lunedì 25 maggio 2015

IL MIRAGGIO GLOBALE E IL DESTINO DELL’OCCIDENTE (di Costantino Marco)

La immigrazione dall’Africa di migliaia di profughi di fame e di guerra occupa le cronache quotidiane politiche e dei giornali per il suo carattere eccezionale in senso quantitativo e per le modalità rocambolesche della sua effettuazione. I più solerti chiacchieroni ripetono che si tratti di una nemesi del colonialismo europeo che avrebbe devastato il Continente nero in illo tempore, sfruttando da allora le risorse locali a vantaggio dei popoli occidentali.
A parte che la logica dello sfruttamento sistematico delle risorse umane e naturali da parte della metodica capitalistica non si applica in esclusiva o preferenzialmente a nessun territorio e popolo della terra, ma agli stessi territori e popoli che l’hanno adottato come cultura dominante e stile di vita, vi è da dire, a proposito dell’Africa, che è stato il suo abbandono a se stessa la colpa storica maggiore dell’Occidente, e non già il suo controllo ragionevole. 
Per “controllo ragionevole” si intende quella influenza politico-culturale che l’Occidente sin dai suoi albori filosofici ha inteso costituire come cifra del suo proprio télos originario, consistente “nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica”, intesa come una condizione non “casuale in mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente diverse”, ma in quanto il processo stesso di quella “entelechia che è propria dell’umanità come tale” e che per prima si rivelò nell’umanità greca. Sulla base di questo presupposto metafisico universalistico che fonda l’antropologia razionalistica occidentale, “se l’uomo è un essere razionale, lo è soltanto se tutta la sua umanità è un’umanità razionale”, per cui la filosofia e la scienza occidentali sarebbero in tal senso “il movimento storico della rivelazione della ragione universale, innata come tale nell’umanità”.
Queste radicali parole dell’ebreo tedesco Husserl, maestro di Heidegger e una delle menti più brillanti del Novecento, mettono a fuoco già intorno agli anni Venti del secolo una questione che rimane decisiva per le sorti non soltanto dell’Europa ma di quelle regioni del mondo che ancora vedono nel Vecchio continente il luogo di approdo delle loro precarie condizioni di esistenza in quanto forma di civiltà superiore. Un po’ come accadde durate la Guerra fredda, quando la tendenza a espatriare era sempre nel senso da Est verso Ovest, riconoscendo all’Occidente uno stile di vita superiore a quello comunistico.
Ma di questa sua supposta superiorità storica, i popoli occidentali hanno ancora consapevolezza, oppure appartengono ormai a quella umanità  non più “radicata in un terreno” culturale e al contrario già “franata in se stessa”? La questione è ben più rilevate di ogni questione geo-politica incentrata sulla premessa puramente ideologica che il senso presente della realtà sia anche l’unico senso storico possibilmente immaginabile e perseguibile, e investe i destini stessi dei popoli cosiddetti “in via di sviluppo”. 
Infatti, se la colonizzazione europea era moralmente giustificata dall’identità metafisica dell’Occidente razionalista, la de-colonizzazione è stata il risultato contraddittorio dello spostamento del baricentro politico occidentale dall’Europa agli Stati Uniti che ha semplicemente sostituito questi agli Stati europei nel controllo mondiale. Ma con una differenza fondamentale: che quella americana è una forma di civiltà che nel complesso è tecnologicamente più avanzata rispetto a quella europea tra le due Guerre, ma culturalmente più arretrata, e cioè meno evoluta storicamente e non in grado di elaborare valori originali e in grado di soppiantare o comprendere quelli di maggiore stratificazione spirituale, in quanto la sua Weltanschauung è basata su fondamenti illuministici che hanno potuto far presa in Europa dopo la seconda Guerra mondiale perché rivolti alle coscienze europee intellettualmente più elementari e meno raffinate, quali quelle delle masse, già portate in auge dalla nazionalizzazione fascista ma di prima o molto recente alfabetizzazione e dunque pressoché del tutto ignare della complessità problematica della questione culturalmente cruciale “se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta o se non sia un mero tipo antropologico empirico come la Cina o l’India; e inoltre, se lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un non-senso storico”.
Questo problema sollevato da Husserl è stato rimosso in Europa dopo la seconda Guerra mondiale per una sorta di complesso di colpa, e risolto in senso sommariamente positivo da coloro che, custodi simbolici dei suoi valori umanitari in nome dei quali hanno sconfitto la minaccia fascista al loro modello nazionale di vita, si sono sentiti eredi della civiltà universale europea, e anzi i nuovi colonizzatori imperiali del mondo.
Le masse europee, devastate dalle guerre mondiali e quindi sedotte dal benessere economico americano che era stato da sempre il miraggio plebeo dell’emigrazione trans-oceanica, hanno adottato repentinamente istituti giuridico-politici democratici e modelli culturali individualistico-capitalistici nella intuitiva consapevolezza che sarebbero stati gli unici storicamente alla portata della loro ascesa socio-economica, escludendo sistematicamente l’influenza socio-politica delle antiche classi dirigenti europee di origine medievale e che erano state ancora il modello spirituale dei popoli europei fino alla prima metà del ‘900.
La strategia americana di aggirare l’ostacolo delle culture locali tradizionalmente dominanti, evitando di confrontarsi con la coscienza elitaria europea per rivolgersi direttamente al popolo elettore e consumatore, è tanto apparentemente politicamente efficace quanto storicamente ingenua, perché fondata sul presupposto antropologico di cui parlava Husserl, che cioè nel destino razionalistico sia inscritto il destino dell’umanità, ma interpretandolo in una chiave di lettura tecnocratica che filosoficamente è disastrosamente sbagliata e che costituisce il peccato originale della civiltà europea di origine greca. Nel senso che la ragione filosofica che sostiene i destini dell’umanità non è necessariamente la ragione tecnica partorita dalla logica dialettica platonica, la quale, procedendo per esclusione degli opposti, fornisce il modello teoretico della ragione politica, che concepisce i rapporti umani in termini di lotta e neutralizzazione delle opposizioni intese come l’altro e il diverso non razionalmente assimilabili.
Questa logica di assimilazione o eliminazione del diverso dialettico, universalizzata come criterio proprio della scienza politica e adottata come principio direttivo della ragion di Stato americana, pretende il controllo globale della storia umana, sul presupposto che a detenerne il modello metafisico sia la civiltà tecnologica  occidentale, la quale, in realtà, possiede soltanto una astratta immagine ideologica dell’homo faber intento a plasmare, con capitali e armamenti, il mondo caotico secondo le sue forme razionali, credute superstiziosamente le uniche “vere” e rispetto alle quali ogni altra è ritenuta sbagliata. E’ chiaro che tale pregiudizio fideistico neo-illuministico, per la sua astrattezza ideologica e pericolosità politica, ingeneri da parte dei popoli minacciati una reazione opposta di carattere religioso non meno fideistico, in grado di  fronteggiare con il suo dogmatismo fanatico l’opposto fanatismo e dogmatismo razionalistico.  
In questo drammatico scenario epocale, il ruolo attualmente eclissato dell’Europa può riavere una sua centralità proprio attraverso un profondo ripensamento della tradizione culturale che ha ingenerato la superstizione americana, a opera di una filosofia non socializzata a strumento ideologico del Potere, e quindi potenzialmente liberatoria dal mito contemporaneo del capitalismo provvidenziale.
Non ci sarebbe da cercare molto per trovare una tradizione di pensiero europea universalmente inclusiva e carismatica, opposta a quella esclusiva e formalistica oggi dominante in Occidente, ma basterebbe rivolgersi a quella cristiana, che sin dalle origini ha rappresentato la “follia” di una fede “assurda” per la ragione dialettica, ossia che l’uomo non sia solo ciò che mangia, cioè un “animale razionale”, ma è una “singolarità spirituale” in grado di pensare la verità dell’Essere. Nondimeno, per una critica radicale alla cultura razionalistica, occorrerebbe partire dalla considerazione che la stessa tradizione cristiana, per i suoi sincretismi filosofici greci, sia all’origine di tutti i fenomeni culturali della cristianità che, dalla forma imperiale romanistica a quella umanistica e infine alla attuale liberal-capitalistica, hanno segnato i processi ideali della civiltà occidentale, di cui il cristianesimo storico è l’antitesi morale ma non intellettuale.
Per questa fondamentale ragione, il pensiero cristiano non può inseguire il miraggio globale dell’ideologia razionalistica, che a suo tempo ha pure ispirato, concependo la propria cattolicità come un controllo religioso delle masse democratiche concorrente a quello capitalistico, diventando il mero correttivo etico al fatale corso storico del capitalismo globale, che così verrebbe confermato come provvidenziale. Sarebbe errore strategico e teologico ben più tragico della politica concordataria verso i regimi totalitari novecenteschi e della connivenza rassegnata al comunismo, poiché, se nel caso della politica delle democrazie totalitarie europee il mondo non ancora ideologicamente e tecnologicamente globalizzato poteva ancora contare su forti resistenze politico-culturali, nel caso delle odierne democrazie capitalistiche non ci sarebbero più alternative storiche alla totale socializzazione delle coscienze in senso tecnocratico. La forza liberatoria del cristianesimo deve invece manifestarsi nel perseguire un obiettivo di fede squisitamente impolitico, che è quello di riaffermare la centralità del kairòs evangelico quale modello assiologico essenziale della storia umana alternativo a quello empirico capitalistico; una Storia intesa come processo spirituale dell’Uomo universale, e non etico-politico dei popoli particolari. L’unità del genere umano, infatti, potrà conseguirsi solo in senso spirituale e trascendente le storiche particolarità empiriche, e giammai in senso etico-politico, esclusivo di quelle particolarità culturali e storiche caratteristiche dell’esperienza esistenziale dell’umanità.
Per giungere a questo obiettivo essenziale, il cristianesimo spiritualistico deve ritrovare la sua unità carismatica, e quindi superare in nome della fede comune unica e unitaria in Cristo Redentore le differenze storiche tra le diverse sue confessioni religiose. Ed è dunque imprescindibile stabilire all’uopo un rapporto coraggiosamente fraterno con la tradizione cristiana orientale, non meno martirizzata di quella occidentale dalle conseguenze storico-politiche degli errori di cultura teologico-religiosi. Solo assumendo su di sé la croce della espiazione culturale, il Cristianesimo potrà ritrovare quella centralità spirituale universale che nessuna delle ideologie storiche potrà mai avere, ma che nel tentativo di raggiungerlo esse potrebbero ancora fare tanto male all’umanità.
Nella nuova prospettiva cristocratica, le antiche diatribe teologiche tra le diverse confessioni storiche cadrebbero per auto-consunzione congiuntamente alle ideologie politiche di cui sono state il riflesso religioso temporale, la coscienza morale dell’errore culturale. Alla luce del nuovo corso spirituale, la politica europea del “controllo ragionevole” del mondo cambierebbe radicalmente di prospettiva, assumendo il compito non già di controllare le sorti politiche dei popoli locali in direzione della funzionalità del loro apporto economico al sistema di mercato globalizzato, ma bensì di includere l’esperienza delle culture particolari nella Storia eterna dell’Uomo, quali sue possibili espressioni culturali entro la sua dissimile ma unitaria vicenda universale.
Per sconfiggere ogni atteggiamento cinico rassegnato al nichilismo storico, basta pensare a come le vicende della storia etico-politica ripetano incessantemente gli stessi processi fallimentari per l’uomo, e a come il maggiore benessere materiale conseguito dagli strumenti tecnologici non restringa le aree di sofferenza, di pericolo e di insoddisfazione morale, ma le allarghi esponenzialmente, differendone la soluzione a un futuro che non arriva mai. E questo perché gli strumenti sempre più affinati perseguono fini con essi inconseguibili, perché di natura spirituale e non materiale. Debellare la fame, la povertà, le malattie equivale a sconfiggere la stessa finitezza della condizione umana, che non può essere negata come il negativo dialettico del bene della vita, ma solo trascesa da considerazioni dell’esperienza umana non fondate su tecniche in grado di allungare o estendere la vita biologica dell’uomo ideale, mondato di tutte le imperfezioni da modello fisiologico, ma a rappresentarla per come essa si chiarisce esistenzialmente. Il fine giustifica il mezzo a esso omogeneo, altrimenti sono reciprocamente incongrui. La qualità della vita non si misura con le cartelle merceologiche o cliniche, ma sulla base della sicurezza ontologica nei fondamenti spirituali della vita. Siamo certi che lo sradicamento culturale operato dai processi dell’ideologia capitalistica aiutino i popoli a condurre un’esistenza migliore? Se così fosse, perché il dramma stesso dell’Europa cristiana? Ma come poteva la fede cristiana affermarsi con gli strumenti della politica senza trasformarsi in religione ideologica? E come potrebbe liberare l’umanità dai limiti naturali una ideologia come quella capitalistica se fa dell’uomo lo strumento della produzione e del consumo che tengono in vita il sistema? 
Si è creduto per tempo che fosse stato il messianismo escatologico della religione il fomite della catastrofe antropologica del moderno. Oggi siamo passati dal servizio alla Storia al servizio al Mercato, ma l’uomo non è ancora mai al centro della esistenza storica. L’Europa, a poche generazioni dal disastro mondiale, riprende ad avere rigurgiti razzistici e xenofobi da cui pareva si fosse liberata avendo adottato ideologie e sistemi democratici. Ciò è intollerabile a una coscienza moralmente coltivata, ma anche comprensibile per chi sia stato allevato alle ideologie edonistiche del materialismo economicistico, che vede nell’uomo il consumatore o il concorrente potenziale, e dal politicismo della lotta partitica di massa, che insegna a scorgere nell’uomo il nemico anziché il convivente. Sono criteri perversi di concepire i rapporti umani, ma omologati dalle ideologie dominanti, accreditate a sua volta dalla tradizione culturale occidentale.
Le loro motivazioni teoriche non sono di dominio pubblico ma la logica che le sostiene si diffonde nelle masse e diventa mentalità corrente, dilagante e pervasiva come lo è l’istinto della specie non moralmente infrenato e corretto. Ma la scommessa della fede cristiana è di far emergere dal naufragio spirituale, operato dalla pedagogia dell’assuefazione all’innato gene egoista, la natura divina dell’uomo, la sua possibilità unica di concepirsi come coscienza del mondo e testimone del tempo. Solo all’interno di una siffatta antropologia è possibile vedere nell’esperienza esistenziale del Cristo la vicenda eterna di ogni uomo di ogni tempo, e perciò nella Sua storia quella stessa dell’umanità. Va da sé che l’umanità di ogni uomo non sia l’astratta umanità idoleggiata dal razionalismo moderno, che sotto sembianze di Popolo, Classe, Razza, Nazione o Religione ha immolato innumeri vittime umane.

Se la ragion di Stato sceglie Barabba, l’uomo di fede sceglie coraggiosamente Gesù. Dopo aver visto crollare Imperi e Stati che parevano eterni e preservarsi la sua fede, non ha neppure più bisogno di nascondersi pavidamente come Pietro alle folle.

Costantino Marco 

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