Nota a margine
del saggio "Unita e cattolica" di Paolo Pasqualucci
Dalla Tradizione
cattolica l'amor di Patria
Il
disamore e il disprezzo della Patria unita, aberranti stati d'animo diffusi
dagli attivisti del Pci, partito internazionalista e filotitino, sceso in
guerra contro la legge divina e in special modo contro il quarto e il quinto
comandamento, sono le cause remote del degrado morale e dello scisma politico,
che avviliscono e tormentano la società
italiana, laica, adulta e democratica.
Nel magnifico
saggio "Unita e cattolica",
ingente e appassionato contributo alla rinascita dell'amore
per la Patria unita, scritto dal filosofo Paolo Pasqualucci e pubblicato a cura
di di Giuseppe Parlato nelle edizioni Nuova cultura, è difesa la verità storica
intorno alla quale potrebbe destarsi la volontà di interrompere la spirale
delle faziosità.
Opportunamente
Paolo Pasqualucci rammenta che "il Pci, che si concepiva come agente
della Rivoluzione Mondiale nell'interesse dell'Unione Sovietica, ha condotto una
battaglia culturale e politica implacabile contro l'idea stessa di nazione, di
Patria, di cultura e tradizioni nazionali e contro lo Stato, oltre che contro
la religione".
Disgraziatamente
l'avversione dei comunisti al patriottismo (si rammenta, al proposito,
l'indegna gazzarra organizzata dagli agit-prop per umiliare i rifugiati
istriani e fiumani) è penetrata nell'area del contraffatto ecumenismo e del
disorientamento cattolico, ora
destando la snobistica tendenza a
condividere l'ostilità di Antonio Gramsci nei confronti della nostra tradizione
ora suggerendo antistoriche nostalgie
anti-unitarie, di segno papalino e/o borbonico.
A
sinistra il risultato dello smarrimento cattolico nel labirinto gramsciano fu
l'internazionalismo a sfondo irenistico e utopistico, che indusse il sindaco carismatico
di Firenze, Giorgio Lapira, a fare concessioni alla mentalità settaria dei
comunisti - ad esempio a definire i militanti di destra "discendenti di
Caino".
Emblema
dell'insensibilità lapiriana al patriottismo fu l'inflazione di gemellaggi
fiorentini con città estranee se non irriducibili alla cultura italiana, Fez,
ad esempio. In tali scelte era evidente l'influsso della suggestione generata
da un cosmopolitismo anti-identitario.
A
destra la preconcetta avversione all'Italia unita ispirò la nostalgia
anacronistica e disinformata degli stati pre-unitari e l'immotivato rifiuto
dell'identità nazionale.
Misura
della confusione anti-unitaria circolante nella destra cattolica fu la veemente
sollevazione dei filo borbonici contro il progetto di Francisco Elias de Tejada
y Spinola, finalizzato alla celebrazione dell'impresa risorgimentale [1].
In un
tumultuoso convegno svolto in Roma nel maggio del 1977, De Tejada, per evitare
l'incombente scissione, fu costretto a ritoccare la sua tesi e a condividere (a
denti stretti e contro la sua convinzione) l'opinione che l'unità d'Italia
doveva essere ripensata mediante l'assimilazione del progetto borbonica [2].
Dopo la
prematura morte di De Tejada, la passione antirisorgimentale non incontrò
ostacoli all'esercizio di una critica talora rozza e sempre indirizzata
all'anacronismo e all'inavvertita assimilazione del disprezzo nutrito dai
protettori occidentali (liberali) della patria italiana.
In una
corrente tradizionalista si manifestò addirittura una bizzarra opinione -
lampante esempio di trasbordo ideologico inavvertito - che attribuiva
all'anti-italiano Winston Churchill il titolo di salvatore della civiltà.
Di qui
l'incapacità, manifestata da una vasta frazione della scuola tradizionalista,
di comprendere che sul progetto anti-unitario, coltivato in nome della fedeltà
al Cattolicesimo, era surrettiziamente impresso il marchio della faziosità
comunista e della mitologia pseudo-ecumenica.
Inoltre
sotto il marchio dell'antifascismo era contrabbandato il progetto inteso alla
dissoluzione dello Stato italiano. Al proposito Pasqualucci rammenta che "l'antifascismo
si è macchiato di una colpa storica nei confronti degli italiani: ha
reintrodotto nel nostro Paese il particolarismo, nelle sue varie forme: le
regioni, i dialetti, l'ostilità per lo Stato unitario, il fazioso spirito di
partito, la mistica dell'autonomia. L'antifascismo non solo non ha risolto le
contraddizioni tra Democrazia e Nazione, che si era sanguinosamente aperta nel
primo dopoguerra, l'ha esasperata".
E'
dunque evidente che l'uscita della destra dallo zero metafisico in cui
l'hanno trascinata il rigetto del patriottismo e l'assimilazione inavvertita
dell'antifascismo di scuola comunista [3],
costituisce un evento impossibile, fino a che non sarà riveduta seriamente la
mitologia intorno all'Italia pre-unitaria e riletta - sulla traccia indicata da
De Tejada - la storia del risorgimento nazionale.
Convenientemente,
nell'introduzione al saggio di Pasqualucci, Parlato rammenta che durante il
Novecento, autorevoli pensatori, appartenenti a diverse scuole di pensiero,
hanno esaminato criticamente il Risorgimento ma la loro riflessione "di
alto contenuto storico e filosofico sulle modalità in cui si era realizzata l'unificazione
del Paese" non scendeva mai al livello della revisione viscerale:
"pur nella critica serrata, tali riflessioni, tuttavia, non hanno mai
messo in dubbio la validità dell'opzione unitaria. Poteva essere unificata
meglio l'Italia, d'accordo, ma un sano storicismo suggeriva che comunque così
era andata. Si poteva riformare - e si è anche tentato - ma non si poteva
negare l'evidenza".
Negli ultimi anni la
polemica dei tradizionalisti sull'unificazione della Penisola ha peccato
talvolta di irrealismo storico, esagerando (ad esempio) il ruolo della
massoneria o confondendo massoneria e anticlericalismo generico.
Al
riguardo Parlato sostiene, con sottile e pungente ironia, che la scolastica
antirisorgimentale "Non si è limitata a denunciare le manchevolezze
nell'unificazione ... ma piuttosto prende occasione dalle manchevolezze (spesso
presunte) per giungere alla conclusione che l'unificazione o non si sarebbe
dovuta fare, ovvero si sarebbe dovuta fare in maniera tanto diversa che non si
sarebbe potuta fare".
Se non
che la difesa dell'unità d'Italia oggi è giustificata specialmente
dall'inquietudine che desta l'involuzione liberista e globalista in atto
nell'Unione europea. Apprensione che aumenta quando si misura il consenso al
partito cosmopolitista inventato da Casaleggio, un occultista che non nasconde
l'ammirazione per il satanista Georges Gurdijeff.
Sulle
urgenti ragioni dell'unità d'Italia Pasqualucci formula un drastico ma puntuale
giudizio: "L'Unione europea che a prudente avviso di molti (quorun ego)
avrebbe dovuto restare elastica Comunità; questo Superstato militarmente
inesistente, frutto ibrido dell'Utopia e degli interessi di potenti élites
economico-finanziarie (basti pensare all'azzardata creazione di una moneta
unica senza avere un'economia unica e al liberalismo assoluto che lo anima);
ultra laico e anticristiano sia nei suoi princìpi fondamentali che in diverse
sue politiche, esercita, com'era inevitabile un'azione disgregante nei
confronti degli Stati nazionali".
Dal disarmo davanti al
laicismo rampante a Bruxelles ha infatti origine il sogno frazionista che
contempla l'appiattimento di un capolavoro della Provvidenza storica, quale è
l'Italia, in una catena o lega calvinista di regioni abitate da formaggiai e
fabbricanti di orologi a cucù [4].
Ai
nostalgici dell'Italia disunita, Pasqualucci ricorda amichevolmente che "di
fronte alla globalizzazione incalzante, con tutti i suoi mali, non dovrebbe
ognuno cercare di salvaguardare l'unità della Patria ... preoccupandosi
innanzitutto di instaurarvi l'ordinamento politico e morale che piace a
Dio?"
Pasqualucci
contrasta risolutamente l'umiliante utopia federalista: "L'unità
statale di una nazione è un bene. Lo è per tutti i popoli, quali che siano la
loro religione e il loro grado di civiltà. Non si capisce perché solo per noi
italiani non debba esserlo".
Di
conseguenza ridimensiona alcune leggende nere o bianche intorno al
risorgimento. Tanto per cominciare dimostra l'inconsistenza dei panegirici
intorno alle delizie dei piccoli regni e delle piccole repubbliche
pre-unitarie.
Oggetto
di brucianti umiliazioni l'Italia debole e frammentata doveva piegarsi
continuamente alle imperiose decisioni delle monarchie nazionali. "Nel
Seicento e nel Settecento, le diplomazie europee, perfezionando a forma quasi
d'arte una prassi ben anteriore, intrecciava sottilmente ed ipocritamente la
politica di potenza alle questioni dinastiche. Nel caso di piccoli Stati, come
quelli italiani, stabiliva con largo anticipo che cosa farne, quando i rispettivi
principi fossero morti senza eredi".
La macchia costituita
dal mortificante/disonorante potere esercitato dalle monarchie europee non
cancella i difetti, i deliri (l'utopia mazziniana, ad esempio) e le magagne
della classe politica, che ha attuato il risorgimento compiendo azioni spesso
censurabili.
Pasqualucci
non nasconde il "difetto d'origine" del risorgimento, e
riconosce che "l'aver dovuto ricorrere all'aiuto decisivo dello
Straniero nel 1859, sia pure per sconfiggere altri stranieri, ha sicuramente
pesato negativamente sulle vicende successive della nostra storia". Afferma
tuttavia che, in vista dell'emendazione del difetto d'origine, sarebbe
insensato "rimettere in discussione l'unità ed anzi distruggerla,
magari svuotandola dall'interno con riforme federaliste ad hoc". E più
avanti conclude: "Se l'Italia unita si è secolarizzata, bisogna
riconquistarla a Cristo, mantenendola unita".
Il saggio di
Pasqualucci, in definitiva, costituisce
un segnavia indispensabile al cammino degli italiani che non si
rassegnano a finire nelle dissolventi fornaci dell'europeismo e del
mondialismo.
Piero Vassallo
[1] Nel dicembre del 1976,
De Tejada aveva pubblicato un elogio della gloriosa impresa italiana nella
rivista "La Quercia", diretta da Pino Tosca.
[2] Sulla tradizione borbonica De Tejada nutriva
dubbi suggeriti dalla seria conoscenza dell'egemonia che cartesiani e
illuministi esercitavano nell'università e nella corte di Napoli. Durante un
convegno sulla teologia della storia, De Tejada rammentò la solitudine nella
quale era respinto il cattolico Vico dagli accademici napoletani.
[3] Il rifiuto dell'ideologia antifascista (fatte
salve le legittime critiche alla dittatura e alle modalità del suo esercizio)
nel dopoguerra fu dichiarato da Giorgio Del Vecchio, un filosofo che aveva
subito i danni contemplati nelle leggi antisemite del 1938. Riserve sulla
prassi dittatoriale sono manifestate anche da Pasqualucci.
[4] Non è inutile rammentare che i massimi
dirigenti della Lega anti-unitaria provengono dalle file del Pci.
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