La veggente Maria Valtorta, di famiglia lombarda ma nata
a Caserta (dati i frequenti spostamenti del padre, che era militare) nel 1897,
vi abitò dal 23 ottobre 1924 al 12 ottobre 1961, giorno della sua morte,
assistita da Padre Innocenzo Maria Rovetti, dei Servi di Maria. Fu paralizzata
dalla vita in giù negli ultimi ventisette anni. Il motivo: durante il periodo
dei disordini prima dell’avvento del fascismo, un criminale comunista l’aveva
aggredita alle spalle colpendola alla schiena con una sbarra di ferro al grido
di “Morte ai signori e ai militari”, provocandole una paralisi progressiva
degli arti inferiori.
La Valtorta abitò in continuità la casa di Viareggio eccetto il
periodo dal 24 aprile al 23 dicembre 1944 trascorso a S. Andrea di Còmpito, a
causa dello sfollamento decretato dal Comune in conseguenza della guerra. La
casa restò miracolosamente intatta sebbene quelle vicine fossero tutte colpite.
Maria Valtorta l’amava moltissimo per le apparizioni celesti che
vi aveva avuto, mentre durante il soggiorno a Còmpito sofferse moltissimo, non
solo per la scomodità, ma per il terribile periodo di “oscurità” spirituale
durato quaranta giorni, quando si credette abbandonata da Cristo: un’esperienza
ben nota che sembra toccare, prima o poi, a tutti i grandi mistici.
Commovente, a proposito della casa, è una lettera al suo
direttore spirituale Padre Migliorini:
Tuteli, Padre, il ricordo di me
nei cuori e faccia che essi mi diano dei suffragi. Tuteli, se resta in piedi la
casa, il rispetto alla mia stanza in cui tanta vita celeste si è svolta. Quelle
pareti sono santificate dallo sguardo di Dio, di Maria e dei Santi di Dio. Oh!
Non potrò mai dimenticare che esse pareti si sono annullate per farmi vedere il
cielo e il Padre Santo e il Figlio trionfante, che si sono empite del raggiare
della Colomba e delle armonie celesti e che l’alito di Maria e la sua voce
hanno carezzato quelle mura! Non potrò mai dimenticare che esse sono impregnate
dal suono della parola del Verbo! Più che una chiesa esse erano per me, perché
qui il Sacerdote eterno aveva predicato la sua dottrina e mi aveva fatto
assistere alla sua Messa: la Passione.
Tutto il Cielo dunque si era mosso per la grande rivelazione privata. La
prima apparizione fu il Giovedì Santo del 1943. Ella racconta:
D’un tratto ho visto, mentalmente,
un terreno molto sassoso e brullo. Pareva la cima di un poggetto, come se ne
vedono tanti sulle nostre colline. Nudo di vegetazione, solo ricco di pietre e
selci ruvide e biancastre, aveva tutt’intorno un vasto orizzonte. Proprio sulla
cima era nata una pianta di mammole. Unica cosa che vivesse in tanto squallore.
Vedevo distintamente il ciuffo delle foglie ben folto e riunito come per
opporre resistenza ai venti che battevano la cima. Qualche boccio di viola, più
o meno aperto, sporgeva il capino dal cespo verde. Ma di completamente
sbocciata non ce ne era che una. Bella, di un colore pieno, aperta e protesa
verso l’alto.
Fu il suo stare così ritta, quasi
fosse attirata da una forza speciale, che mi colpì l’attenzione e mi fece
cercare con lo sguardo. E vidi un’asse, una grossa asse infissa nel suolo.
Pareva un tronco appena piallato, quasi grezzo e scabro. A un mezzo metro dal
suolo, forse meno, stavano due piedi trafitti... Non ho visto che quelli ieri
sera. Due piedi torturati. E che fossero torturati acerbamente lo diceva la
contrattura degli stessi con le dita quasi ripiegate verso la pianta come per
spasimo tetanico.
Del sangue, scivolando lungo i
calcagni, scendeva sull’asse scabra e la rigava fino al suolo. Altre gocce
cadevano dalle dita contratte e piovevano sul cespo di viole. Ecco a che
tendeva la violetta tutta tesa verso l’alto! A quel sangue che la nutriva come,
fra tanto squallore di suolo, nutriva quell’unico cespo, saputo nascere contro
quel legno.
Molte cose mi ha detto quella
vista...”
Da allora la
Valtorta scrisse quasi ogni giorno fino al 1947, e a intermittenze fino al
1951. In tutto i quaderni da lei riempiti sono 129, per un totale di 13.193
pagine. Sette quaderni sono occupati dall’autobiografia (che il confessore,
Padre Romualdo Migliorini, le aveva chiesto di scrivere, intuendo la santità di
lei e in vista di una futura causa di beatificazione), gli altri sono dedicati
ad una serie di opere di altissimo contenuto teologico, la maggiore delle quali
descrive in modo ammirevole la vita di Nostro Signore, e che venne dapprima
pubblicata come Il poema dell’Uomo Dio,
e poi sotto il titolo L’Evangelo come mi
è stato rivelato.
Dai quaderni da
lei riempiti, vennero estratte altre due opere teologiche importantissime: le Lezioni sull’Epistola di Paolo ai Romani
e il Libro di Azaria, dettatole dal
suo angelo custode, che contiene il commento alle letture della Messa, eccetto
il Vangelo, il cui commento è costituito invece dall’opera principale. Restano
ancora migliaia di pagine non raggruppate in opere definite e pubblicate in tre
volumi di Quaderni e nei Quadernetti, che raccolgono appunti
disparati con riflessioni varie e preghiere.
Le frequenti
visite di Gesù, della Santissima Vergine e di altri abitanti del Cielo
mandavano in estasi la veggente. Esclusa dal mondo a causa della paralisi, ella
viveva al tempo stesso in paradiso e in purgatorio: in paradiso per le visite
celesti che riceveva, in purgatorio per i molti mali che si procurava pregando
Iddio di guarire qualche persona di sua conoscenza e di mandare a lei stessa la
malattia, finché un giorno il Divino Maestro le disse: “Ora basta soffrire. Tu
servi a me”.
Il pallore e l’aspetto che Maria Valtorta assumeva durante le
estasi erano del tutto diversi da quelli che mostrava durante una delle sue
frequenti e terribili crisi spinali o cardiache. Inoltre in una crisi voleva
assistenza e cercava di curarsi, mentre durante le estasi non voleva nessuno
intorno e si trasfigurava, mandando Marta Diciotti, la sua fedele amica e
governante, fuori di casa, rassicurandola che non le sarebbe successo nulla:
sapeva infatti di essere assistita da Cristo. Una volta Marta Diciotti e Paola
Belfanti videro Maria in estasi, e seppero poi che la Madonna le aveva messo in
grembo il Bambino Gesù. In un altra occasione, la vicina Eroma Mencarini era
venuta a sfogarsi per certi suoi dispiaceri e Maria la pregò di stare attenta
perché da due giorni in un angolo c’era Maria Santissima.
Maria Valtorta era immersa nelle visioni della vita di Gesù, al
punto di avvertire gli odori, e anche le puzze, come nel caso del tanfo di
cadavere alla risurrezione di Lazzaro, puzze che continuava ad avvertire a
lungo. Gesù, quando appariva, si sedeva su una sedia vicino al letto di Maria.
La sedia, purtroppo, si frantumò al trasloco di ritorno a Viareggio da S.
Andrea di Còmpito.
Un giorno, dopo la visita di una povera madre che aveva perso un
figlio e cercava conforto presso Maria, Marta Diciotti, mentre si occupava del
bucato, pensò: “Per tutti c’è una parola, per me mai niente!” Maria la chiamò e
le domandò cosa avesse pensato. Marta sul momento non ricordava, poi, dietro
l’insistenza di Maria, stava per ricordarsi e riferire il suo pensiero, quando
Maria disse: “Ecco la risposta”, e le lesse il dettato:
Questo è per Marta piccina, che
non deve lamentarsi di non avere mai una parola, che deve essere sicura di
essere molto amata attivamente dal suo Signore, il quale ha pensato a
proteggerla da quando l’ha messa sotto la tenda dove Egli ha il suo riposo. Ti
amava da prima, perché amare è il suo respiro. Ma quando ti credesti sola ti ha
amato per tutta una famiglia, dandoti pace presso Maria. Le lettere si scrivono
ai lontani, non a quelli che abitano con noi. E tu sei dove Io abito. Sii
buona. Infondi la tua attività di Marta nella spiritualità di Maria che ha
scelto la parte migliore, e per averla scelta col dolore e con l’amore completo
e volontario ha avuto da Me la parte supermigliore. Tu sei sul cuore di Maria e
Maria è sul mio Cuore. Non ti affannare perciò di troppe cose fra le quali
quella di chiederti se Io penso a te. Riposati sui cuori di quelli che ti amano
e abbi fede. Dio non abbandona coloro che sperano in Lui ed esercitano la
carità. Abbi la mia pace.
Che questo dettato sia in risposta ad un pensiero inespresso di Marta Diciotti è
senz’altro inspiegabile per chi dubita dell’origine soprannaturale di quanto
Maria scriveva.
La sopravvivenza stessa della Valtorta, a detta di numerosi
medici, era un vero miracolo. Nella sua infermità, spesso e fino alla fine,
Maria aveva febbre altissima, fino a quarantun gradi. Già nel 1947 aveva la
pressione sotto i 90. Non può sfuggire qui una notevole somiglianza con le
febbri e le precarie condizioni fisiche di Padre Pio, sorretto, come la
Valtorta, da una potenza superiore. I due santi si conoscevano, per misteriose
vie, anche se non si incontrarono mai: quando parlarono al grande santo di
Pietrelcina della condizioni di salute della veggente, Padre Pio rispose di
conoscere la situazione, ma di non poter fare nulla, perché la veggente aveva
preso i suoi mali su di sé volontariamente, per la salute fisica e spirituale
del prossimo, e se l’avesse guarita si sarebbe ripresa tutte le sue malattie
immediatamente”. E Gesù, il suo Divino Maestro, le disse una volta che, se non
fosse stata la Sua grazia a sostenerla, lei sarebbe morta da tempo, ma Egli le
dava forza perché potesse servirlo.
Maria Cristina,
figlia della vicina Anna Maria Antonini, già in punto di morte, guarì in modo
straordinario per intercessione di Maria Valtorta. Il fatto è testimoniato in
due diverse deposizioni, del 1976 e del 1982, di parenti della bambina,
testimoni dirette dei fatti. La piccola aveva poco più di tre anni quando si
ammalò di una violenta broncopolmonite “capillare”. Il medico non tacque la
gravità del caso, la curò con la penicillina ma senza effetto. Nella notte del
secondo giorno la bambina aveva febbre altissima, gridava che c’era la “otte”
(la morte) che la voleva portar via. A un certo punto allargò la braccia e
disse che non aveva più paura, perché era venuto Gesù e aveva mandato via la
morte con un gesto imperioso, ed era “tanto bello”. Erano le tre meno un
quarto, la bambina non aveva sognato, era ben sveglia. La mattina seguente la
madre si affacciò alla portafinestra di Maria e le raccontò il fatto. La
veggente domandò che ora era, e fu evidente che proprio a quell’ora ella aveva
chiesto a Gesù di guarire la bambina. Prima di quell’episodio, la piccola non
aveva mai visto un teschio, che invece dovette vedere la prima volta
all’apparizione della “otte” che veniva a portarla via; inoltre la descrizione
di Gesù e del suo vestito coincideva perfettamente con la visione di Lui che
aveva avuto la Valtorta.
La provvidenziale amicizia spirituale con la carmelitana Madre
Teresa Maria fu alla base di un nutrito scambio di lettere che documenta le
gravissime persecuzioni subite ad opera del clero, e specialmente dei Serviti
che avrebbero dovuto proteggerla e che finirono per metterle contro il
Sant’Uffizio.
Padre Sostegno
M. Benedetti, sacerdote servita, credeva alla soprannaturalità dell’opera,
tanto che il 28 aprile 1947, alle ore 17, appose la sua firma sull’ultimo
quaderno autografo di lei e, letto il commento dell’angelo custode Azaria al
Vangelo della Santa Messa I dell’Epifania, andò in estasi e disse: “Basta
questo brano per far dichiarare soprannaturale il lavoro.” Ma si tratta di una
rarissima eccezione. La Valtorta annota l’indignazione di Cristo nei confronti
dei Serviti:
Non parla più per loro. E questo
silenzio di Gesù è sempre il massimo del suo furore. A me fa paura quando tace. Segno che giudica morti i colpevoli...”
Nel 1949 il
Sant’Uffizio bloccò la pubblicazione. Come si sa, quell’organismo non si muove
se non dietro una denuncia formale, e tale denuncia ci fu da parte di un
altolocato Servita, del quale per carità cristiana la Valtorta tace il nome.
Costui, stanco dell’insistenza di Padre Corrado Berti che intercedeva per la
Valtorta, afflitta dalle atroci sofferenze fisiche, dai sospetti, dalle
infinite tergiversazioni, dalle tentazioni diaboliche (il diavolo la tentava a
negare l’origine soprannaturale dell’Opera e a pubblicarla a suo nome), nonché
da ristrettezze finanziarie, si comportò come Giuda. Gesù aveva predetto a
Maria: “Gli Scritti avranno la mia stessa sorte”, ossia di essere traditi come
Egli lo fu.
Con
l’avvento del papa “buono”, nel 1958, la situazione precipitò e l’Opera venne
messa all’Indice l’anno successivo, in base a criteri illustrati in un articolo
dell’Osservatore Romano del 6
gennaio 1960, dal quale si desume che la decisione era stata presa con la
massima superficialità: i rilievi della gerarchia si appuntano infatti su
idiosincrasie stilistiche di nessun significato, e su inesistenti “svarioni
storici e geografici” dei quelli non viene fornito un solo esempio. Dopo la
messa all’Indice, i preti continuarono a leggere gli Scritti, eludendo la
proibizione con piccoli sotterfugi da leguleio di terz’ordine.
Dopo la messa
all’Indice dei quattro volumi della prima edizione, Marta Diciotti ebbe
occasione di parlare con Padre Sostegno e gli domandò se per leggerli aveva
bisogno di una dispensa speciale. Sostegno rispose che non ce n’era bisogno,
perché si potevano sempre leggere gli originali o le copie dattiloscritte. Va
notato che Padre Sostegno non era affatto un sostenitore della Valtorta:
dubitava di lei, la aggrediva verbalmente con sospetto e violenza. Solo più
tardi, quando si decise a leggere gli Scritti, le divenne favorevole. Non stava
quindi dando un aiuto da amico, ma si limitava a svelare le astuzie di certo
clero che non prende sul serio nemmeno se stesso.
Marta, nella sua
semplicità, abituata all’evangelico “sì sì, no no”, ne fu scandalizzata: “Ma
Padre, è un inganno, un’ipocrisia.” Risposta: “Non stare a pensarci su! Il
Sant’Uffizio...” Marta esplose: “Il vostro Sant’Uffizio è davvero allora una
grande istituzione!” E tra sé, perdendo il lume degli occhi, Marta pensava:
“Razza di vipere!... anzi no! di pagliacci! falsi, ipocriti, bugiardi! La
Russia [quella sovietica] ha imparato da voi, che c’eravate prima del
Cremlino!” E Sostegno insistette: “Se uno ottiene il permesso di leggere [un
testo messo all’Indice], può farlo ad alta voce e gli altri possono ascoltare.”
A quel punto a Marta venne voglia di non confessarsi più.
E non basta
ancora: a proposito della scarsa serietà clericale e del peso nullo del
Sant’Uffizio, un Padre francescano raccontò che al tempo della messa all’Indice
degli Scritti, aveva risolto il problema sciogliendo la rilegatura dei quattro
volumi in fascicoli, perché il divieto era sui quattro tomi, non sui fascicoli
che li componevano. Capziosità farisaiche a non finire: a questo punto come
prendere sul serio i pronunciamenti della gerarchia sulla Valtorta?
Situazione disperata
ma non seria: dopo la messa all’Indice, numerose attestazioni favorevoli a
Maria Valtorta, scritte da dignitari ecclesiastici, teologi e docenti
universitari, dichiararono di sottomettersi al futuro giudizio della Chiesa,
come se il Sant’Uffizio non si fosse mai pronunciato. Peraltro, che può dire
ormai la Chiesa su Maria Valtorta, dopo averne detto tutto il male possibile? E
dopo che la gerarchia si ostina ad imporre che se ne può leggere l’Opera solo
se si ritiene che la veggente non fosse tale, ma un’illusa o un’ingannatrice, e
il Suo Divino Maestro un essere inesistente? Infatti il senso della nota che –
Tettamanzi docet – tuttora accompagna ogni volume de L’Evangelo non può essere
che questo: il Divino Maestro è una pure invenzione della scrittrice che
evidentemente vaneggiava o forse imbrogliava.
L’incauta
propagazione degli Scritti da parte di Padre Migliorini, oltre che contraria
agli ordini del Divino Autore, era pure teologicamente pericolosa, perché il
religioso li batteva a macchina con molti errori, che potevano comportare seri
rischi di eresia come, per lume celeste, la veggente più volte ammonì. Infine
la pubblicazione ebbe luogo ad opera di un editore laico, il Pisani, non
costretto dalla disciplina ecclesiastica, e la Valtorta dovette fare uso del
proprio diritto d’autore per poter pubblicare l’Opera, mentre, secondo le
istruzioni del Divino Maestro, questa avrebbe dovuto uscire anonima, per
sottolineare che non si trattava di opera umana. Alla fine, la gerarchia rese
inevitabile che, pur di far giungere L’Evangelo
alle anime, si adottasse almeno in parte (dato che la veggente non smise mai di
proclamare la vera origine dell’Opera) il suggerimento del diavolo di
pubblicare col nome “Maria Valtorta” stampato sulla copertina.
Nonostante
la scarsa serietà di tutta l’operazione, la messa all’Indice peserà come un
marchio d’infamia, anche dopo l’abolizione dell’Indice stesso col Motu Proprio di Paolo VI Integrae
servandae, del dicembre 1965, dove di servanda, cioè “da salvare”, in
questa penosa vicenda, sembra sia soprattutto la faccia dei gerarchi del
Sant’Uffizio. Successive prese di posizione confermeranno la validità della
condanna, in base all’assunto che l’Indice conserverebbe il proprio valore
“morale” pur essendo abrogato: vero capolavoro di ambiguità. Ma se aveva questo
valore morale perché abolirlo?
Invece
di riesaminare seriamente la questione, pronunciamenti successivi di alti
prelati, come le lettere del Cardinale Ratzinger del 1985 e di Tettamanzi del
1992, non faranno che richiamarsi alla scomunica e alle prese di posizione
precedenti, dando tuttavia implicitamente via libera alla pubblicazione, nella
quale nessuno ha mai ravvisato un singolo errore teologico.
Ratzinger
sente il bisogno di una excusatio non
petita, vulgo “giustificazione non richiesta” dei giudizi precedenti,
poiché scrive: “non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di
un’Opera la cui condanna non fu presa [da intendersi “decisa”] alla leggera ma
dopo ponderate motivazioni” [che non spiega e che nessuno ha mai spiegato]. Per
Tettamanzi, come già rilevato, si può leggere l’Opera purché il lettore accetti
di ritenere Maria Valtorta, la quale (in perfetto accordo col suo Divino
Maestro e su istruzioni di Lui) afferma in continuazione l’origine celeste degli
Scritti, una bugiarda o un’illusa. Espressioni della veggente come “dice Gesù”
o “dice Maria” non sarebbero, secondo l’alto prelato improvvisatosi critico
letterario, che espedienti appunto letterari. Ma ci sono o non ci sono errori
dottrinali? Se sì, perché non condannare e bloccare apertamente e
definitivamente? E se non ci sono, perché tante complicazioni e ambiguità?
Evidentemente, una volta commesso un errore, i dignitari ecclesiastici hanno
qualche difficoltà ad ammetterlo.
Ma per comprendere quanto sia assurda l’idea che le espressioni
valtortiane come “Dice Gesù”, “Vedo” ed altre simili che introducono i dettati
e le visioni sarebbero solo “espedienti letterari” dell’autrice, proviamo a
vedere come sarebbe, ad esempio, l’incipit del Cap. VII dei Promessi sposi se
il capolavoro manzoniano fosse il risultato di una serie di visioni come quelle
valtortiane.
Mi si illumina la visione di un
frate che, dal vestito mi pare un cappuccino, il quale arranca per una viottola
storta e sassosa di un posto che non conosco, ma che mi ricorda vagamente
l’alta Lombardia. Mi sembra una persona decisa e mi pare di averlo già visto
nella visione avuta tre mesi fa del lazzaretto di Milano durante la peste,
quando mi sembrava sul punto di soccombere al morbo. Adesso invece il frate mi
pare in salute e agile. Si avvicina a una casetta modesta ma non troppo povera,
bussa ed entra. Ad attenderlo tre persone che da principio non distinguo bene
per la poca luce, ma che, se non erro, mi sembrano essere un giovane e una giovane,
fratello e sorella o fidanzati, non so.
Sono vestiti alla moda dei
contadini lombardi del Seicento, credo. C’è anche una donna più anziana che
potrebbe essere la madre di uno dei due, o di entrambi. Il mio interno
ammonitore mi dice che sono due promessi sposi, e che la promessa sposa è
insidiata da un prepotente signorotto del posto.
— La pace sia con voi, — dice il
frate, nell’entrare. — Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna
confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione.
Osservo grave delusione in tutti i
presenti, anche se non saprei dire se sperassero molto nel tentativo che il
frate è andato a compiere e del quale non comprendo bene lo scopo, ma mi è
comunque chiaro che il tentativo stesso non dev’essere andato a buon fine.
— Vorrei sapere, — grida,
digrignando i denti e alzando la voce, il giovane, presumibilmente un contadino
— vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere
che la mia sposa non dev’essere la mia sposa.
Il frate risponde con voce grave e
pietosa, e dalla sua risposta capisco che il giovane indignato si chiama Renzo:
— Povero Renzo! se il potente che
vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le
cose non anderebbero come vanno.
— Ha detto dunque quel cane, che
non vuole, perché non vuole?
— Non ha detto nemmen questo,
povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità,
dovessero confessarla apertamente.
— Ma qualcosa ha dovuto dire:
cos’ha detto quel tizzone d’inferno?
Il frate dà una lunga risposta che
l’emicrania mi ha impedito di comprendere perfettamente, anche per la
confusione che c’era in quel momento nella mia camera, con gente che andava e
veniva, e con la quale, per ordine del Divino Maestro, devo sempre esercitare pazienza.
Non posso quindi ripetere ciò che il frate ha detto perché sarebbero parole mie
e non quelle realmente pronunciate.
Mi pare comunque di capire che la
risposta del frate non tranquillizzi affatto il giovane, dato che l’insidiatore
della fanciulla sembra irremovibile.
Pronunciate parole di conforto e
promesse di aiuto, il frate esce in fretta e va, correndo, e quasi saltelloni,
giù per quella viottola storta e sassosa, per un motivo che non comprendo.
Forse teme di arrivare tardi al convento.
A questo punto mi cessa la visione
e tutto finisce.
Ed era ora, perché non ne posso
più. Infatti sono da ieri sera in preda ad un attacco cardiaco che mi ha
portato sull’orlo della tomba, la colonna vertebrale mi dà dolori atroci, come
pure le ovaie invase dal cancro. Oltre che all’emicrania, ho una spaventevole
nausea con capogiri che quasi mi levano di sentimento.
Lascio a lei, Padre Libroraptor,
la decisione su dove inserire questa visione. Poiché sono sola e la paralisi
non mi consente di prendere l’altro quaderno che si trova a tre metri da me,
non sono in grado di decidere.
Ma quale scrittore scriverebbe in questo modo nell’esporre una
storia inventata da lui stesso?
E non basta. Proviamo a immaginare dei Promessi Sposi scritti di
getto in questo modo, senza correzioni se non qualche rarissimo e infinitesimo
dettaglio di ortografia o di battitura a macchina.
Non basta ancora. Immaginiamo che siano stati scritti in molte
centinaia di brani sparsi, in un ordine di questo genere:
- Fra’ Cristoforo assiste gli appestati nel lazzaretto di
Milano,
- Il convito di Don Rodrigo,
- Renzo dal cugino Bortolo,
- La notte dell’Innominato,
- L’addio ai monti,
- Don Rodrigo si sveglia dopo un incubo e scopre di avere la
peste,
- La monaca di Monza costretta a farsi suora,
- I capponi di Renzo,
- Il Griso deruba il padrone ammalato e fugge,
- Il passaggio dei lanzichenecchi,
- Don Abbondio minacciato dai “bravi” se farà “quel tal
matrimonio”,
- L’osteria della Malanotte,
- Renzo decide che i suoi figli imparino a leggere e scrivere,
- Il carro dei monatti,
- La giovinezza dell’Innominato,
- Lo studio di Azzeccagarbugli,
- Quel ramo del lago di Como,
- La casa di Donna Prassede,
- Fra Cristoforo va a chiedere perdono al fratello dell’ucciso,
- Lucia riempie di noci la bisaccia di fra’ Galdino,
- eccetera eccetera.
E immaginate che, cucendo insieme lo spaventoso guazzabuglio di
centinaia e centinaia di frammenti, scritti di getto senza un piano e in un
tale disordine, per la maggior parte in disastrate condizioni di sfollamento in
piena guerra, con i topi passeggianti sulle travi del soffitto (tali erano
infatti le condizioni a S. Andrea di Còmpito), ad opera di un autore paralitico
e non particolarmente dotto, venga fuori, completo, coerente ed elegante, il
romanzo dei Promessi sposi. Provate pure ad immaginare che il romanzo contenga
descrizioni del cielo stellato di parecchi secoli fa le quali, ricostruite
mediante effemeridi computerizzate, risultino esatte, e che inoltre contenga
descrizioni di città e palazzi di cui si è perduta memoria, e che vengono
riscoperti grazie alle dettagliate e precise descrizioni del romanzo stesso.
Pur di negare l’origine ispirata dell’Opera, i dottori difficili (perfino
oggi!) non esitano a sfidare il ridicolo.
L’ordine
mirabile de L’Evangelo, scaturito da
un disordine inestricabile, i caratteri stilistici dell’Opera, e tutta una
serie di altre prove astronomiche, naturalistiche ed archeologiche
schiaccianti, sono tali da escludere senza il minimo dubbio l’invenzione
autonoma, anzi da escludere l’invenzione umana, a parte qualche marginale
notazione della grande veggente, notazione ben individuata e isolata dalle
parti ispirate con frasi come: “Adesso parlo io”. Spesso
la Valtorta riconosce luoghi che ha già visto in precedenti visioni che cronologicamente vengono dopo nel racconto che, come abbiamo
visto, venne composto tutt’altro che in ordine.
Più di una volta, Maria Valtorta dà prova di una
semplicità davvero disarmante, unita però ad un’assoluta lucidità, che sono del
tutto incompatibili con qualunque inganno, illusione o autoinganno. Anzitutto
va ricordata l’importantissima dichiarazione di lei: “Assicuro sulla mia
coscienza che quanto scrivo, perché lo vedo e lo odo, lo scrivo mentre lo vedo
e lo odo.” (17 settembre 1945, Cap. 361, corsivo aggiunto). Affermazione in
netta e insanabile contraddizione con l’imposizione ai cattolici
di non ritenere l’Opera “di origine soprannaturale”, tenuto anche conto che
Maria Valtorta non poteva, con mezzi umani, assolutamente conoscere neppure la
minima parte di quello che scrive.
La visione a Betsaida della profezia sul martirio degli
apostoli (1° dicembre 1945, Cap. 347) suggerisce alla Valtorta una comica
osservazione sul grande numero di discepoli: “Ormai tenerli a mente è un bel
pasticcio.” E infatti spesso le capita di riconoscerne uno di vista ma di non
ricordarne il nome. Non è esattamente quello che accadrebbe a uno scrittore che
inventa.
Si aggiunga a ciò la perfetta e già ricordata
descrizione delle posizioni degli astri negli anni della vita di Gesù, nonché
di numerosi centri urbani, come Hazor (scavato nel 1955, quando l’Opera era
finita da anni) o di edifici come il palazzo di Lazzaro (individuato dopo la
morte di lei) o il passaggio segreto nelle mura del Tempio (pure scoperto dopo
la morte delle veggente). Si consideri che i dettati e le visioni si
susseguivano a ritmo serrato, per cui Maria Valtorta non avrebbe potuto
prepararsi neppure se avesse voluto, e comunque non le era possibile, essendo
priva di preparazione specifica e di testi adeguati (che comunque non avrebbero
potuto riportare cose che, all’epoca, erano ignorate da tutti), avendo fatto
solo modesti studi tecnici. La lista delle enormi conoscenze che umanamente non
avrebbe potuto avere è lunghissima, ma aggiungiamo ancora un solo esempio: come
poteva la Valtorta conoscere i coccodrilli nani del fiume Nahal Tainninim,
estinti due secoli fa e noti solo a pochissimi specialisti?
E il tutto mentre era impossibilitata ad alzarsi dal
letto; inoltre la maggior parte de L’Evangelo
non venne scritta neppure a Viareggio, ma nelle spaventose condizioni dello
sfollamento a S. Andrea di Còmpito.
Ebbene, tutte queste schiaccianti prove non sono ancora nulla.
C’è un’altra ben più importante prova dell’autenticità e dell’origine celeste
dell’Opera valtortiana. Sono le innumerevoli conversioni ottenute da chi l’ha
letta. Prima ancora della pubblicazione, solo per aver letto solo qualcuno dei
quaderni, un’intera famiglia atea e comunista ritornò alla Fede. Analoga la
conversione di una coppia di hippies i quali, venuti a contatto con L’Evangelo come mi è stato rivelato, si
sposarono, ebbero cinque figli e presero a condurre una vita morale. E gli
esempi possono moltiplicarsi.
E non è ancora nulla. Cosa può esserci ancora? La riluttante
testimonianza del demonio stesso costituisce la prova regina che non ammette
replica. Se un volume valtortiano viene posto a contatto con un posseduto, il
diavolo, attraverso il posseduto stesso, urla: “Toglietemelo! Brucia! Brucia!”
Sorge legittima la domanda: perché il Divino Maestro ci
ha dato questa preziosa rivelazione privata? Perché Egli vede quello che noi
non siamo in grado di vedere. Naturalmente
Egli parla chiaro e con autorità, senza ricorrere a dotte citazioni e infinite
sottigliezze come gli scribi (Marco 1, 22), e tanto meno insegue “consenso” e
“convergenza”, ma proclama apertamente che il distacco di rami dalla Chiesa non
è che il risultato del “morso di Satana”
(L’Evangelo, Cap. 203), e insegna che
“da
Dio ha libello di ripudio la sinagoga per i suoi troppo orrendi delitti” (L’Evangelo, Cap. 638). Affermazioni poco ecumeniche, naturalmente,
ma il Divino Maestro onnisciente vede che “maiora premunt”, vede che si stanno
perdendo le anime, ed ammonisce: “voi state perendo e vi voglio salvare” (L’Evangelo, Cap. 652).
L’Evangelo era infatti destinato
principalmente ai direttori di anime, per offrire una migliore base alle loro
predicazioni e al loro insegnamento, per compensare per i troppi pulpiti vuoti
o male occupati. E forse, se quel dono celeste fosse stato preso sul serio
dalla gerarchia, al Concilio Vaticano II e nel disastroso postconcilio molte
cose sarebbero state diverse.
Emilio Biagini
Continua il revival valtortiano...
RispondiElimina"Ratzinger sente il bisogno di una excusatio non petita, vulgo “giustificazione non richiesta” dei giudizi precedenti, poiché scrive: “non si ritiene opportuna la diffusione e raccomandazione di un’Opera la cui condanna non fu presa [da intendersi “decisa”] alla leggera ma dopo ponderate motivazioni” [che non spiega e che nessuno ha mai spiegato]".
Invece è stato spiegato benissimo sin dal primo provvedimento. Ratzinger non ha la minima intenzione di confutarlo altro che excusatio. Il poema può suscitare convinzioni errate nei più deboli. Non a caso i promotori della Valtorta sono anche promotori di Medjugorje
Benedetto XVI non ha letto l'opera come invece fece Pio XII. Ebbe sí fiducia sull'operato del Sacro Ufficio (e le loro motivazioni che dovevano essere ben ponderate...per il carico loro affidato) Succede poi che il Libro 'Nero' è stato tolto... come inopportuno?
RispondiElimina