CERRI V. (2015) La S. Sindone e le intuizioni mistiche di Maria Valtorta, con
supplemento di Ugo Bertolami, Isola del Liri, CEV (pubbl. la 1a
volta 1978 con imprimatur ecclesiastico)
Un’opera
che si occupa degli Scritti valtortiani in modo positivo e riceve l’imprimatur
ecclesiastico è forse un piccolo segno che qualcosa si muove in direzione di un
atteggiamento meno arcigno della gerarchia verso la Valtorta? Probabilmente no,
anche perché un singolo vescovo ben disposto non rappresenta una gerarchia sorda
e in tutt’altre faccende affacendata. L’imprimatur, poi, è vecchio, e da allora
nulla si è più mosso. Anzi, la posizione ufficiale sembra essere tuttora quella di “permettere”
ai fedeli di leggere la Valtorta purché non la ritengano opera ispirata, il che
equivale a dire che doveva essere una bugiarda o una pazza, dal momento che
lei, nel modo più reciso e solenne, afferma esattamente il contrario.
Neppure è servito che le fossero
favorevoli lo stesso papa Pio XII e autorevoli prelati come il grande e santo
cardinale Siri. Il 25 ottobre 1948 il Santo Padre aveva consigliato una più
sicura approvazione per salvaguardare l’opera da insidie future; era stato
interpellato il vescovo di Sora, Costantino Barneschi, Vicario apostolico dello
Swaziland, il quale aveva già concesso l’imprimatur ad un opuscoletto dal
titolo Parole di vita eterna che
presentava un breve stralcio dell’Opera. Non è vero quindi che agli Scritti
manchi del tutto l’imprimatur: una parte, sia pur piccola, lo ha ricevuto. Il
29 novembre, quando le rotative stavano per mettersi in moto, il Santo Uffizio
fece chiamare il Padre Procuratore Generale dell’Ordine dei Servi di Maria e
gli intimò di imporre a Padre Berti e Padre Migliorini di non occuparsi più
dell’opera se non volevano essere colpiti dai decreti del Santo Uffizio stesso
per aver abusivamente carpito l’approvazione di Monsignor Barneschi,
contrariamente alle norme del diritto canonico perché detto Monsignore non è il vescovo della casa editrice né
dell’autore “e soprattutto perché è il vescovo degli zulu”.
I nuovi farisei, fra l’altro,
confondendo gli swazi con gli zulu, avevano fatto qualcosa come confondere i
belgi con i tedeschi. L’invidia (perché sarebbe stata scelta una misera
donnàcola e non Io?) e l’orgoglio
(come si permette di dire che i suoi Scritti sarebbero dati per sostituire i
troppi pulpiti vuoti o male occupati?) davano fuoco alla persecuzione scatenata
dai gerarchi, dimentichi dei detti evangelici “chi vuole
diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra
voi sarà schiavo di tutti”
(Marco 10, 43-44) e “ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto
nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai
piccoli” (Matteo 11, 25).
Ed
ecco un esempio di sapienti ed intelligenti della gerarchia all’opera. Quando
venne proposto di datare la Sindone col metodo del radiocarbonio l’arcivescovo
di Torino Anastasio Ballestrero si affidò nel 1988 a tre laboratori di
paesi protestanti, massonici e ultralaicisti, a Oxford, Tucson e Ginevra, con i
risultati disastrosamente falsi ben documentati da Emanuela Marinelli &
Marco Fasol (Luce dal sepolcro,
Verone, Fede & Cultura, 2015). Prontamente venne la resa dell’arcivescovo
stesso che, contro ogni evidenza, definì la Sindone una semplice “icona”. La
teoria dell’icona, formulata in ambienti laicisti, è infatti assolutamente
screditata: il Telo non reca tracce di colori, è impresso su un solo lato
(mentre nei dipinti il colore penetra arrivando dall’altra parte), ha invece
macchie di sangue (precisamente del raro gruppo AB, che è frequente soltanto
nel Medio Oriente), le immagini vi si distinguono solo ad almeno tre metri di
distanza, e quale artista lavorerebbe ad una così assurda distanza dalla tela?
Nonostante
ciò, il danno è ormai fatto, perché i laicisti hanno comunque qualcosa a cui
attaccarsi. Sugli autori dell’“indagine” piovvero lodi sperticate e
finanziamenti di milioni di dollari da parte di ben noti circoli massonici.
Cominciarono ad apparire, specie in Gran Bretagna, libercoli schiamazzanti di
“mafia della Sindone” e di “divino imbroglio”. La scarsissima attendibilità che spesso accompagna le datazioni
al radiocarbonio (a un corno per bere di età vichinga è stata attribuita una
data nel futuro, all’inizio del terzo millennio; una chiocciola appena morta è
stata datata a cinquemila anni addietro), e il fatto che i risultati dei
“carbonisti” fossero in totale contrasto con tutti i risultati delle ricerche precedenti (inclusa la scoperta
delle impronte di monete dell’età di Ponzio Pilato e delle tracce della scritta
col nome, in greco, del condannato, “Gesù di Nazareth”, vedi Maria Grazia
Siliato, Sindone: mistero dell'impronta
di duemila anni fa, Casale Monferrato, Piemme, 1997) non venne neppure
preso in considerazione dai potenti mass media controllati dalla massoneria. Al
pomposo Museo della Scienza di Londra, un’intera vetrina dedicata alla
datazione al radiocarbonio porta come unico esempio dei “successi” di tale
tecnica, la datazione “medioevale” della Sindone.
Il Cerri
pubblicò i risultati della sua pluridecennale ricerca tre anni prima dello
scandalo del radiocarbonio e delle importanti ricerche successive, su cui danno
conto Marinelli e Fasol, citati sopra. Tuttavia lo studio del venerando
sacerdote, morto nel 2011 all’età di novantasette anni, Prelato d’Onore di Sua
Santità dal 1979, è tuttora di notevole interesse per le profonde osservazioni
che presenta e per essere l’unico studioso a mettere costantemente a confronto
la Sindone con gli Scritti valtortiani.
Sulla
venerabile reliquia la Valtorta scrive (Quaderni
del 1943, dettato del 22 luglio):
Dice Gesù: “Potete voi
dire che io non ho amato questa terra dove ho portato le reliquie della mia
vita e della mia morte: la casa di Nazaret dove venni concepito in un abbraccio
di luminoso ardore tra il Divino Spirito e la Vergine, e la Sindone dove il
sudore della mia morte ha impresso il segno del mio dolore, sofferto per
l’umanità?”
E più tardi ribadisce (Quaderni del 1943, dettato del 23
ottobre):
Dice Gesù: “O Italia,
Italia alla quale tanto ho dato e che mi hai dimenticato e hai dimenticato i
miei benefizi! E da quel Piemonte, dove è una testimonianza di Dio non
inferiore a quella del Tabernacolo mosaico – perché se in esso erano due tavole
scritte dal profeta di Dio, qui vi è la storia della mia Passione scritta con
inchiostro di Sangue divino sul lino che la pietà offerse ad avvolgere la mia
nudità di Immolato (…)”
Ne L’Evangelo
come mi è stato rivelato (609.12) la grande veggente sottolinea:
Il Volto ha già
l’aspetto che vediamo nelle fotografie della Sindone, col naso deviato e gonfio
da una parte (…)
Il
sanguinoso e divino messaggio della Sindone e il Divino Maestro che dettò le
Sue pagine sublimi a Maria Valtorta non possono non confermarsi a vicenda. Sono
entrambi documenti della Passione, Morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù
Cristo, e come tali a loro volta confermano in pieno il racconto dei Vangeli
canonici, i quali sono l’insostituibile pilastro della Verità cristiana e più
specialmente cattolica.
All’inizio
della Passione, nell’orto del Getsemani Nostro Signore soffrì in modo tanto
atroce per l’abbandono del Padre (conseguenza dell’essersi caricato di tutti i
nostri peccati, consacrandosi così alla Giustizia come anima vittima) da essere
colpito da ematoidrosi: un’intensa vasodilatazione dei capillari cutanei che si
rompono a contatto del cul di sacco delle ghiandole sudoripare, inondando la
pelle di sangue (dettato del 6 luglio 1944, corsivo nel testo):
Mi hai
chiesto: “Quante sono le agonie del Getsemani che mi dai?”
Oh!
tante! Non per piacere di tormentarti. Unicamente per bontà di Maestro e Sposo.
Non potrei su te, piccola sposa, abbattere tutto insieme il cumulo di
desolazione che mi accasciò quella sera e che nessuno intuì, che nessuno
comprese fuorché mia Madre e il mio Angelo. Ne morresti pazza. E allora ti dò
adesso un briciolo, domani un altro, di modo da farti gustare tutto il mio cibo
e di ottenere dal tuo soffrire il massimo di amore di compassione per il tuo
dolente Sposo e di redenzione per i tuoi fratelli. Ecco perché ti dò tante ore
di Getsemani. Uniscile e, come il mosaicista unendo le tessere piano piano vede
formarsi il quadro completo, tu, riunendo nel tuo pensiero il ricordo delle
diverse ore, vedrai l’Agonia vera del tuo Signore.
Rifletti
come ti amo. La prima volta ti ho dato soltanto la vista della mia smania
fisica. E tu, soltanto per vedermi col Volto stravolto, andare e venire, alzare
le braccia, torcermi le mani, piangere e abbattermi, ne hai avuta tanta pena
che per poco non mi moristi.
Ti
ho presentato quella tortura visibile più e più volte sinché l’hai conosciuta e
l’hai potuta sopportare. Poi, volta per volta, ti ho svelato le mie tristezze.
Le mie tristezze di uomo. Tutte le
passioni dell’uomo si sono drizzate come serpi irritate, fischiando i loro
diritti d’essere, ed Io le ho dovute
strozzare una per una per esser libero di salire il mio Calvario.
(…)
Ed
ero solo. Cioè: ero con Satana.
La
prima parte dell’orazione era stata penosa, ma ancora potevo sentire lo sguardo
di Dio e sperare nell’amore degli amici. La seconda fu più penosa perché Dio si
ritirava e gli amici dormivano. Riconfermavano il sibilo di Satana e la voce
della vita’. “Ti sacrifichi per nulla. Gli uomini non ti ameranno per il tuo
sacrificio. Gli uomini non comprendono” .
La
terza... la terza fu la demenza, fu la disperazione, fu l’agonia, fu la morte.
La morte dell’anima mia. Non è risorto soltanto il corpo mio. Anche la mia
anima ha dovuto risorgere. Poiché conobbe la Morte.
Non
vi paia eresia. Cosa è la morte dello spirito’? La separazione eterna da Dio. Ebbene: Io ero separato da Dio. Il
mio spirito era morto. È la vera ora di
eternità che Io concedo ai miei prediletti. Quella che tu, piccola sposa,
ti sei chiesta che fosse da quando ti hanno detto che tu hai sorte simile a
Veronica Giuliani, che al termine della esistenza conobbe questo strazio
superiore a tutti gli strazi sovrumani.
Noi
conosciamo la morte dello spirito, senza averla meritata, per comprendere
l’orrore della dannazione che è tormento dei peccatori impenitenti. La
conosciamo per ottenere di salvarli. Lo so. Il cuore si spezza. Lo so. La
ragione vacilla. So tutto, anima diletta. L’ho provato prima di te. È l’orrore
infernale. Siamo in balia del Demonio poiché siamo separati da Dio.
(…)
“Ho
risposto... Maria, ho risposto radunando le forze, bevendo pianto e sangue che
colavano dagli occhi e dai pori, ho risposto: ‘Non ho più madre. Non ho più
vita. Non ho più divinità. Non ho più missione. Nulla ho più. Fuorché fare la Volontà del Signore mio Dio. Va’ indietro, Satana! L’ho detto la
prima e la seconda volta. Lo ridico per la terza: “Padre, se è possibile passi
da Me questo calice. Ma però non la mia: la tua Volontà sia fatta’. Va’
indietro, Satana. Io son di Dio!’”
Maria,
ho risposto cosi... E il Cuore si è franto nello sforzo. Il sudore è divenuto
non più stille, ma rivoli di sangue. (…)
Tanto
sangue potrebbe aver bagnato anche la Sindone, ma poi sarebbe stato dilavato
dal sudore e assorbito dalla veste durante le successive fasi della Passione.
Nella
flagellazione hanno lasciato tracce solo quei colpi di flagrum che hanno prodotto un’escoriazione o una piaga contusa, per
cui probabilmente Gesù ricevette molti più colpi di quanto non ne risultino dal
sacro Telo, in cui comunque ne appaiono moltissimi. Gesù dovette essere legato
in posizione eretta come scrive la Valtorta. In posizione curva su una colonna
bassa, i carnefici non avrebbero potuto colpirlo sul davanti come risulta
chiaramente dalla Sindone.
Sulla
corona di spine si è molto discusso, ma dagli scarsi segni di spine impressi
sulla Sindone pare si trattasse di un semplice cordone spinoso ripiegato a
cerchio, non di una calotta né di una cuffia o di un fascio. La visione di
Maria Valtorta, in pieno accordo con la Sindone e con l’iconografia
tradizionale. Gesù portò la corona durante l’ascesa al Calvario: il braccio
verticale della croce premeva sulla corona di spine, causando rigagnoletti di
sangue nitidamente impressi sul Telo.
Com’era
la croce? Non vi era una struttura e una pratica d’impiego unica e immutabile.
La croce poteva essere divisa in due travi (verticale o stipes, lasciata in permanenza sul luogo destinato alle esecuzioni,
e orizzontale o patibulum, portata
dal condannato); o poteva essere intera e completa, a forma di T (commissa) o a croce latina (capitata); o anche ad “X” (croce di
Sant’Andrea); a volte il condannato veniva inchiodato al solo palo verticale;
una croce più alta del solito poteva essere usata quando si voleva dare maggior
rilievo al supplizio, come appunto fu fatto per Gesù. Data la difficile
situazione in Palestina appare improbabile che si volesse lasciare le travi
verticali continuamente in piena vista, un segno della potenza romana che
avrebbero eccitato gli spiriti già ribollenti degli zeloti. Assai più
verosimile è quindi che le croci venissero portate intere e infisse in fori
appositamente preparati e riempiti di pietre, che venivano tolte quando
necessario. Ed è proprio questo che la Valtorta vide e descrisse. Pure in tutti
gli altri dettagli, le conoscenze storiche, i Vangeli canonici e le visioni
valtortiane sono in pieno accordo. Anche il particolare dello straccio fornito
ai condannati per coprire le parti intime è segno di adattamento degli usi
romani alla “pudicizia” dei giudei. La Valtorta scrive che la Madonna diede al
Figlio il suo velo perché non si cingesse con uno straccio come gli altri
condannati.
Nel
caso di Gesù, doveva trattarsi di una croce “capitata”, altrimenti non si
sarebbe potuto inchiodare sopra il capo di Lui la scritta col motivo della
sentenza (titulus). A favore della
descrizione fornita dalla Valtorta stanno i seguenti fatti: 1) non dice nulla
che contraddica il Vangelo; 2) l’espressione di Giovanni “bajulans sibi crucem” contraddice l’ipotesi del Ricci secondo cui
avrebbero legato Gesù il solo patibulum;
3) è conforme alla tradizione cristiana che ha sempre visto Gesù carico della
croce intera; 4) la croce, per quanto pesante, poteva essere portata da una
sola persona perché il braccio verticale posava per terra e veniva più
trascinata che portata di peso; 5) le valutazioni dello spessore della croce in
base alla piaga che si riscontra su spalla tendono ad essere esagerate perché
quell’impronta è costituita verosimilmente da alcune ferite della flagellazione
allargate e confuse per sfregamento e non corrisponde al reale spessore della
trave; 6) i modi per costringere condannati a portare la croce e crocifiggere
erano diversi da luogo a luogo; 7) le tre cadute di Gesù sulla via del Calvario
potevano essere causate da debolezza e dal peso della croce intera senza
ricorrere alle legature descritte dal Ricci; 8) se Cristo avesse portato il
solo patibulum si sarebbero dovute
trovare impronte sulla colonna vertebrale che invece non ci sono; 9) la maggior
parte dei sindonologi ed esegeti concordano nel ritenere che i piedi di Gesù
distassero dal suolo circa un metro, è ciò è conforme all’altezza della croce
di Gesù stimata dalla Valtorta in quattro metri.
Come
già osservato, l’esecuzione non era un rito immutabile. È assai probabile che
gli altri due crocifissi fossero fissati con corde. Durante le tre ore di
agonia, sottoposto alla continua tortura dei nervi mediani lesi dai chiodi,
Gesù non poté che pronunciare poche parole, quando riusciva a sollevarsi per
respirare, sforzandosi sul chiodo dei piedi e su quelli delle mani, mentre gli
altri due crocifissi, essendo soltanto legati, poterono parlare liberamente e a
lungo. Ecco perché durarono più a lungo, e inoltre erano inebetiti dal
beveraggio anestetico di vino e mirra, e anche questo dovette conferire loro
maggior resistenza. Fu necessario eseguire su di loro il crucifragium, ossia lo spezzamento delle gambe; tuttavia avrebbero
potuto continuare a respirare anche così e il tempo stringeva, dato che
mancavano poche ore al sabato, che cominciava al tramonto del venerdì. In quei
casi non restava che procedere in modo ancor più energico. La Valtorta dice
infatti che dopo lo spezzamento delle gambe furono finiti a colpi di clava
sferrati anche al cuore.
Per
quanto riguarda la morte di Gesù, varie sono le ipotesi scientifiche in
contrasto tra loro: infarto cardiaco, pericardite traumatica, embolia, sincope,
crampi tetanici e soffocazione, fame e sete. La Valtorta offre la spiegazione
migliore (609.19, corsivo nel testo):
Tornano le valanghe di
dolore desolato che già l’avevano oppresso nel Getsemani. Tornano le onde dei
peccati di tutto il mondo a percuotere il naufrago innocente, a sommergerlo
nella loro amaritudine. Torna soprattutto la sensazione, più crocifiggente
della croce stessa, più disperante di ogni tortura, che Dio lo ha abbandonato e
che la preghiera non sale a Lui…
Ed è il tormento finale.
Quello che accelera la morte, perché
spreme le ultime gocce di sangue dai pori, perché stritola le superstiti fibre
del cuore, perché termina ciò che la prima cognizione di questo abbandono ha
iniziato: la morte. Perché di questo per prima cosa è morto il mio Gesù, o Dio,
che lo hai colpito per noi! Dopo il tuo abbandono, per il tuo abbandono, che
diventa una creatura? O un folle, o un morto. Gesù non poteva divenire folle,
perché la sua intelligenza era divina e, spirituale come è l’intelligenza,
trionfava sopra il trauma totale del colpito da Dio. Divenne dunque un morto:
il Morto, il santissimo Morto, l’innocentissimo Morto. Morto Lui che era la
Vita. Ucciso dal tuo abbandono e dai nostri peccati.
Sopravvenuta
la morte, e nell’imminenza del sabato, il sacro Corpo fu staccato e deposto
dalla croce, e trasportato in posizione orizzontale, così che il sangue dalla
vena cava inferiore e dalle vene epatiche non poteva uscire tanto facilmente,
per cui la colata trasversale posteriore potrebbe essersi formata nel sepolcro,
dato che la rigidità cadaverica in individui robusti morti di morte violenta
ritarda alquanto. I coaguli sanguigni intorno alle reni paiono dovuti al lino
che cingeva i fianchi di Gesù, mescolandosi a quelli formati delle piaghe della
flagellazione riaperte dalla forzata tensione dell’epidermide e dallo
sfregamento contro il legno della croce. Come abbiamo visto, la presenza del
lino era una concessione romana al “pudore” ebraico, e il lino fu dato dalla
stessa Maria Vergine (Cap. 609. 2-3):
Viene dato l’ordine ai
condannati di spogliarsi. I due ladroni lo fanno senza nessun pudore. Anzi si
divertono a fare atti osceni verso la folla e specie verso il gruppo
sacerdotale, tutto candido nelle sue vesti di lino e che è piano piano tornato
sulla piazzetta più bassa, usando della sua qualità per insinuarsi lì. Ai
sacerdoti si sono uniti due o tre farisei e altri prepotenti personaggi, che
l’odio fa amici. (…)
I carnefici offrono tre
stracci ai condannati perché se li leghino all’inguine. E i ladroni li pigliano
con più orrende bestemmie. Gesù, che si spoglia lentamente per lo spasimo delle
ferite, lo ricusa. Forse pensa conservare le corte brache che ha tenute anche
nella flagellazione. Ma, quando gli viene detto di levarsi anche le stesse,
Egli tende la mano per mendicare lo straccio dei boia a difesa della sua
nudità. È proprio l’Annichilito fino a dover chiedere uno straccio ai
delinquenti.
Ma Maria ha visto e si è
sfilata il lungo e sottile telo bianco, che le vela il capo sotto al manto
oscuro e nel quale Ella ha già versato tanto pianto. Se lo leva senza far
cadere il manto, lo dà a Giovanni perché lo porga a Longino per il Figlio. Il
centurione prende il velo senza fare ostacolo e, quando vede che Gesù sta per
denudarsi del tutto, stando voltato non verso la folla ma verso la parte vuota
di popolo, mostrando così la sua schiena rigata di lividi e di vesciche,
sanguinante di ferite aperte o dalle croste oscure, gli porge il lino materno.
E Gesù lo riconosce. Se ne avvolge a più riprese il bacino, assicurandoselo per
bene perché non caschi... E sul lino, fino allora solo bagnato di pianto,
cadono le prime gocce di sangue, perché molte delle ferite, appena coperte di
coagulo, nel chinarsi per levarsi i sandali e deporre le vesti si sono riaperte
e il sangue riprende a sgorgare.
Ora Gesù si volge verso
la folla. E si vede così che anche il petto, le braccia, le gambe sono tutte
state colpite dai flagelli. All’altezza del fegato è un enorme livido, e sotto
l’arco costale sinistro vi sono nette sette righe in rilievo, terminate da
sette piccole lacerazioni sanguinanti fra un cerchio violaceo... un colpo
feroce di flagello in quella zona tanto sensibile del diaframma. I ginocchi,
contusi dalle ripetute cadute, iniziate subito dopo la cattura e terminate sul
Calvario, sono neri di ematoma e aperti sulla rotula, specie il destro, in una
vasta lacerazione sanguinante.
La folla lo schernisce
come in coro: “Oh! Bello! Il più bello dei figli degli uomini! Le figlie di
Gerusalemme ti adorano...”. E intona, con tono di salmo: “Il mio diletto è
candido e rubicondo, distinto fra mille e mille. La sua testa è oro puro, i
suoi capelli grappoli di palma, setosi come piuma di corvo. Gli occhi son come
due colombe bagnantesi ai ruscelli non d’acqua ma di latte, nel latte della sua
orbita. Le sue guance sono aiuole di aromi, le sue labbra porpurei gigli
stillanti preziosa mirra. Le sue mani tornite come lavoro d’orafo terminate in
rosei giacinti. Il suo tronco è avorio venato di zaffiri. Le sue gambe,
perfette colonne di candido marmo su basi d’oro. La sua maestà è come quella
del Libano; imponente egli è più dell’alto cedro. La sua lingua è intrisa di dolcezza
ed egli è tutto delizia”; e ridono e urlano anche: “Il lebbroso! Il lebbroso!
Hai dunque fornicato con un idolo se Dio ti ha così colpito? Hai mormorato
contro i santi di Israele come Maria di Mosè, se sei stato così punito? Oh! Oh!
il Perfetto! Sei il Figlio di Dio? Ma no! L’aborto di Satana sei! Almeno egli,
Mammona, è potente e forte. Tu... sei uno straccio impotente e schifoso”.
Data
l’imminenza del sabato, venne compiuta da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo solo
la prima parte della pratica funeraria israelita. Il Corpo fu avvolto con teli
insieme ad aromi e posto sulla tavola dell’imbalsamazione. Dal racconto
valtortiano si deducono i seguenti particolari: 1) il Corpo non venne lavato,
forse usata solo un po’ d’acqua; 2) le bende furono inzuppate di aromi; 3) il
Corpo fu spalmato di unguenti; 4) la mistura degli aromi era appiccicosa, dato
che riusciva a trattenere in posizione le mani del Corpo: 5) venne usata una
sindone monda, diversa da quella usata per il trasporto; 6) i piedi
conservarono un diversa posizione, uno più dritto l’altro più steso; 7) al
volto di Gesù venne legata una fascia mentoniera; 8) il Corpo avvolto nella
sindone, appoggiando sul viso un sudario di lino, poi vennero sovrapposte alla
sindone altre larghe striscie o bende per mantenere la sindone stessa aderente
al Corpo, ottenendo così un embrione di fasciatura completa ma affrettata.
I
dettagli trovano sorprendente riscontro negli usi dell’epoca. L’analisi
elettronica al computer effettuata al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena
dimostra che al volto dell’Uomo della Sindone fu applicata la mentoniera. Maria
Valtorta l’aveva già scritto nel 1944.
Alla
risurrezione, il Corpo uscì dalla fasciatura senza guastare le numerosissime
impronte sanguigne rimaste intatte e conservando l’aspetto tipico del coagulo
normale col relativo alone di siero. Il Cerri si concentra sulla narrazione
valtortiana del comportamento di Pietro e Giovanni e trascura il problema della
formazione dell’immagine, che pare sia avvenuta in seguito ad una smaterializzazione
del Corpo: infatti, il Risorto attraversava i muri e la materia solida. La smaterializzazione pare sia
avvenuta con un lampo di energia, le cui tracce sono state effettivamente
riscontrate sulla Sindone. Le fasce che avevano avvolto il corpo, più pesanti,
si afflosciarono, mentre il sudario, più leggero e “inamidato” dall’istantaneo
essiccarsi dei profumi liquidi, restò sollevato, apparendo così a Pietro e
Giovanni “in una posizione unica”, che modellava la forma del corpo che vi era
stato avvolto. Il lampo di luce venne visto e descritto dalla Valtorta come una
sfera di fuoco che precipitò dall’alto ed entrò nel sepolcro (Cap. 617.3-4).
La meteora si abbatte contro l’inutile
serrame del Sepolcro, lo divelle, lo atterra, fulmina di terrore e di fragore
le guardie messe a carcerieri del Padrone dell’Universo, dando, col suo tornare
sulla Terra, un nuovo terremoto, come lo aveva dato quando dalla Terra era
fuggito questo Spirito del Signore. Entra nel buio Sepolcro, che si fa tutto
chiaro della sua luce indescrivibile, e mentre questa permane sospesa nell’aria
immobile, lo Spirito si rinfonde nel Corpo immoto sotto le funebri bende.
Tutto questo non in un minuto, ma in
frazione di minuto, tanto l’apparire, lo scendere, il penetrare e scomparire della
Luce di Dio è stato rapido...
Il “Voglio” del divino Spirito alla sua
fredda Carne non ha suono. Esso è detto dall’Essenza alla Materia immobile. Ma
nessuna parola viene percepita da orecchio umano. La Carne riceve il comando e
ubbidisce ad esso con un fondo respiro... Null’altro per qualche minuto.
Sotto il sudario e la sindone la Carne
gloriosa si ricompone in bellezza eterna, si desta dal sonno di morte, ritorna
dal “niente” in cui era, vive dopo essere stata morta. Certo il cuore si desta
e dà il primo battito, spinge nelle vene il gelato sangue superstite e subito
ne crea la totale misura nelle arterie svuotate, nei polmoni immobili, nel
cervello oscurato, e riporta calore, sanità, forza, pensiero.
Un altro attimo, ed ecco un moto
repentino sotto la sindone pesante. Così repentino che, dall’attimo in cui Egli
certo muove le mani incrociate al momento in cui appare in piedi imponente,
splendidissimo nella sua veste di immateriale materia, soprannaturalmente bello
e maestoso, con una gravità che lo muta e lo eleva pur lasciandolo Lui,
l’occhio fa appena in tempo ad afferrarne i trapassi. Ed ora lo ammira: così
diverso da quanto la mente ricorda, ravviato, senza ferite né sangue, ma solo
sfolgorante della luce che scaturisce a fiotti dalle cinque piaghe e si emana
da ogni poro della sua epidermide.
Il
racconto valtortiano della Passione spiega perfettamente una ad una le piaghe
di Cristo riscontrabili sulla Sindone: la tumefazione della parte centro-destra del volto (terza e
completa caduta, Cap. 609.6), tumefazione della guancia destra e bocca ferita
(colpo di asta sul viso dopo la flagellazione, Cap. 604.30), escoriazioni
all’apice del naso e occhio destro quasi chiuso (corrisponde alla descrizione
della Vittima crocifissa, Cap. 609.12), bocca leggermente deviata a destra
(contrazione spasmodica del volto sulla croce, Cap. 609.22), fuoruscita di
sangue e saliva sul lato destro della bocca (sulla croce, quando si avvicina la
fine, Cap. 609.21), impronte delle ferite sui flagelli durante la via crucis (Cap.
608.5) e prima della crocifissione (Cap. 609.2-3), piaga del costato (Cap.
609.27), piaghe alle mani e un braccio più corto dell’altro di circa 4 centimetri
(risultato della slogatura inflitta durante l’inchiodamento alla croce, Cap.
609.5). La Valtorta descrisse questa slogatura quattro anni prima che fosse
diagnosticata da alcuni medici consultati dal professor Lorenzo Ferri.
La
statura, il volto e il fascino di Gesù, come traspaiono dall’immagine
sindonica, così corrispondono puntualmente alle descrizioni valtortiane. Il
Redentore era alto circa m 1,80, maestoso e bellissimo.
Poiché
il Cerri trascura il problema della formazione dell’immagine, lascia spazio ad
un supplemento a firma di Ugo Bertolami, che si domanda come mai l’autore non
abbia preso in considerazione l’importante dettato valtortiano proprio su
questo argomento (Cap. 613.7-8):
Tu l’hai vista la corona
di lividi che stava intorno ai miei reni. I vostri scienziati, per dare una
prova alla vostra incredulità rispetto a quella prova del mio patire che è la
Sindone, spiegano come il sangue, il sudore cadaverico e l’urea di un corpo
sopraffaticato abbiano potuto, mescolandosi agli aromi, produrre quella
naturale pittura del mio Corpo estinto e torturato.
Meglio sarebbe credere
senza aver bisogno di tante prove per credere. Meglio sarebbe dire: “Ciò è
opera di Dio” e benedire Iddio che vi ha concesso di avere la prova
irrefragabile della mia Crocifissione e delle precedenti torture!
Ma poiché, ora, non
sapete più credere con la semplicità dei bambini, ma avete bisogno di prove
scientifiche – povera fede, la vostra, che senza il puntello e il pungolo della
scienza non sa star ritta e camminare – sappiate che le contusioni feroci delle
mie reni sono state l’agente chimico più potente nel miracolo della Sindone. Le
mie reni, quasi frante dai flagelli, non hanno più potuto lavorare. Come quelle
degli arsi in una vampa, sono state incapaci di filtrare, e l’urea si è
accumulata e sparsa nel mio sangue, nel mio corpo, dando le sofferenze della
intossicazione uremica e il reagente che trasudando dal mio Cadavere fissò
l’impronta sulla tela. Ma chi è medico fra voi, o chi fra voi è malato di
uremia, può capire quali sofferenze dovettero darmi le tossine uremiche, tanto
abbondanti da esser capaci di produrre un’impronta indelebile.
La sete. Quale tortura
la sete! Eppure lo hai visto. Non ci fu uno, fra tanti, che in quelle ore mi
seppe dare una goccia d’acqua. Dalla Cena in poi, Io non ebbi più nessun
conforto. E febbre, sole, calore, polvere, dissanguamento, davano tanta sete al vostro Salvatore.
Tu l’hai visto che ho
respinto il vino mirrato. Non volevo addolcimenti al mio patire. Quando ci si è
offerti vittime, bisogna essere vittime senza
transazioni pietose, senza compromessi, senza addolcimenti. Occorre bere il
calice così come esso è dato. Gustare l’aceto e il fiele sino in fondo. Non il
vino drogato che produce intontimento del dolore.
Oh! la sorte di vittima
è ben severa! Ma beato chi la elegge per sua sorte.
Questo
conferma la teoria vaporigrafica formulata da Paul Vignon, professore di
biologia dell’Institut Catholique di Parigi nel 1902 e da lui dimostrata
esponendo una tela di lino simile all’originale in presenza di aloe, mirra e
vapori di urea. La teoria ha attratto numerose critiche. Secondo Pierluigi
Baima Bollone, professore di medicina legale all’università di Torino, tale
teoria non sarebbe accettabile perché: 1) la trasformazione avviene con un
certo ritardo, anche di giorni, 2) i vapori non possono muoversi in modo
perfettamente ortogonale in modo da dare un’immagine precisa, 3) per la
grandezza dell’immagine sindonica sarebbe state necessarie grandi quantità di
urea.
La
prima obiezione diventa piuttosto una prova a favore: infatti i Vangeli
canonici non la menzionano al momento della scoperta della tomba vuota. La
Valtorta racconta esplicitamente che l’immagine si formò a poco a poco. Infatti
alcuni giorni dopo la risurrezione Nicodemo, alla presenza dell’apostolo
Giovanni, di Giuseppe d’Arimatea e di Lazzaro risuscitato, consegna alla Madonna
la Sindone, spiegando (Cap. 644.6-7):
(…) la seconda sindone,
che fu su di lui dalla sera di Parasceve all’aurora di Risurrezione, deve
venire a te. E – te ne avverto, perché tu non debba commuoverti troppo nel
vederla – e sappi che più i giorni sono passati e più su di essa è apparsa
nitidamente la figura di Lui, così come era dopo il lavacro. Quando la
ritirammo dal Sepolcro pareva che semplicemente conservasse l’impronta delle
sue membra coperte dagli oli e, ad essi mescolati, scoli di sangue e di siero
dalle molte ferite. Ma, o per un processo naturale o, il che è molto più certo,
per un volere soprannaturale, un miracolo di Lui per dare una gioia a te, più
il tempo è passato e più l’impronta si è fatta precisa e chiara. Egli è là, su
quella tela, bello, imponente, anche se ferito, sereno, pacifico, anche dopo
tante torture. Hai cuore di vederlo?”.
“Oh! Nicodemo! Ma questo
era il mio supremo desiderio! Tu lo dici d’aspetto pacificato... Oh! poterlo
vedere così, non con quell’espressione torturata che è sul velo di Niche!”,
risponde Maria congiungendo le mani sul suo cuore.
Allora i quattro
spostano la tavola per avere più spazio; poi, stando Lazzaro e Giovanni da un
lato, Nicodemo e Giuseppe dall’altro, svolgono lentamente la lunga tela. Appare
per prima la parte dorsale, iniziando dai piedi; poi, dopo la quasi
congiunzione delle teste, quella frontale. Le linee sono ben chiare, e chiari i
segni, tutti i segni, della flagellazione, coronazione di spine, sfregamento
della croce, contusioni da colpi ricevuti e cadute fatte, e le ferite dei
chiodi e della lancia.
Maria cade in ginocchio,
bacia il telo, carezza quelle impronte, bacia le ferite.
La seconda obiezione cade
se si considera che comunque il formarsi dell’immagine è dovuto a un miracolo,
alla luce della risurrezione le cui tracce sono state pure individuate sulla
sindone. La terza obiezione non regge, dati i colpi di flagello che causarono
un blocco renale e relativa uremia.
Riguardo alla ferita al
costato, l’opinione generalizzata è che l’immagine si sia formata all’interno
del Telo, in modo che l’immagine sindonica sarebbe vista di riflesso, come in
uno specchio. Partendo da tale assunto, le ricostruzioni tridimensionali del
Corpo (come quelle di Mons. Ricci e dello scultore Luigi De Mattei) mostrano la
grande piaga triangolare causata dal peso della croce sulla spalla sinistra di Gesù, mentre nella sindone è
invece sulla spalla destra. È come se
il miracoloso lampo di luce della risurrezione avesse proiettato l’immagine
sull’esterno del Telo.
Ciò è confermato dagli scritti
valtortiani, che più volte indicano la sindone come la sua vera effige di Gesù, sacra e vera immagine, e non immagine
riflessa. I Vangeli canonici non parlano della piaga della spalla, che fu
rivelata per la prima volta da Gesù a san Bernardo da Chiaravalle (1090-1153),
abate e dottore della Chiesa. Questi domandò a Nostro
Signore quale fosse stato il maggior dolore sofferto nel corpo durante la sua
passione. Gli fu data questa preziosa rivelazione privata:
Io ebbi una piaga
sulla spalla, profonda tre dita, e tre ossa scoperte per portare la croce.
Questa piaga mi ha dato maggior pena e dolore più di tutte le altre e dagli
uomini non è conosciuta. Ma tu rivelala ai fedeli cristiani e sappi che
qualunque grazia mi chiederanno in virtù di questa piaga verrà loro concessa; e
a tutti quelli che per amore di Essa mi onoreranno con tre Padre Nostro, Ave e
Gloria al giorno, perdonerò i peccati veniali, non ricorderò più i mortali, non
morranno di morte subitanea e in punto di morte saranno visitati dalla Beata
Vergine conseguendo ancora grazia e misericordia.
Dopo la morte di Padre Pio si scoprì che
anche il santo stimmatizzato di Pietrelcina aveva sofferto di tale piaga,
evidentemente a completamento delle sofferenze della Passione da lui
sperimentate. Infatti, evidenti macchie di sangue sulla spalla destra appaiono
sulla tonaca portata dal frate.
La sindone ci mette davanti al mistero
divino, che noi possiamo adorare, ma restando ben lontani dal comprenderlo. E
il Bertolami, opportunamente conclude la sua appendice allo scritto di don
Vincenzo Cerri con un significativo dettato di Gesù a Maria Valtorta (Quaderni, 20 maggio 1049):
Mi dice il Signore, mentre io penso a tutt’altro che a
cose mistiche e lavoro d’ago riparando la biancheria di casa:
“La mia Sindone, o Maria, per chi sa vedere, è non
soltanto testimonianza che Io sono veramente morto e sono risorto, ma anche
testimonia di come fui concepito e nacqui non secondo le leggi dell’umanità. È
quindi conferma alle verità che la Religione mia insegna: il mio concepimento
per opera dello Spirito Santo; la divina maternità di Maria; la sua verginità
perpetua; la mia passione e morte; la mia risurrezione gloriosa. Ma ciò è
conferma a chi, nella luce di Dio, è dato di vedere.”
EMILIO
BIAGINI
Ci mancava solo il revival della teoria vaporigrafica . "La Valtorta racconta esplicitamente che l’immagine si formò a poco a poco".
RispondiEliminaUn motivo in più per non seguire la Valtorta e le altre ispirazioni non riconosciute dalla Chiesa