoliticizzazione dello Stato, che ha le sue lontane radici nella sua progressiva desacralizzazione, ha avuto inizio nel secolo scorso proprio mentre esso diventava anche, necessario, Stato sociale. L’ipertrofia statuale, inevitabile per l’accumularsi delle funzioni necessarie alla composizione del conflitto sociale cui lo Stato moderno fu chiamato a causa delle deficienze sociali dell’economia capitalista, aumentò notevolmente dagli anni settanta in poi. Ma in realtà questa ipertrofia dello Stato era nient’altro che il segno dell’incipiente depoliticizzazione la quale, infatti, dagli anni ’80, con la rivoluzione neoconservatrice, si manifestò apertamente. L’assunzione da parte dello Stato di necessarie funzioni sociali ne ha, infatti, provocato l’ulteriore depoliticizzazione in favore di un puro Stato-amministrativo, al quale ben presto è stato richiesto di uniformarsi a modelli post-moderni di efficienza aziendale nell’erogazione dei servizi pubblici o addirittura di privatizzarli, lasciando sempre più spazio al mercato. In un certo senso allo Stato si è chiesto di auto-liquefarsi nel mercato. Incapace, per via del suo “peccato” d’origine consistente nel rifiuto di ogni legittimazione sacrale, di resistere a tale richiesta, perché in fondo essa è conforme allo stesso statuto filosofico immanentista che lo ha generato, allo Stato moderno sembra non resti altro che liquefarsi come il metaforico cubetto di ghiaccio della “modernità solida”.  

Luigi Copertino



NOTE
1)      Cfr. Franco Cardini – Sergio Valzania “Le radici perdute dell’Europa – da Carlo V ai conflitti mondiali”, Mondadori, Milano, 2006.
2)      Un grande filosofo giurista come Carl Schmitt lamentava proprio questa deriva desacralizzante dello Stato moderno alla lunga incapace di incarnare una vera sacralità come la Chiesa cattolica nella Persona di Cristo. Cfr. C. Schmitt “Cattolicesimo romano e forma politica – la visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica”, Giuffré editore, Milano, 1986.
3)      E’ la mediazione della legge naturale tra la Legge di Dio e la legge umana che fa la differenza tra la teologia cattolica del Politico, da un lato, e le ricorrenti tentazioni teocratiche ed i moderni fondamentalismi, dall’altro: lo Stato è di natura e non è pertanto ammissibile nessuna teocrazia o clericocrazia. Come anche nessun laicismo.

4)      Lo Stato corporativo era fondato su un ordinamento sindacale gius-pubblicista ma vietava, proprio per assicurare l’indipendenza da indebite interferenze, agli impiegati pubblici, che “erano” e dovevano rimanere lo Stato, l’iscrizione ai sindacati, benché questi, quali enti pubblici, fossero inquadrati nella stessa organizzazione amministrativa statuale. Una testimonianza dell’indipendenza degli apparati statuali dall’ideologia come dagli interessi privati, durante l’esperienza dello Stato corporativo, è riportata nel libro-intervista a Francesco Grossi, un sindacalista fascista, che faceva parte dell’entourage di Italo Balbo e di Nello Quilici (il padre del noto documentarista Folco Quilici) all’epoca direttore del Corriere Padano. Racconta il Grossi che, nel giugno 1936, a Palazzo Wedekind, sede del Ministero delle Corporazioni, durante una seduta della Corporazione Cerealicola, presieduta (cosa del tutto rara) da Mussolini in persona, il rappresentante degli industriali panificatori perorava con veemenza l’aumento non inferiore a 20 centesimi di lire del prezzo del pane, motivandone la necessità con la scusa degli aumentati costi di produzione. Il Grossi, rappresentante della parte sindacale fascista, invece si opponeva sostenendo che con un tale aumento gli industriali panificatori avrebbero fatto pagare ai consumatori ed ai lavoratori la crisi del relativo settore ben oltre il legittimo profitto spettante al capitale. Mussolini chiese informazioni e dati ai funzionari del Ministero delle Corporazioni che, sebbene - come si è detto - avessero giurato come tutti i dipendenti pubblici fedeltà al regime, non dipendevano dal Partito fascista né dalla Confindustria o dai Sindacati fascisti, ma erano stati assunti sulla base di procedure concorsuali ed immessi in carriere avanzare nelle quali dipendeva soprattutto dall’esperienza che affina le capacità ed il patrimonio professionale. Orbene, quegli onesti funzionari ministeriali, dotati di forte etica dello Stato, dimostrarono a Mussolini, dati statistici alla mano, che la richiesta degli industriali panificatori era effettivamente esorbitante l’intervenuta diminuzione di profitti, dovuta agli aumentati costi di produzione, e che quella richiesta, se accolta, avrebbe inciso in misura insostenibile su consumatori e lavoratori. Mussolini decise per un aumento del prezzo del pane di soli 5 centesimi. Ma se la nomina e la carriera di quei funzionari fosse dipesa dalle influenze del Partito o della Confindustria o dei Sindacati avrebbero essi messo Mussolini in condizione di una decisione così equilibrata? C’è da che riflettere per Matteo Renzi che, invece, con le sue riforme, in gestazione avanzata, vuole legare i dirigenti pubblici, come i docenti delle scuole italiane, a valutazioni che rischiano di essere mosse da influenze partitiche, minandone l’autonomia con la minaccia del licenziamento. Per la testimonianza storica di cui sopra si legga di Francesco Grossi “Battaglie sindacali – intervista sul fascismo rivoluzione sociale incompiuta” a cura di Massimo Greco, ISC, Roma, 1988, pp. 47-48.

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