L’affondamento delle due navi,
del tutto sconosciuto finora, fa indubbiamente impressione. Nel commentarlo, Garibaldi riporta il
pensiero dell’Autore, in questo modo:
“Gli anglo-americani, che avrebbero dovuto essere nostri alleati,
invece non esitarono a colare a picco, il 18 ottobre 1943, le navi etc.”. Ho sottolineato la frase che mi ha
colpito. Che significa “avrebbero dovuto
essere nostri alleati”? Lo erano o non
lo erano? Non lo erano né avrebbero
potuto esserlo, né tantomeno “dovuto”, perché l’avere di fatto il nemico
improvvisamente in comune con noi (che gli avevamo combattuto contro per tre
anni) non poteva esser di per sé motivo sufficiente per diventare nostri
“alleati”. Le navi al servizio dei
tedeschi dovevano esser affondate, quale che fosse il loro carico. L’armistizio
era stato firmato in segreto a Cassibile in Sicilia il 3 settembre e reso noto
all’improvviso l’8 settembre 1943 da Radio Algeri, con qualche giorno di
anticipo sulla probabile data prevista, ma senza alcun preavviso al nostro
governo. Fu per tutti un fulmine a ciel
sereno. Presi (colpevolmente) alla
sprovvista i nostri capi fuggirono verso l’unica parte d’Italia sgombra di
tedeschi e Alleati (il tacco dello stivale) abbandonando l’esercito e il governo
senza ordini, poiché il vago e frettoloso proclama di Badoglio si limitava ad
esortare a “resistere ad attacchi da ogni provenienza”, dopo aver deposto le
armi!
2. L’armistizio, come viene sempre
chiamato in Italia, era in realtà una resa incondizionata o a discrezione,
che ci metteva totalmente alla mercé del vincitore. Sarebbe bene chiamarlo per quello che
veramente era: “la resa, la
capitolazione”. All’estero, quando
capita, è ricordato così: “the capitulation, the surrender of Italy, the inconditional
surrender of Italy”, la nostra “resa incondizionata”. Questo forse potrebbe contribuire ad evitare
certi equivoci che, a quanto sembra, continuano a pesare sul significato di
quegli eventi. A Cassibile fu firmato
il cosiddetto “armistizio corto” perché di 12 articoli solamente; il 29
settembre a Malta quello “lungo”, perché di 44 articoli. Molto più duro del precedente, sottometteva
in pratica l’Italia all’insindacabile controllo politico, militare, economico
degli Alleati occupanti. D’ora in poi
l’Italia sarebbe stata governata da un AMGOT ossia da un Allied Military
Government of Occupied Territory, che avrebbe stampato anche moneta (le
famose, famigerate AM-Lire, quadrate), distruggendo in pratica la nostra
economia. Noi diventavamo un semplice “territorio
occupato”. Di “liberazione” dell’Italia non si parlava. Il concetto fu creato
in un secondo tempo, per ragioni di propaganda. Va ricordato, per la cronaca e
senza spirito di polemica, che la R.S.I. riuscì ad evitare il marco di occupazione
(che i generali tedeschi volevano imporci) e a mantenere la lira. Le clausole dell’armistizio “lungo” erano
così dure che Badoglio ottenne che non venissero pubblicate. Sembra che egli abbia protestato, ovviamente
invano, per questa durezza. Gli Alleati
installarono poco dopo la loro Commissione Alleata di Controllo (Allied
Control Commission), che esercitò l’effettivo governo dell’Italia sino al
31 dicembre 1945. Sembra che non tutte
le clausole dell’armistizio fossero applicate alla lettera o lo fossero allo
stesso modo nel tempo ma questo incideva poco sul quadro generale. L’esistenza di un governo italiano non era
inizialmente prevista, ma divenne politicamente necessaria (per gli Alleati)
dopo che Mussolini, costretto da Hitler, fondò la R.S.I. al Nord, il 23
settembre del ‘43. Si poneva allora
l’esigenza della dichiarazione di guerra del “Regno del Sud” alla Germania.
Si poneva per ragioni politiche,
poiché gli Alleati non avevano bisogno di un nostro contributo militare
regolare mentre tornava loro più utile organizzare la guerra partigiana al
Nord, perché fonte (in teoria) di grossi grattacapi per i tedeschi (e
sicuramente di ulteriori divisioni tra gli italiani). Del resto, il nostro esercito non si era malamente
dissolto? Solo due o tre divisioni ci erano rimaste. Anche psicologicamente non potevano accettarci
come alleati, così, di colpo, facevano capire.
E che alleati potevamo mai essere, senza esercito e senza Stato? E poi, con tutti i non piccoli fastidi che
gli avevamo provocato, a partire dalla conquista dell’Etiopia, bisognava pur
impartirci una dura lezione, da non dimenticare (e ancor oggi non è stata dimenticata,
soprattutto dopo i capillari e sistematici massacri nelle “radiose giornate”
del ’45).
3. Gli inglesi ci detestavano e
non lo nascondevano. La loro propaganda di guerra non ci nominava mai durante
la guerra in Africa, se non quando ci arrendevamo. Aveva creato lo stereotipo dell’italiano
vigliacco, che non combatte, all’epoca delle loro iniziali grandi vittorie contro
Graziani (loro guerra di movimento nel deserto contro un esercito di appiedati,
che oltretutto aveva dimostrato di non saper usare i mezzi corazzati di cui
disponeva – disperdendoli tra la fanteria – e si trovava con anticarro che
rimbalzavano sui lenti ma massicci carri inglesi, i famosi Matilda). La realtà era diversa: dopo il disastro iniziale sotto il comando di
Graziani, gli italiani si erano ripresi e avevano partecipato attivamente alle
vittorie dell’Afrika Corps di Rommel, nonostante il loro armamento quasi
sempre inferiore e l’inferiore organizzazione, suonandogliele in alcune
occasioni anche da soli, agli inglesi (p.e. a Bir el Gobi, con i Giovani
Fascisti; a Tobruk, ad opera dei marò del San Marco, nel settembre
del 1942]). Qualcuno ha notato a ragione
che, bloccandoli assieme ai tedeschi per 35 mesi in Africa del Nord, campagna
che comunque gli inglesi non avrebbero vinto senza i rifornimenti americani e
l’intervento americano dall’Algeria, gli avevamo impedito di soccorrere
l’Estremo Oriente contro l’offensiva giapponese: avevano perso malamente
Singapore, una delle perle dell’impero e rischiato brutto in India, nazione
alla quale avevano dovuto promettere l’indipendenza. Da qui l’odio. Furono gli inglesi a sollevare per primi a
Jalta nel ’45 il problema dell’Alto Adige: volevano un referendum che lo
consegnasse all’Austria ma Stalin (che pur appoggiava tutte le pretese di Tito
contro di noi) si oppose, dicendo che sarebbe stato un inaccettabile premio al
“revanscismo tedesco”. Gli americani ci
disprezzavano più che odiarci: come
avevamo osato dichiarar loro guerra, subito dopo il proditorio attacco
giapponese? Per la superbia infinita di
quel popolo, convinto di essere L’Eletto della democrazia, che doveva insegnare
ed imporre a tutta la terra come forma di governo e di vita, la nostra
sconsiderata audacia andava duramente punita.
In effetti, l’errore di Mussolini, che si precipitò a dichiarar guerra
all’America quattro giorni dopo Pearl Harbour (l’11 dicembre 1941), a quanto
pare costringendo un riluttante Hitler a seguirlo nel medesimo giorno, ha
davvero dell’incredibile. Perché non
aspettare che fosse stato Roosevelt a dichiararla a noi? Non stava procedendo
da mesi, a forza di embargo, in quella direzione? Poco conta che la nostra dichiarazione di
guerra agli americani fosse in sostanza del tutto teorica, poiché l’Italia non
aveva certo i mezzi per far male al gigante americano. L’offesa era stata fatta ed andava duramente
punita. Si presentava inoltre
l’occasione di distruggere l’Italia unita e farla ritornare nella condizione
degli ultimi secoli: un comodo sito per
una catena di basi, necessarie a chi voleva installarsi nel Mediterraneo da
padrone.
4. Il 14 settembre 1943 quando la
situazione precipitò a Cefalonia, noi eravamo dunque per gli Alleati un nemico
appena vinto, il cui esercito ed anzi lo Stato stesso si erano per di più ignominiosamente
dissolti come neve al sole, nel giro di pochi giorni. La decisione di uscire dalla sciagurata guerra
era giusta, sembra che anche Mussolini ci pensasse da tempo; ma, anche tenendo
conto delle difficili circostanze, l’esecuzione da parte del Re e di Badoglio
non avrebbe potuto esser peggiore. Fatti
i suoi preparativi in segreto, il re avrebbe dovuto parlare alla Nazione (da
Roma o da una base militare vicina) prima del messaggio di Radio Algeri,
spiegare che ci eravamo arresi e che consentivamo ai tedeschi di ritirarsi
indisturbati, pronti a difenderci se ci avessero attaccati. Un proclama simile
a quello di re Michele di Romania, quasi un anno dopo. Comunque fosse andata a finire, si sarebbero
raggiunti due risultati: avremmo salvato
l’onore, anche se attaccati e sconfitti dai tedeschi; la nazione non si sarebbe
divisa, sarebbe stata praticamente tutta con il re.
Per restare al dramma di
Cefalonia: se avessero voluto, gli Alleati avrebbero potuto darci la copertura
aerea, che ci mancava del tutto, e l’aviazione fu nella circostanza decisiva
per la vittoria tedesca. Invece le loro forze le impegnarono per affondare le
due navi cariche di nostri prigionieri. Non
vollero aiutarci, dunque. Ma perché
avrebbero dovuto considerarsi “nostri alleati” e rischiare uomini e mezzi per
salvarci? Solo perché i tedeschi ci
sparavano addosso? Peggio per noi. La guerra è guerra. Avevamo voluto giocare alla grande potenza
senza averne i mezzi materiali e una classe politica all’altezza, pestando i
piedi a mezzo mondo? Adesso dovevamo
pagare il conto. Da quando esiste
l’umanità, questo conto si riassume in due parole: Vae Victis! Cefalonia non era di interesse strategico per
gli Alleati. Per la verità, nelle isole dell’Egeo, di rilevante interesse
strategico per gli inglesi, questi ultimi mandarono quasi subito dopo l’8
settembre uomini e mezzi ad aiutarci nella resistenza ai tedeschi e a cercare
di prender possesso delle isole, nostro possedimento (non colonia). Soprattutto a Lero la lotta fu lunga e
dura. L’ammiragio Mascherpa si comportò
egregiamente nell’organizzarla, al contrario dell’ammiraglio Campioni che, a
Rodi, si arrese subito, mal valutando la situazione, quando avrebbe potuto
ancora resistere per diversi giorni. Ma
l’appoggio inglese, oltre che minato dal rancore e dalla diffidenza verso di
noi, fu limitato e insufficiente, con pochi mezzi, anche a causa
dell’opposizione americana. Eisenhower,
comandante in capo degli Alleati, vietò di impegnarsi perché non considerava al momento strategicamente
essenziali le isole dell’Egeo.
5. La resa incondizionata non
comportava ovviamente la cobelligeranza, che fu riconosciuta all’Italia
solo dopo che Badoglio dichiarò guerra alla Germania, il 13 ottobre del 1943. La
BBC precisò lo stesso giorno a tutto il
mondo che “lo stato dell’Italia sarebbe stato quello di un cobelligerante e non
di un alleato”. La dichiarazione venne
quando le pressioni alleate in questo senso erano diventate assai forti. Sembra che fosse soprattutto il re ad esser
contrario. Subito dopo l’8 settembre, di
fronte all’assalto tedesco, che si impossessava del territorio italiano in
spregio al diritto internazionale, e in modo spesso brutale, il governo
italiano superstite, pur ridottosi con esili strutture nelle quattro provincie
del tacco d’Italia, sarebbe stato perfettamente legittimato a dichiarare guerra
alla Germania. Sotto la spinta della
necessità, noi avevamo formalmente tradito l’alleanza (però tradito un pazzo
criminale come Hitler, che teneva nell’armadio il tremendo scheletro che poi
venne alla luce e del quale da qualche tempo si intuiva angosciosamente
l’esistenza) avendo (non diversamente da tutti gli altri alleati di Hitler)
trattato segretamente con il nemico per arrendersi: ma ci eravamo appunto
arresi e non avevamo rivolto le armi contro i tedeschi; arresi per uscire dalla
guerra non per farla alla Germania. Fu tuttavia
un errore aspettare ben 35 giorni prima di dichiarare guerra a Hitler. Tale dichiarazione, poco importa se
inizialmente teorica, sarebbe stata utile anche per i numerosi soldati italiani
che i tedeschi avevano catturato dopo l’8 settembre, in quanto avrebbero dovuto
esser considerati formalmente prigionieri di guerra. Si sarebbe dovuta farla subito, quella
dichiarazione, appena messo piede a Brindisi, incitando le truppe italiane
(superstiti) ad attaccare ovunque i tedeschi! Vittorio Emanuele III non fu mai
all’altezza della situazione, al contrario di quanto era avvenuto dopo
Caporetto quando, dimostrando giusto giudizio e sangue freddo, impose la tesi
della linea di resistenza al Piave e sul Grappa, contro chi voleva ritirarsi
addirittura al Mincio. Nel 1943 il re
aveva 74 anni, Badoglio 72[1].
Con la cobelligeranza non diventammo alleati
degli Alleati. Mai. Diventammo cobelligeranti, ossia autorizzati da loro
a combattere con loro lo stesso comune nemico, ma non alleati. Ci sopportavano
di mala grazia, lesinandoci gli armamenti e umiliandoci in tutti i modi,
soprattutto nella fase iniziale. Preferivano utilizzarci come lavoratori
militarizzati, sotto graduati di colore. E anche verso la fine della campagna,
non vollero mai un’armata italiana unitaria, anche se poi, nel loro bollettino finale,
riconobbero l’apporto delle nostre quattro divisioni: le nostre truppe le
tennero separate in “gruppi di combattimento” sottoposti a polacchi e
britannici. E alla fine, nel 1947, ci
trattarono in tutto e per tutto come nemici, come se avessimo sempre combattuto
contro di loro e non, invece, con loro contro lo stesso nemico per quasi un
anno e mezzo. E ci siamo anche fatti la
fama di quelli che astutamente traggono partito da tutte le situazioni,
riuscendo sempre a correre al soccorso del vincitore! Fama alquanto immeritata, bisognerebbe dire. La perfidia degli Alleati nei nostri
confronti consistette nell’accennare sistematicamente e pubblicamente al fatto
che, “se ci fossimo comportati bene”, le dure clausole dell’armistizio “lungo”
sarebbero state attenuate: dipendeva da
noi, dovevamo fidarci di loro…Invece il Trattato di pace fu durissimo. Le promesse non furono mantenute.
6. Il trattamento che subimmo con
il Trattato merita di esser ricordato.
Non fummo ammessi a discuterne alcuna clausola. Il Trattato fu negoziato esclusivamente dai
vincitori tra di loro, “arrivando ad un compromesso [tra i loro rispettivi
interessi] che finì con l’essere imposto all’Italia. La firma del trattato fu ostentatamente
considerata come una formalità. Con una procedura
completamente nuova i plenipotenziari maggiori lo firmarono separatamente,
ognuno a casa sua: Byrnes [americano]
dette prima l’esempio di firmarlo a Washington, poi peregrinò il testo
originale per Londra e per Mosca ed infine venne recapitato a Bidault
[francese], che si curò di presiedere la cerimonia della firma [10 febbraio
1947]. Mai i vinti furono così
scortesemente trattati […] Molto “stile nuovo” dunque nella nuova diplomazia[…]
Lo stile delle trattative mobili e raminghe e dei delegati civettuolmente
maleducati, aggressivi, violenti [quelli sovietici e ancor di più quelli
jugoslavi]. La foga è nella violenza verbale e nella minaccia, alla moda
sovietica, ma serve a far presa sugli alleati, perché i vinti, resisi a
discrezione, non possono far altro che accettare”[2].
C’è un altro particolare che
merita di essere ricordato. Quante
furono le potenze vincitrici che ci imposero il trattato? Furono ben v e n t i.
Forse Mussolini aveva dichiarato guerra a venti Stati? Certo che no.
Alle Potenze “Alleate” si associarono verso la fine della guerra altre
potenze, che il trattato chiama “Associate”, onde la formula spesso usata era: “Potenze Alleate e Associate”. Ma quali erano? Il lettore resterà di stucco nell’apprendere
che alla fine della guerra l’Italia scoprì di trovarsi in guerra con il Belgio,
l’Olanda, la Cecoslovacchia, la Polonia.
La Cina ce l’aveva dichiarata la guerra l’8 dicembre 1941, subito dopo
Pearl Harbour. Il Messico il 22 maggio
1942 ma non figurava tra le venti nazioni. Il governo italiano protestò
inutilmente per dover sottostare anche alla beffa dell’estensione del Trattato
agli ultimi arrivati, dai quali non aveva mai ricevuto dichiarazioni di guerra
e contro i quali mai erano stati posti in essere atti ostili da Mussolini. Ma le potenze alleate si rifiutarono sempre di
discutere con l’Italia ogni dichiarazione dell’Italia sul Trattato, fosse
protesta o proposta di modifica. Fummo a
volte ammessi a presentare il nostro punto di vista su alcune questioni ma mai
a discutere o a negoziare. Ci trattavano
come se avessimo avuto la rogna.
Questa la lista delle venti
Potenze, a futura memoria: L’Unione
delle Repubbliche Sovietiche Socialiste [oggi scomparsa], il Regno Unito
di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, gli Stati Uniti d’America, la Cina
[nazionalista, ridottasi poi all’isola di Formosa o Tai-wan], la
Francia, l’Australia, il Belgio, la Repubblica Sovietica Socialista di
Bielorussia [scomparsa], il Brasile, il Canadà, la Cecoslovacchia [scomparsa],
l’Etiopia, la Grecia, l’India, i Paesi Bassi, la Nuova Zelanda, la Polonia, la
Repubblica Sovietica Socialista d’Ucraina [scomparsa], l’Unione del Sud
Africa [poi ceduta agli africani], la Repubblica Federale di Jugoslavia
[scomparsa]. L’accanimento contro
di noi a qualcuno ha portato male.
7. Ben fece Benedetto Croce a
votar contro la ratifica dell’infame Trattato, meglio noto come Diktat,
dopo un bel discorso tenuto il 24 luglio 1947 alla Costituente: “Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e
l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro
potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata
[…] L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta
l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata,
rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile
se la prima condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo
orgoglio, e voi, o sapienti uomini del tripartito, o quadripartito
internazionale [le 4 grandi potenze vincitrici], l’offendete nel fondo più
geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu
possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva, avete accettato e
sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra contro la Germania,
e poi la avete, con pertinace volontà, esclusa dai negoziati della pace, dove
si trattava dei suoi più vitali interessi, impedendole di far udire le sue
ragioni e la sua voce e di suscitare a sé spontanei difensori in voi stessi o
tra voi? E ciò avete fatto per avere le
sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre
discordi cupidigie…”. Ribadiva quindi,
Croce, che: “necessaria e sovrastante a
tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri
da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio”. E cosa sarebbe accaduto, se il documento non fosse
stato ratificato dall’Italia? Niente,
sottolineava Croce, perché è già scritto nel documento stesso “che i suoi
dettami saranno messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione
in cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che
l’Italia ha buona ragione di non approvarlo”.
In ogni caso, quali che fossero le conseguenze, “non si può costringere
il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come
brutta, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di sé
stesso, che è indispensabile a un popolo come a un individuo, e che solo lo
preserva dall’abiezione e dalla corruttela”.
Concludeva, quindi, con queste profetiche parole: se approveremo il Diktat dei vincitori, “vi
dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in sé
stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha
prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”[3]. La ratifica fu approvata con 262 voti
favorevoli, 68 contrari, 80 astenuti. I
comunisti si astennero, i socialisti uscirono dall’aula. La Germania si arrese incondizionatamente tra
il 7 e l’8 maggio del ’45. Non ebbe mai
un trattato di pace.
Paolo Pasqualucci
[1]Sulla dichiarazione di guerra alla Germania molti,
anche in Italia, ironizzano ancor oggi, traendone spunto per l’ennesima denigrazione
del carattere italiano, all’insegna del “solo da noi accadono certe cose”. Ricordo che la Romania, dopo un colpo di
Stato fatto dal re, passò dall’altra parte, accettando le clausole di resa
incondizionata: dichiarò guerra alla Germania il 23 agosto 1944, venendo
riconosciuta come “cobelligerante”. La
Bulgaria fece lo stesso. La Finlandia fece
una pace separata con i russi, dopo aver preso l’impegno scritto che mai
avrebbe abbandonato la Germania, e dichiarò guerra a Hitler il 3 aprile 1945, a valere però dal 3
marzo 1945 (un unicum, credo). Anche
l’Ungheria, dopo trattative segrete iniziate per tempo con gli inglesi, aveva
accettato di arrendersi senza condizioni ma Hitler arrestò l’intera dirigenza e
mise al potere i nazisti locali (le sanguinarie Croci Frecciate). I finlandesi attaccarono poi le truppe
tedesche in ritirata dalla Lapponia. Romeni
e bulgari combatterono contro i tedeschi assieme ai russi, contribuendo la loro
parte alle gravi perdite che la Wehrmacht subì durante la sua penosa ritirata dalla
Grecia e dai Balcani meridionali, nella seconda metà del 1944. Paci separate e rovesciamenti di fronte
furono preceduti da trattative segrete con il nemico, com’è ovvio. I finlandesi avevano preso contatti segreti
con i russi in Svezia già nella primavera del 1942, quando le cose per loro
andavano bene, ben prima delle iniziative segrete italiane di resa. Non si capisce per qual motivo, per aver
fatto (anche noi con un potente nemico sui confini o già in casa) le stesse
cose degli altri o tentato di farle, noi italiani dobbiamo venir considerati “traditori”
e gli altri no.
[2] A. Giannini e G. Tomajuoli (a cura di), Il
Trattato di pace con l’Italia, Jandi Sapi, Milano – Roma, 1948, con Introduzione
e Note degli stessi, pp. 8-9 dell’Introduzione di Amedeo Giannini
(op. cit., pp. 7-60). Da questo testo ho tratto tutte le informazioni sulle
vicende del Trattato.
[3] B. Croce, Filosofia, Poesia, Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura
dell’autore, introduzione e apparati di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano,
1996, pp. 1405-1412. Votarono contro
anche V.E. Orlando e l’antifascista intransigente Leo Valiani, ebreo ungherese di Fiume di
sentimenti e cultura italiani, che si scagliò in particolare contro l’abbandono
della Venezia Giulia e di Fiume agli jugoslavi.
I comunisti si astennero più che altro in odio alla politica
filoamericana di De Gasperi, presidente del consiglio.
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