Qualcuno
dei nostri amici obiettivi storce
ancora il naso davanti a una cruda definizione della politica attuata dagli
organi dell'UE verso i singoli stati comunitari, in particolare, verso quelli
che hanno il debito pubblico più grande.
Gli obiettivi
capiscono che la Commissione europea e la Banca europea mettono sotto il
torchio di una presunta equità (il rispetto dei trattati) i paesi
economicamente più deboli e stanno rovinando anche gli altri imponendo
un'austerità fuori luogo, ma si rifiutano di vedere la malafede, il disegno
perverso. Balza davanti alla loro mente la parola dietrologia, cui non si prestano.
Credo che tale reazione si debba, almeno per
alcuni, al fastidio di doversi ricredere su posizioni assunte in passato, allorché
non sospettarono o non vollero subodorare complotti internazionali, a vantaggio
o a svantaggio dei capi di partito da essi preferiti.
Teoricamente non ci sarebbe niente da
eccepire sulle regole che Bruxelles e Francoforte intendono tutelare. I paesi
comunitari non devono far crescere il loro debito pubblico, perché danneggerebbero
la moneta comune e ciò sarebbe ingiusto verso i soci virtuosi.
A parte le eccessive svalutazioni delle
monete nazionali più deboli al momento della loro conversione in euro, ci fu senz'altro un errore nel
vincolare ad esso economie differenti, stati che avevano situazioni di finanza
pubblica disparate. Con questo errore, da un lato si è speculato, dall'altro
lato si è trasformata la moneta comune in una trappola, che rende difficile
abolire lo sbaglio tornando indietro alla propria moneta e sovranità monetaria,
cioè in una condizione di normalità. Per non parlare dell'inganno costituito
dalle leggi infami e moralmente disgregatrici che l'UE impone ai mal governati soci
dell'europarlamento, il quale del resto, per vari motivi, ha scarso peso di
potere legislativo rispetto alla Commissione. Sicché è realistico affermare che
decide e comanda l'asse Bruxelles-Francoforte su questioni della massima
importanza.
Prendendo l'Italia, si ricorderà che tra gli
anni '70 e '80 i buoni del tesoro erano in buona parte acquistati dai cittadini
italiani. I forti saggi di interesse creavano liquidità interna; consumi e
produzione camminavano abbastanza. Non che le banche fossero virtuose, ma restavano
piuttosto legate al patrio suolo. Oggi gli italiani sarebbero ancora in grado
di comprare il debito pubblico, viceversa esso è in balia della grande
speculazione. Ciò ha determinato il pagamento da parte dell'erario (che siano
tutti noi) di interessi esagerati: il famoso spread indica tassi cento volte superiori a quelli del prestito
pubblico tedesco, senza alcuna giustificazione economica (la nostra economia è
tuttora forte, sebbene si faccia di tutto per rovinarla, in ogni sede).
Non va dimenticata la speculazione sui nostri
titoli, quando fece salire lo spread a
livelli folli: essa ci costerà, per molto tempo ancora, un ingiustificato
esborso di miliardi.
Varie notizie attendibili ormai confermano la
facile supposizione: il fattaccio si compì con la complicità di governanti
stranieri, per far cadere Berlusconi, che cercava di difendere la nostra
economia.
Tutta storia assai nota; utile per venire
meglio al sodo.
La condizione della Grecia differisce
abbastanza dalla nostra. Certo le sue industrie non sono paragonabili alle
nostre; tuttavia i greci hanno una flotta mercantile tra le prime nel mondo, un
turismo prospero e un buon grado di sviluppo in ogni settore vitale.
Dal cambio dell'esecutivo, avvenuto in
seguito alle recenti elezioni, assistiamo agli sforzi del primo ministro e del
ministro delle finanze ellenici per ottenere proroghe ai pagamenti del prestito
nazionale, finanziamenti per rimediare ai vuoti di cassa e concessioni per
allentare la stretta dell'austerità.
Provvedimenti primari e indispensabili se si
vuole il ricupero d'una minima normalità, che assicuri la salute del consorzio
civile e lo scampo dal fallimento statale.
Tsipras e Varoufakis, cercando trattative più
onorevoli ed equanimi, si sono opposti alla Troika (Commissione europea + BCE +
Fondo monetario internazionale) che stringe la Grecia in una combinata morsa
delle condizioni per ricevere aiuti. Essi si sono ribellati all'imposizione di
governare secondo un dettato esterno e iniquo. Iniquo per lo stesso motivo per
cui noi lo stiamo subendo.
In
altri termini, fu sottoscritto una sorta di contratto leonino: moneta unica,
che richiederebbe un unico stato, o una confederazione di stati, invece
assegnata a nazioni aventi economie incomparabili e assetti sociali assai
indipendenti (i problemi dei singoli paesi, di fatto, non vengono risolti in
comune, con le risorse comuni), e conseguenti danni inflitti dalla
speculazione.
Giustizia vuole che il patto non sia valido,
almeno non del tutto, e che si debba poter retrocedere da esso senza subire uno
scapito eccessivo. La nazione greca, come altre europee, è ben poco
responsabile degli sbagli commessi dai suoi rappresentanti inetti o infedeli.
I membri della Troika dovrebbero onestamente
concedere una via di uscita, onorevole per tutti. Anzi, dovrebbero ammettere
che l'euro è stato un errore grossolano, d'oscuro avvenire; essi dovrebbero
badare a rimettere le cose in ordine.
Ma no! Ogni volta la musica è la stessa:
bisogna fare le riforme, bisogna tenere i conti in regola.
Nell'ultimo incontro tra la Merkel e Tsipras,
la signora ha ribadito le condizioni, che non dipendono neppure dalla Germania:
aumentare l'età pensionabile, aumentare l'Iva. Così, riferiscono stampa e
televisioni.
La condanna al ristagno è evidente. La prima
condizione significa disoccupati; la seconda deprime i consumi, la produzione,
l'occupazione.
Miopia? Attaccamento ossessivo al proprio
posto? Cocciutaggine di chi non vuol riconoscere di aver aderito a un progetto
errato? Dev'esserci di più, ossia la consapevolezza del misfatto che si sta
consumando.
Se avessero voluto l'osservanza dei patti e
il vantaggio europeo, avrebbero dovuto lasciar fallire la Grecia. Invece mostrano
di trattare, fanno sorrisi e danno pacche sulle spalle, adoprano il dialogo
ripetibile. Se la Grecia uscisse dall'euro o dall'Europa, l'uno e l'altra ne
sarebbero rafforzati. Né regge il timore che si creerebbe un pericoloso
precedente: esso potrebbe indurre all'imitazione soltanto popoli ben guidati o
troppo malconci. D'altra parte, è chiaro che la ripresa dei popoli di questo
continente passa per il ritorno all'indipendenza dello statu quo ante. Lo intendiamo bene noi profani di politiche
economiche delle alte e complesse sfere.
Inoltre, l'Unione non ha niente da guadagnare
dal mondialismo, ha da perdere con le immigrazioni incontrollate, con il
trasferimento delle industrie fuori dei suoi confini, con l'acquisto di grandi
manifatture effettuato da capitali stranieri, e non risulta che ponga argini a
queste perdite. In ogni caso, essa non salvaguarda le particolari realtà
sociali, se qui da noi le vediamo mortificate, ferite dai suddetti fenomeni di immigrazione,
di concorrenza e di accaparramento internazionale.
L'unica spiegazione del comportamento eurocratico
sta nella concordanza con l'intento di stabilire un generale statu quo di miseria e soggezione,
poiché dalla presente crisi non ci si riprende sottostando alle regole del
gioco.
Coi prestiti della BCE alle banche, con la
svalutazione dell'euro rispetto al dollaro, con il costo del petrolio
ribassato, con le belle nuove sulla ripresina in atto in Italia e altrove, i
responsabili ricalcano l'esecuzione di un programma d'assoggettamento delle
genti in un certo grado di miseria materiale e in un grado ben maggiore di
miseria morale, ché una crisi depauperante più profonda sarebbe suscettibile di
produrre rotture e ritorni al passato.
Non è immaginabile che gli incalliti
conduttori del'eurocrazia siano ignari di quello che stanno combinando ormai da
lungo tempo!
Piero
Nicola
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