mercoledì 7 gennaio 2015

1943-1945 : NOI “COBELLIGERANTI” DEGLI ALLEATI E TUTTAVIA CONSIDERATI DA LORO E TRATTATI SEMPRE COME NEMICI (di Paolo Pasqualucci)

1. In data 30 dicembre 2014 Luciano Garibaldi ha presentato sul sito ‘Riscossa Cristiana’ il recente libro dell’avvocato e storico Massimo Filippini, “I Caduti di Cefalonia:  fine di un mito”, IBN Editore, 2014.  Il libro  produce documenti nuovi su quella tragedia.  Da essi apprendiamo che i soldati italiani caduti sarebbero stati 1600 e non 10.000, cioè quasi tutta la divisione.  Una cifra comunque alta.  Ma quanti furono gli italiani morti in combattimento  e quanti i fucilati per barbara rappresaglia?  Forse è impossibile accertarlo.  Apprendiamo inoltre che lo sfortunato generale Gandin, comandante della divisione, ebbe nella notte del 13 settembre l’ordine di resistere con le armi “at intimazione tedesca di disarmo at Cefalonia, Corfù et altre isole”.  La resistenza non fu quindi decisa da comitati di ufficiali e soldati che volevano combattere i tedeschi.  Infine apprendiamo che gli Alleati non esitarono ad affondare (suppongo con l’aviazione) le navi “Sinfra” e “Petrella” che “come essi ben sapevano” erano salpate da quelle isole con a bordo 1300 prigionieri italiani della Acqui.  La sventurata divisione non fu dunque completamente sterminata a Cefalonia:  ebbe 1600 caduti ad opera dei tedeschi, in parte  fucilati dopo la cattura, e 1300 caduti ad opera degli Alleati, freddamente mandati a picco con le navi che li trasportavano.  Il resto deve esser stato preso prigioniero dai tedeschi.   
L’affondamento delle due navi, del tutto sconosciuto finora, fa indubbiamente impressione.  Nel commentarlo, Garibaldi riporta il pensiero dell’Autore, in questo modo:  “Gli anglo-americani, che avrebbero dovuto essere nostri alleati, invece non esitarono a colare a picco, il 18 ottobre 1943, le navi etc.”.  Ho sottolineato la frase che mi ha colpito.  Che significa “avrebbero dovuto essere nostri alleati”?  Lo erano o non lo erano?   Non lo erano né avrebbero potuto esserlo, né tantomeno “dovuto”, perché l’avere di fatto il nemico improvvisamente in comune con noi (che gli avevamo combattuto contro per tre anni) non poteva esser di per sé motivo sufficiente per diventare nostri “alleati”.  Le navi al servizio dei tedeschi dovevano esser affondate, quale che fosse il loro carico. L’armistizio era stato firmato in segreto a Cassibile in Sicilia il 3 settembre e reso noto all’improvviso l’8 settembre 1943 da Radio Algeri, con qualche giorno di anticipo sulla probabile data prevista, ma senza alcun preavviso al nostro governo.  Fu per tutti un fulmine a ciel sereno.  Presi (colpevolmente) alla sprovvista i nostri capi fuggirono verso l’unica parte d’Italia sgombra di tedeschi e Alleati (il tacco dello stivale) abbandonando l’esercito e il governo senza ordini, poiché il vago e frettoloso proclama di Badoglio si limitava ad esortare a “resistere ad attacchi da ogni provenienza”, dopo aver deposto le armi! 
 2. L’armistizio, come viene sempre chiamato in Italia, era in realtà una resa incondizionata o a discrezione, che ci metteva totalmente alla mercé del vincitore.  Sarebbe bene chiamarlo per quello che veramente era:  “la resa, la capitolazione”.  All’estero, quando capita, è ricordato così:  “the  capitulation, the surrender of Italy, the inconditional surrender of Italy”, la nostra “resa incondizionata”.  Questo forse potrebbe contribuire ad evitare certi equivoci che, a quanto sembra, continuano a pesare sul significato di quegli eventi.   A Cassibile fu firmato il cosiddetto “armistizio corto” perché di 12 articoli solamente; il 29 settembre a Malta quello “lungo”, perché di 44 articoli.  Molto più duro del precedente, sottometteva in pratica l’Italia all’insindacabile controllo politico, militare, economico degli Alleati occupanti.  D’ora in poi l’Italia sarebbe stata governata da un AMGOT ossia da un Allied Military Government of Occupied Territory, che avrebbe stampato anche moneta (le famose, famigerate AM-Lire, quadrate), distruggendo in pratica la nostra economia.  Noi diventavamo un semplice “territorio occupato”. Di “liberazione” dell’Italia non si parlava. Il concetto fu creato in un secondo tempo, per ragioni di propaganda. Va ricordato, per la cronaca e senza spirito di polemica, che la R.S.I. riuscì ad evitare il marco di occupazione (che i generali tedeschi volevano imporci) e a mantenere la lira.  Le clausole dell’armistizio “lungo” erano così dure che Badoglio ottenne che non venissero pubblicate.  Sembra che egli abbia protestato, ovviamente invano, per questa durezza.  Gli Alleati installarono poco dopo la loro Commissione Alleata di Controllo (Allied Control Commission), che esercitò l’effettivo governo dell’Italia sino al 31 dicembre 1945.  Sembra che non tutte le clausole dell’armistizio fossero applicate alla lettera o lo fossero allo stesso modo nel tempo ma questo incideva poco sul quadro generale.  L’esistenza di un governo italiano non era inizialmente prevista, ma divenne politicamente necessaria (per gli Alleati) dopo che Mussolini, costretto da Hitler, fondò la R.S.I. al Nord, il 23 settembre del ‘43.  Si poneva allora l’esigenza della dichiarazione di guerra del “Regno del Sud” alla Germania. 
Si poneva per ragioni politiche, poiché gli Alleati non avevano bisogno di un nostro contributo militare regolare mentre tornava loro più utile organizzare la guerra partigiana al Nord, perché fonte (in teoria) di grossi grattacapi per i tedeschi (e sicuramente di ulteriori divisioni tra gli italiani).  Del resto, il nostro esercito non si era malamente dissolto? Solo due o tre divisioni ci erano rimaste.  Anche psicologicamente non potevano accettarci come alleati, così, di colpo, facevano capire.  E che alleati potevamo mai essere, senza esercito e senza Stato?  E poi, con tutti i non piccoli fastidi che gli avevamo provocato, a partire dalla conquista dell’Etiopia, bisognava pur impartirci una dura lezione, da non dimenticare (e ancor oggi non è stata dimenticata, soprattutto dopo i capillari e sistematici massacri nelle “radiose giornate” del ’45). 
3. Gli inglesi ci detestavano e non lo nascondevano. La loro propaganda di guerra non ci nominava mai durante la guerra in Africa, se non quando ci arrendevamo.  Aveva creato lo stereotipo dell’italiano vigliacco, che non combatte, all’epoca delle loro iniziali grandi vittorie contro Graziani (loro guerra di movimento nel deserto contro un esercito di appiedati, che oltretutto aveva dimostrato di non saper usare i mezzi corazzati di cui disponeva – disperdendoli tra la fanteria – e si trovava con anticarro che rimbalzavano sui lenti ma massicci carri inglesi, i famosi Matilda).  La realtà era diversa:  dopo il disastro iniziale sotto il comando di Graziani, gli italiani si erano ripresi e avevano partecipato attivamente alle vittorie dell’Afrika Corps di Rommel, nonostante il loro armamento quasi sempre inferiore e l’inferiore organizzazione, suonandogliele in alcune occasioni anche da soli, agli inglesi (p.e. a Bir el Gobi, con i Giovani Fascisti; a Tobruk, ad opera dei marò del San Marco, nel settembre del 1942]).  Qualcuno ha notato a ragione che, bloccandoli assieme ai tedeschi per 35 mesi in Africa del Nord, campagna che comunque gli inglesi non avrebbero vinto senza i rifornimenti americani e l’intervento americano dall’Algeria, gli avevamo impedito di soccorrere l’Estremo Oriente contro l’offensiva giapponese: avevano perso malamente Singapore, una delle perle dell’impero e rischiato brutto in India, nazione alla quale avevano dovuto promettere l’indipendenza.  Da qui l’odio.  Furono gli inglesi a sollevare per primi a Jalta nel ’45 il problema dell’Alto Adige: volevano un referendum che lo consegnasse all’Austria ma Stalin (che pur appoggiava tutte le pretese di Tito contro di noi) si oppose, dicendo che sarebbe stato un inaccettabile premio al “revanscismo tedesco”.  Gli americani ci disprezzavano più che odiarci:  come avevamo osato dichiarar loro guerra, subito dopo il proditorio attacco giapponese?  Per la superbia infinita di quel popolo, convinto di essere L’Eletto della democrazia, che doveva insegnare ed imporre a tutta la terra come forma di governo e di vita, la nostra sconsiderata audacia andava duramente punita.  In effetti, l’errore di Mussolini, che si precipitò a dichiarar guerra all’America quattro giorni dopo Pearl Harbour (l’11 dicembre 1941), a quanto pare costringendo un riluttante Hitler a seguirlo nel medesimo giorno, ha davvero dell’incredibile.  Perché non aspettare che fosse stato Roosevelt a dichiararla a noi? Non stava procedendo da mesi, a forza di embargo, in quella direzione?  Poco conta che la nostra dichiarazione di guerra agli americani fosse in sostanza del tutto teorica, poiché l’Italia non aveva certo i mezzi per far male al gigante americano.  L’offesa era stata fatta ed andava duramente punita.  Si presentava inoltre l’occasione di distruggere l’Italia unita e farla ritornare nella condizione degli ultimi secoli:  un comodo sito per una catena di basi, necessarie a chi voleva installarsi nel Mediterraneo da padrone.  
4. Il 14 settembre 1943 quando la situazione precipitò a Cefalonia, noi eravamo dunque per gli Alleati un nemico appena vinto, il cui esercito ed anzi lo Stato stesso si erano per di più ignominiosamente dissolti come neve al sole, nel giro di pochi giorni.  La decisione di uscire dalla sciagurata guerra era giusta, sembra che anche Mussolini ci pensasse da tempo; ma, anche tenendo conto delle difficili circostanze, l’esecuzione da parte del Re e di Badoglio non avrebbe potuto esser peggiore.  Fatti i suoi preparativi in segreto, il re avrebbe dovuto parlare alla Nazione (da Roma o da una base militare vicina) prima del messaggio di Radio Algeri, spiegare che ci eravamo arresi e che consentivamo ai tedeschi di ritirarsi indisturbati, pronti a difenderci se ci avessero attaccati. Un proclama simile a quello di re Michele di Romania, quasi un anno dopo.  Comunque fosse andata a finire, si sarebbero raggiunti due risultati:  avremmo salvato l’onore, anche se attaccati e sconfitti dai tedeschi; la nazione non si sarebbe divisa, sarebbe stata praticamente tutta con il re.
Per restare al dramma di Cefalonia: se avessero voluto, gli Alleati avrebbero potuto darci la copertura aerea, che ci mancava del tutto, e l’aviazione fu nella circostanza decisiva per la vittoria tedesca. Invece le loro forze le impegnarono per affondare le due navi cariche di nostri prigionieri.  Non vollero aiutarci, dunque.  Ma perché avrebbero dovuto considerarsi “nostri alleati” e rischiare uomini e mezzi per salvarci?  Solo perché i tedeschi ci sparavano addosso?  Peggio per noi.  La guerra è guerra.  Avevamo voluto giocare alla grande potenza senza averne i mezzi materiali e una classe politica all’altezza, pestando i piedi a mezzo mondo?  Adesso dovevamo pagare il conto.  Da quando esiste l’umanità, questo conto si riassume in due parole:  Vae Victis!  Cefalonia non era di interesse strategico per gli Alleati. Per la verità, nelle isole dell’Egeo, di rilevante interesse strategico per gli inglesi, questi ultimi mandarono quasi subito dopo l’8 settembre uomini e mezzi ad aiutarci nella resistenza ai tedeschi e a cercare di prender possesso delle isole, nostro possedimento (non colonia).  Soprattutto a Lero la lotta fu lunga e dura.  L’ammiragio Mascherpa si comportò egregiamente nell’organizzarla, al contrario dell’ammiraglio Campioni che, a Rodi, si arrese subito, mal valutando la situazione, quando avrebbe potuto ancora resistere per diversi giorni.  Ma l’appoggio inglese, oltre che minato dal rancore e dalla diffidenza verso di noi, fu limitato e insufficiente, con pochi mezzi, anche a causa dell’opposizione americana.  Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, vietò di impegnarsi  perché non considerava al momento strategicamente essenziali le isole dell’Egeo.
5. La resa incondizionata non comportava ovviamente la cobelligeranza, che fu riconosciuta all’Italia solo dopo che Badoglio dichiarò guerra alla Germania, il 13 ottobre del 1943. La BBC precisò lo stesso giorno a tutto  il mondo che “lo stato dell’Italia sarebbe stato quello di un cobelligerante e non di un alleato”.  La dichiarazione venne quando le pressioni alleate in questo senso erano diventate assai forti.  Sembra che fosse soprattutto il re ad esser contrario.  Subito dopo l’8 settembre, di fronte all’assalto tedesco, che si impossessava del territorio italiano in spregio al diritto internazionale, e in modo spesso brutale, il governo italiano superstite, pur ridottosi con esili strutture nelle quattro provincie del tacco d’Italia, sarebbe stato perfettamente legittimato a dichiarare guerra alla Germania.  Sotto la spinta della necessità, noi avevamo formalmente tradito l’alleanza (però tradito un pazzo criminale come Hitler, che teneva nell’armadio il tremendo scheletro che poi venne alla luce e del quale da qualche tempo si intuiva angosciosamente l’esistenza) avendo (non diversamente da tutti gli altri alleati di Hitler) trattato segretamente con il nemico per arrendersi: ma ci eravamo appunto arresi e non avevamo rivolto le armi contro i tedeschi; arresi per uscire dalla guerra non per farla alla Germania.  Fu tuttavia un errore aspettare ben 35 giorni prima di dichiarare guerra a Hitler.  Tale dichiarazione, poco importa se inizialmente teorica, sarebbe stata utile anche per i numerosi soldati italiani che i tedeschi avevano catturato dopo l’8 settembre, in quanto avrebbero dovuto esser considerati formalmente prigionieri di guerra.  Si sarebbe dovuta farla subito, quella dichiarazione, appena messo piede a Brindisi, incitando le truppe italiane (superstiti) ad attaccare ovunque i tedeschi! Vittorio Emanuele III non fu mai all’altezza della situazione, al contrario di quanto era avvenuto dopo Caporetto quando, dimostrando giusto giudizio e sangue freddo, impose la tesi della linea di resistenza al Piave e sul Grappa, contro chi voleva ritirarsi addirittura al Mincio.  Nel 1943 il re aveva 74 anni,  Badoglio 72[1].
 Con la cobelligeranza non diventammo alleati degli Alleati. Mai. Diventammo cobelligeranti, ossia autorizzati da loro a combattere con loro lo stesso comune nemico, ma non alleati. Ci sopportavano di mala grazia, lesinandoci gli armamenti e umiliandoci in tutti i modi, soprattutto nella fase iniziale. Preferivano utilizzarci come lavoratori militarizzati, sotto graduati di colore. E anche verso la fine della campagna, non vollero mai un’armata italiana unitaria, anche se poi, nel loro bollettino finale, riconobbero l’apporto delle nostre quattro divisioni: le nostre truppe le tennero separate in “gruppi di combattimento” sottoposti a polacchi e britannici.  E alla fine, nel 1947, ci trattarono in tutto e per tutto come nemici, come se avessimo sempre combattuto contro di loro e non, invece, con loro contro lo stesso nemico per quasi un anno e mezzo.  E ci siamo anche fatti la fama di quelli che astutamente traggono partito da tutte le situazioni, riuscendo sempre a correre al soccorso del vincitore!  Fama alquanto immeritata, bisognerebbe dire.  La perfidia degli Alleati nei nostri confronti consistette nell’accennare sistematicamente e pubblicamente al fatto che, “se ci fossimo comportati bene”, le dure clausole dell’armistizio “lungo” sarebbero state attenuate:  dipendeva da noi, dovevamo fidarci di loro…Invece il Trattato di pace fu durissimo.  Le promesse non furono mantenute.
6. Il trattamento che subimmo con il Trattato merita di esser ricordato.  Non fummo ammessi a discuterne alcuna clausola.  Il Trattato fu negoziato esclusivamente dai vincitori tra di loro, “arrivando ad un compromesso [tra i loro rispettivi interessi] che finì con l’essere imposto all’Italia.  La firma del trattato fu ostentatamente considerata come una formalità.  Con una procedura completamente nuova i plenipotenziari maggiori lo firmarono separatamente, ognuno a casa sua:  Byrnes [americano] dette prima l’esempio di firmarlo a Washington, poi peregrinò il testo originale per Londra e per Mosca ed infine venne recapitato a Bidault [francese], che si curò di presiedere la cerimonia della firma [10 febbraio 1947].  Mai i vinti furono così scortesemente trattati […] Molto “stile nuovo” dunque nella nuova diplomazia[…] Lo stile delle trattative mobili e raminghe e dei delegati civettuolmente maleducati, aggressivi, violenti [quelli sovietici e ancor di più quelli jugoslavi]. La foga è nella violenza verbale e nella minaccia, alla moda sovietica, ma serve a far presa sugli alleati, perché i vinti, resisi a discrezione, non possono far altro che accettare”[2].
C’è un altro particolare che merita di essere ricordato.  Quante furono le potenze vincitrici che ci imposero il trattato?  Furono ben  v e n t i.  Forse Mussolini aveva dichiarato guerra a venti Stati?  Certo che no.  Alle Potenze “Alleate” si associarono verso la fine della guerra altre potenze, che il trattato chiama “Associate”, onde la formula spesso usata era:  “Potenze Alleate e Associate”.  Ma quali erano?  Il lettore resterà di stucco nell’apprendere che alla fine della guerra l’Italia scoprì di trovarsi in guerra con il Belgio, l’Olanda, la Cecoslovacchia, la Polonia.  La Cina ce l’aveva dichiarata la guerra l’8 dicembre 1941, subito dopo Pearl Harbour.  Il Messico il 22 maggio 1942 ma non figurava tra le venti nazioni. Il governo italiano protestò inutilmente per dover sottostare anche alla beffa dell’estensione del Trattato agli ultimi arrivati, dai quali non aveva mai ricevuto dichiarazioni di guerra e contro i quali mai erano stati posti in essere atti ostili da Mussolini.  Ma le potenze alleate si rifiutarono sempre di discutere con l’Italia ogni dichiarazione dell’Italia sul Trattato, fosse protesta o proposta di modifica.  Fummo a volte ammessi a presentare il nostro punto di vista su alcune questioni ma mai a discutere o a negoziare.  Ci trattavano come se avessimo avuto la rogna
Questa la lista delle venti Potenze, a futura memoria:  L’Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste [oggi scomparsa], il Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, gli Stati Uniti d’America, la Cina [nazionalista, ridottasi poi all’isola di Formosa o Tai-wan], la Francia, l’Australia, il Belgio, la Repubblica Sovietica Socialista di Bielorussia [scomparsa], il Brasile, il Canadà, la Cecoslovacchia [scomparsa], l’Etiopia, la Grecia, l’India, i Paesi Bassi, la Nuova Zelanda, la Polonia, la Repubblica Sovietica Socialista d’Ucraina [scomparsa], l’Unione del Sud Africa [poi ceduta agli africani], la Repubblica Federale di Jugoslavia [scomparsa].  L’accanimento contro di noi a qualcuno ha portato male.
7. Ben fece Benedetto Croce a votar contro la ratifica dell’infame Trattato, meglio noto come Diktat, dopo un bel discorso tenuto il 24 luglio 1947 alla Costituente:  “Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata […]  L’Italia, dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e così purgata e purificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli altri popoli.  Ma come si può credere che ciò sia possibile se la prima condizione di ciò è che un popolo  serbi la sua dignità e il suo legittimo orgoglio, e voi, o sapienti uomini del tripartito, o quadripartito internazionale [le 4 grandi potenze vincitrici], l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico che la stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima parte della guerra contro la Germania, e poi la avete, con pertinace volontà, esclusa dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi, impedendole di far udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare a sé spontanei difensori in voi stessi o tra voi?  E ciò avete fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi, per equilibrare le vostre discordi cupidigie…”.  Ribadiva quindi, Croce, che:  “necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio affidatoci dai nostri padri da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio”.  E cosa sarebbe accaduto, se il documento non fosse stato ratificato dall’Italia?  Niente, sottolineava Croce, perché è già scritto nel documento stesso “che i suoi dettami saranno messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che l’Italia ha buona ragione di non approvarlo”.  In ogni caso, quali che fossero le conseguenze, “non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta, e questo con l’intento di umiliarlo e di togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile a un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela”.  Concludeva, quindi, con queste profetiche parole:  se approveremo il Diktat dei vincitori, “vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in sé stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”[3].   La ratifica fu approvata con 262 voti favorevoli, 68 contrari, 80 astenuti.  I comunisti si astennero, i socialisti uscirono dall’aula.  La Germania si arrese incondizionatamente tra il 7 e l’8 maggio del ’45.  Non ebbe mai un trattato di pace.

Paolo Pasqualucci



[1]Sulla dichiarazione di guerra alla Germania molti, anche in Italia, ironizzano ancor oggi, traendone spunto per l’ennesima denigrazione del carattere italiano, all’insegna del “solo da noi accadono certe cose”.  Ricordo che la Romania, dopo un colpo di Stato fatto dal re, passò dall’altra parte, accettando le clausole di resa incondizionata: dichiarò guerra alla Germania il 23 agosto 1944, venendo riconosciuta come “cobelligerante”.  La Bulgaria fece lo stesso.  La Finlandia fece una pace separata con i russi, dopo aver preso l’impegno scritto che mai avrebbe abbandonato la Germania, e dichiarò guerra a Hitler il 3 aprile 1945, a valere però dal 3 marzo 1945 (un unicum, credo).   Anche l’Ungheria, dopo trattative segrete iniziate per tempo con gli inglesi, aveva accettato di arrendersi senza condizioni ma Hitler arrestò l’intera dirigenza e mise al potere i nazisti locali (le sanguinarie Croci Frecciate).   I finlandesi attaccarono poi le truppe tedesche in ritirata dalla Lapponia.  Romeni e bulgari combatterono contro i tedeschi assieme ai russi, contribuendo la loro parte alle gravi perdite che la Wehrmacht subì durante la sua penosa ritirata dalla Grecia e dai Balcani meridionali, nella seconda metà del 1944.  Paci separate e rovesciamenti di fronte furono preceduti da trattative segrete con il nemico, com’­è ovvio.  I finlandesi avevano preso contatti segreti con i russi in Svezia già nella primavera del 1942, quando le cose per loro andavano bene, ben prima delle iniziative segrete italiane di resa.  Non si capisce per qual motivo, per aver fatto (anche noi con un potente nemico sui confini o già in casa) le stesse cose degli altri o tentato di farle, noi italiani dobbiamo venir considerati “traditori” e gli altri no. 
[2] A. Giannini e G. Tomajuoli (a cura di), Il Trattato di pace con l’Italia, Jandi Sapi, Milano – Roma, 1948, con Introduzione e Note degli stessi, pp. 8-9 dell’Introduzione di Amedeo Giannini (op. cit., pp. 7-60). Da questo testo ho tratto tutte le informazioni sulle vicende del Trattato.
[3] B. Croce, Filosofia, Poesia, Storia.  Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, introduzione e apparati di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano, 1996, pp. 1405-1412.  Votarono contro anche V.E. Orlando e l’antifascista  intransigente  Leo Valiani, ebreo ungherese di Fiume di sentimenti e cultura italiani, che si scagliò in particolare contro l’abbandono della Venezia Giulia e di Fiume agli jugoslavi.  I comunisti si astennero più che altro in odio alla politica filoamericana di De Gasperi, presidente del consiglio.

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