Autorevole
e dotto filosofo della politica, attivo nella Link Campus University in
Roma, dove propone una spregiudicata rilettura dei testi imbarazzanti di
Giovanni Gentile, Emilio Betti e Carl Schmitt, Francesco Petrillo affronta da
diversi anni lo spinoso problema posto dalla latitanza del concetto di
statualità nel dibattito sulla costituzione europea.
La
refrattarietà europea al concetto ha origine, come è stato dimostrato da
autorevoli osservatori, dalla strutturale incapacità dei politicanti ad
accordarsi sui presupposti della
identità culturale del vecchio continente.
Di
conseguenza, la importante opera di Petrillo, Europa senza statualità,
in questi giorni uscita dai torchi della prestigiosa casa editrice di Marco
Solfanelli in Chieti, propone ai legislatori e ai politologi europei un excursus
capace di assumere, quale preambolo del dibattito, la alterazione/mutilazione
del concetto di stato da parte della cultura post-moderna.
Al proposito
Petrillo rammenta le tesi del compianto professore Gianfranco Miglio sugli
errori diffusi dalla politologia contemporanea: accentramento del potere, che
ha prevalso rispetto al principio di divisione dei poteri, mancato rispetto
della pluralità delle rappresentanze, partitocrazia.
Viste
tali anomalie, l'individuazione di un solido fondamento della costituzione
europea, secondo Petrillo, dipende dalla confutazione delle tesi che
considerano fonte del federalismo la scienza politica anglosassone e americana,
un sistema che è, pertanto, "avulso dalle concettualizzazioni topiche
del pensiero politico europeo continentale, tanto da potere considerare netta
la cesura tra federalismo e dottrina dello Stato".
Quale
preambolo a una via d'uscita dall'invadente e soffocante ideologia federalista
di stampo anglosassone e americano, ideologia al potere nella mente gregaria
dei federalisti, Petrillo osa proporre la filosofia di Giovanni Gentile, "molto
trascurata, purtroppo, per mere ragioni ideologiche, dagli studiosi italiani,
spesso troppo legati ad una esterofilia teoretica di maniera".
Ora fondamento della
politologia di Gentile è l'assioma, secondo cui "Non è la nazionalità
che crea lo Stato, ma lo stato che crea (suggella e fa essere) la
nazionalità".
La ragione di una tale
scandalosa proposta risiede nella concezione gentiliana della statualità,
che si propone, senza paura di rischiare lo smarrimento nelle tortuosità del
postmoderno, come una continua fenomenologia dei valori: "E' lo stato
stesso che fenomenologicamente si trasforma quale valore morale, capace di
conformarsi alla società umana nel corso della storia. ... lo stare insieme nel
lungo periodo non può essere garantito dall'accentramento dei valori ma
piuttosto dal necessario riconoscimento che bisogna dare alla dispersione
centrifuga dei valori".
Quale guida a un
cammino finalizzando ad attraversare indenni e superare in via definitiva il
conflitto senza fine tra rivoluzione e reazione, Petrillo propone infine
l'opera del Beato roveretano Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), un autore che
fu altamente stimato da Giovanni Gentile.
Rosmini,
secondo Petrillo, ha indicato la via al regolamento del rapporto tra ideale e
reale, "la ricerca che avanti a tutte le altre propone a se stessa la
giuridica filosofia, nella peculiare accezione rosminiana di
diritto/dovere".
Rosmini
non fu un reazionario, ma un pensatore cattolico capace di trarre le debite
conclusioni dagli errori, che hanno ispirato i protagonisti della rivoluzione
francese.
Rosmini
è il fondatore della scuola politica, che concepisce la risposta
all'illuminismo e alla rivoluzione francese nel rispetto delle dovute distanze
dall'errore assolutista e gallicano, dai quali, lo ha dimostrato Francisco
Elias de Tejada, ebbe origine la rivolta francese contro la Chiesa di
Roma.
Il
pensiero rosminiano, interpretato magistralmente da autori quali Michele
Federico Sciacca, Maria Adelaide Raschini e Pier Paolo Ottonello, si rivela
estraneo a quella sterile controrivoluzione che è alimentata dal sogno codino
di compiere un passo indietro, nella direzione dell'assolutismo e, ultimamente,
verso la politica totalizzante.
Pier
Paolo Ottonello ha dimostrato che “Soltanto
Rosmini ha compreso in modo esaustivo il nucleo più profondo dell’assolutizzazione
hegeliana del teoretico come al tempo stesso conclusione della modernità e
radice nichilistica della diaspora moderna come deflagrazione a catena di scissioni, accomunate dalla
pseudodialettica - sofisticamente nichilistica – razionalismo-irrazionalismo,
ovvero scientismo-dogmatismo, che quindi progressivamente mette allo scoperto
le piaghe che si moltiplicano entro i percorsi tutti delle
scienze, così come
quelli delle esistenze
singole, della società, della storia” [1].
Il
pensiero del filosofo roveretano, d'altra parte, è la fonte
dell'interpretazione gentiliana delle Insorgenze antigiacobine quali preamboli
del Risorgimento e la risposta ai diritti dell'uomo, tentata perfino da
Giuseppe Mazzini, il quale, nel 1860, licenzierà l'opuscolo dal rosminiano
titolo Dei doveri dell'uomo.
Opportunamente
Petrillo segnala l'originalità e la fecondità della politologia rosminiana:
"poiché il principio fondamentale giuridico è da ricondursi
necessariamente ad una morale universale, obbligo dell'uomo verso il bene
oggettivo - quindi dovere dell'uomo verso il diritto soggettivo di ciascun
essere umano - esso può essere soltanto azione partecipata dell'oggettività
morale, cioè del dovere morale. In tal senso, il diritto dell'individuo-persona
si fonda sul dovere, su un dovere necessariamente originario".
Petrillo precisa che
nel pensiero rosminiano il dovere non ha origine politica ma giuridica: "La
distanza con le filosofie post-rivoluzionarie francesi diventa, in tal senso,
abissale". Di conseguenza il diritto della persona precede la legge
"perché fondato su un obbligo che precede l'obbligo politico: l'obbligo
verso la morale universale".
Naturalmente
alla riflessione rosminiana sulla morale non partecipano gli attuali
rappresentanti dell'Europa laica, che incensa il primato dell'economia.
Ai
lombrosiani rappresentanti della chiacchiera inutile e stucchevole non si può
proporre un pensiero, come quello di Rosmini, non convertibile nel fruscio
della carta moneta. Non si può trascinare la meschina avidità in un
ragionamento inteso a superare il meschino egoismo e la sordida avarizia. La
cultura europea oggi ha una desolata, squallida figura. La ragione politica,
per sopravvivere, deve dimenticare la meschinità in atto a Bruxelles.
Piero Vassallo
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