martedì 6 gennaio 2015

IL SETTIMO SIGILLO: Un grande esempio del male dovuto alla dea Arte (di Piero Nicola)

Tra le cause dell’incredulità suscitata quasi insensibilmente e perciò rovinosamente, l’Arte occupa un posto elevato. Ci sono opere e autori idolatrati come maggiori di Dio. L’ateismo, il paganesimo, l’eresia vengono ammessi all’onor del mondo, ma a nessuno è concesso di abbattere quanto è stato consacrato dalla critica letteraria e dall’assenso popolare; ora soprattutto che l’Indice delle cattive composizioni è caduto nell’oblio e poiché un disdegno unanime attraversa il ricordo per sputare sulla censura operata dalla Chiesa e dallo Stato.
  Il cinema, mezzo di globale divulgazione, ha compiuto penetrazioni indelebili nelle anime, in primis incidendo suggestioni ammirate e indulgenti nei più colti, in maestri ritenuti cattolici. Ma possono costoro restare fedeli apprezzando opere venate di empietà senza accusarle?
  Tra le pellicole a carattere religioso più celebri e imperiture, citate ad ogni occasione e riproposte, ho scelto Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Che sia un capolavoro dell’arte cinematografica non sarei d’accordo. Quel regista figlio di pastore luterano, forse diede prove migliori, più lucide, delle sue indubbie abilità di narratore mediante la macchina da presa. Ad ogni modo, si dà per certo che la migliore rappresentazione è impotente a riscattare un falso contenuto. Anzi, essa serve su un vassoio prezioso la menzogna come fosse l’ambrosia degli dei. 
  Ho voluto rivedere la pellicola, uscita nel 1956, consapevole che chi si assume il compito del commento ha il dovere dell’obiettività, il dovere di chiarire dove la rappresentazione sia veridica e dove ingannevole; ho scrutato le scene con freddezza, cosciente che non dovevano sviarmi l’ammirazione estetica né il pregiudizio, che dovevo guardarmi dal trovare ciò che non c’è sotto gli adombramenti.
  Se non avessi individuato, sotto la vernice del bell’effetto e dell’intelligenza, l’errore e ancor più la contraffazione della Chiesa, se non avessi veduto il sottile discredito gettato su Cristo in un lavoro capace di confondere quelli che lo ricordano o che volessero ripassare il film, se non mi si fosse presentato l’obbligo di prevenirli, così come a suo tempo fecero i giornali diocesani e credo, l’Osservatore Romano, mi sarei guardato dal mettere bocca.
  Accettata la finzione del Cavaliere crociato che gioca, a più riprese, una partita a scacchi con la Morte per resisterle e - dirà poi - per avere il tempo di compiere un’azione utile; accettate le visioni mistiche del saltimbanco e attore girovago, che non si dimostra pio e tanto meno santo; in tutte le sequenze, alcune davvero inaccettabili, un solo gesto del Cavaliere sembra onorare la Fede. Al termine della vicenda, egli ammette la necessità dell’esistenza di Dio e chiede misericordia essendo venuta l’ora di morire; a quel punto, nella generale assenza di adempimenti effettivamente cristiani dei suoi compagni che trapassano con lui nell’aldilà.
  Durante il viaggio di ritorno al proprio castello, sulla strada per Elsinore (Danimarca), egli non pratica né testimonia cosa che possa preludere al riacquisto della fede certa, ripropone invece le angosce e i dubbi sui Novissimi, sull’esistenza stessa del Creatore, con argomentazioni che paiono stringenti.
  La prima rapida inquadratura lo mostra nell’atteggiamento di preghiera a mani giunte, su una spiaggia deserta. E subito dopo gli appare la Morte, determinata a ghermirlo. Egli la invita a una sfida sulla scacchiera, non essendo ancora disposto a uscire dalla vita, quantunque affermi che il suo spirito sarebbe pronto.
  Gli interrogativi immediati o successivi si affollano. La Morte chi è? Non dipende essa dal Signore? E con essa quale prova di intelligenza, quale vincita al gioco che l’allontani? Ne vengono risposte assurde, irreligiose. Egli ha pregato, ma in che modo il suo spirito adesso sarebbe pronto, giacché rimane in balia del dubbio e della crisi spirituale? Questioni irrisolte.
  Infatti, giunto a una chiesa, si avvicina al confessionale dove premette di non riuscire a liberarsi accusandosi, tanta è la sua aridità interiore, la mancanza di carità che lo tiene. Avrebbe bisogno di percepire Dio tangibilmente. Ma nulla viene opposto, né ora né in seguito, a questo errore teologico. Dio è per lui un travaglio; pretenderebbe che si manifesti; ascolta la tentazione di preferirvi il nulla. Sente l’inutilità della propria vita passata, rinnegando perciò la missione in Terra Santa e, poiché il confessore si rivela essere ancora la Morte, qui, giustifica la  richiesta della proroga con l’intenzione di compiere un’azione proficua.
  Dunque, desolazione nel luogo consacrato, desolazione sullo stato signorile, desolazione, come vedremo, estesa al supposto realismo storico d’altri eventi e personaggi, e contraddizione quando, ritrovando la sua sposa nel maniero, il Cavaliere le risponderà di non essere pentito di quello che fece. Il mutato sentimento risulta troppo stanco.
  Lungo i trasferimenti da un luogo all’altro, il debole signore che, per contrasto, conserva la nobile figura conferitagli dalla nascita e la grande croce sul petto, sopporta con nessuna o con blanda reazione le parole incredule e blasfeme dello scudiero: uomo vigoroso, idoneo ad attirare la simpatia comportandosi da difensore degli oppressi.
  Segue l’incontro del Cavaliere con la processione dei flagellanti, penitenti in occasione d’una pestilenza sterminatrice, e quindi, con la famigliola dei girovaghi, che costituisce l’unica nota ottimistica, di segno contrario a quello del diffusa miseria morale, ma altrettanto poco convincente.
  Alla donna accampata, madre d’un bel figlioletto, il nobiluomo confida il suo tormento, rievoca il suo sposalizio che fu idillico e in seguito gravemente turbato dalla fede, la quale pesò sugli sposi al pari d’una condanna.
  Sicché la vita di questi poveri artisti appare felice e, per lui, da custodire come qualcosa in cui credere. Però il marito si adatta a recitare nel teatrino ambulante la parte del becco, la cui moglie civetta con un terzo attore travestito da gallo. Alla locanda, il marito subisce le angherie teppistiche di chi spregia i commedianti, sotto gli sguardi divertiti e le risa dei borghesi.
  Quest’uomo piuttosto vile e d’aspetto innocente, che si rifà raccogliendo un braccialetto caduto a uno dei persecutori e lo regala alla sua candida compagna, come lei non avvicina sacerdoti, non recita devozioni. A che gli varrà l’apparizione della Madonna e vedere la Morte intenta a disputare la partita a scacchi, e staccarsi allora dalla compagnia del nobiluomo, scampando così, con i suoi, alla fine destinata agli altri che lo seguono, e vederli infine trascinati dalla nera Signora in una sorta di danza macabra? La pace attuale e la salvezza futura di questa coppia ben assortita e in armonia d’affetti appaiono naturali, al di fuori dalla canonica religiosità. Alla sua finale visione, dal suo carro di Tespi, il veggente si limita a osservare che quei morti condotti e danzanti “vanno verso un altro mondo ignoto”, senza distinzione! Mentre sua moglie continua garbatamente a non prenderlo sul serio.
  Riprendiamo il Crociato a cavallo. Ad una sosta nel bosco, che attraversano per abbreviare il tragitto, sopraggiunge, scortata dai soldati, la carretta su cui viene menata al supplizio la strega: una graziosa ragazzina da cui traspare bontà e martirio. Egli, che l’ha già interrogata di sfuggita al villaggio, torna a chiederle se ha visto il diavolo, cerca di avere un contatto con lui tramite lei, sperando di ottenere da lui una notizia di Dio. Ella risponde di mostrare il demonio nei propri occhi, ma egli non vi trova che l’effetto dello spavento e della sofferenza.
  Quindi al castello, avendo dato lo scacco matto e venuta a riscuotere la vincita, la Morte - salutata dal gentiluomo come persona di riguardo - preleva la compagnia inclusa la fedele castellana. Lei, che al desco frugale prende a leggere il brano dell’Apocalisse sul Settimo sigillo (il cui nesso con la storia riesce ermetico), e gli altri sono inspiegabilmente accomunati al destino del signore, senza che intervenga pensiero di sacramenti, senza preghiere, tranne quella da me rilevata all’inizio, rivolta a un Dio assai vago dal maggiore protagonista. Assistiamo all’attonita espressione della nobildonna, a un’ultima superba ribellione dello scudiero contro “l’oscurità in cui siamo avvolti”, allo sgomento della sua ancella, al tentativo di scagionarsi d’un fabbro, alla compunzione della sua consorte, datasi ad una scappata insieme al donnaiolo terzo attore, quello acconciato da gallo sulla scena.
  L’idea anticattolica del lavoro emerge dovunque. E non si può invocare l’oscurità del periodo rievocato, la forzata parzialità e l’accidentalità di qualsiasi narrazione che non sia storia generale e documentata. Intendo dire che è inammissibile l’esclusione di ogni testimonianza di vera Religione, sia del clero sia dei laici. Viceversa e l’uno e gli altri sono, per Bergman, soggetti prevaricatori, oggetto di disprezzo, altrimenti smarriti.
  Il pittore che adorna con scene macabre le pareti della chiesa fa il paio con lo scudiero sarcastico e compiaciuto del suo ateismo. La processione dei flagellanti dà un triste spettacolo di fanatismo. Il bieco predicatore, che arresta il corteo per ammonire gli astanti, scaglia crudeli e impietosi annunci di morte imminente recata dalla peste giustiziera. Un ex dottore teologo, di quelli che promossero la Crociata, è colui che spoglia i cadaveri dei loro monili e che si diverte a tormentare l’attore alla locanda. Ovunque corre la voce di una prossima fine del mondo, artatamente propalata dai chierici. Qua e là, morti e moribondi disperati, privi di sacra sepoltura e di conforti religiosi. La strega adolescente brucia avendo nello sguardo l’orrore del vuoto che l’aspetta. Non c’è un prete o un monaco vero, veritiero nelle parole e nelle azioni. Sono tutti dipinti nella parte di profittatori e alimentatori della superstizione.
  E la nostra cultura si è pasciuta, con scarse riserve, di questa mistura miserabile e abbagliante!


Piero Nicola

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