Tra le cause dell’incredulità suscitata quasi
insensibilmente e perciò rovinosamente, l’Arte
occupa un posto elevato. Ci sono opere e autori idolatrati come maggiori di
Dio. L’ateismo, il paganesimo, l’eresia vengono ammessi all’onor del mondo, ma
a nessuno è concesso di abbattere quanto è stato consacrato dalla critica
letteraria e dall’assenso popolare; ora soprattutto che l’Indice delle cattive composizioni
è caduto nell’oblio e poiché un disdegno unanime attraversa il ricordo per
sputare sulla censura operata dalla Chiesa e dallo Stato.
Il cinema, mezzo di globale divulgazione, ha
compiuto penetrazioni indelebili nelle anime, in primis incidendo suggestioni ammirate e indulgenti nei più
colti, in maestri ritenuti cattolici. Ma possono costoro restare fedeli
apprezzando opere venate di empietà senza accusarle?
Tra le pellicole a carattere religioso più celebri
e imperiture, citate ad ogni occasione e riproposte, ho scelto Il settimo sigillo di Ingmar Bergman.
Che sia un capolavoro dell’arte cinematografica non sarei d’accordo. Quel
regista figlio di pastore luterano, forse diede prove migliori, più lucide,
delle sue indubbie abilità di narratore mediante la macchina da presa. Ad ogni
modo, si dà per certo che la migliore rappresentazione è impotente a riscattare
un falso contenuto. Anzi, essa serve su un vassoio prezioso la menzogna come
fosse l’ambrosia degli dei.
Ho voluto rivedere la pellicola, uscita nel
1956, consapevole che chi si assume il compito del commento ha il dovere
dell’obiettività, il dovere di chiarire dove la rappresentazione sia veridica e
dove ingannevole; ho scrutato le scene con freddezza, cosciente che non
dovevano sviarmi l’ammirazione estetica né il pregiudizio, che dovevo guardarmi
dal trovare ciò che non c’è sotto gli adombramenti.
Se non avessi individuato, sotto la vernice
del bell’effetto e dell’intelligenza, l’errore e ancor più la contraffazione
della Chiesa, se non avessi veduto il sottile discredito gettato su Cristo in
un lavoro capace di confondere quelli che lo ricordano o che volessero
ripassare il film, se non mi si fosse presentato l’obbligo di prevenirli, così
come a suo tempo fecero i giornali diocesani e credo, l’Osservatore Romano, mi sarei guardato dal mettere bocca.
Accettata la finzione del Cavaliere crociato
che gioca, a più riprese, una partita a scacchi con la Morte per resisterle e -
dirà poi - per avere il tempo di compiere un’azione utile; accettate le visioni
mistiche del saltimbanco e attore girovago, che non si dimostra pio e tanto
meno santo; in tutte le sequenze, alcune davvero inaccettabili, un solo gesto
del Cavaliere sembra onorare la Fede. Al termine della vicenda, egli ammette la
necessità dell’esistenza di Dio e chiede misericordia essendo venuta l’ora di
morire; a quel punto, nella generale assenza di adempimenti effettivamente cristiani
dei suoi compagni che trapassano con lui nell’aldilà.
Durante il viaggio di ritorno al proprio
castello, sulla strada per Elsinore (Danimarca), egli non pratica né testimonia
cosa che possa preludere al riacquisto della fede certa, ripropone invece le
angosce e i dubbi sui Novissimi, sull’esistenza stessa del Creatore, con
argomentazioni che paiono stringenti.
La prima rapida inquadratura lo mostra
nell’atteggiamento di preghiera a mani giunte, su una spiaggia deserta. E
subito dopo gli appare la Morte, determinata a ghermirlo. Egli la invita a una
sfida sulla scacchiera, non essendo ancora disposto a uscire dalla vita,
quantunque affermi che il suo spirito sarebbe pronto.
Gli interrogativi immediati o successivi si
affollano. La Morte chi è? Non dipende essa dal Signore? E con essa quale prova
di intelligenza, quale vincita al gioco che l’allontani? Ne vengono risposte
assurde, irreligiose. Egli ha pregato, ma in che modo il suo spirito adesso sarebbe
pronto, giacché rimane in balia del dubbio e della crisi spirituale? Questioni
irrisolte.
Infatti, giunto a una chiesa, si avvicina al
confessionale dove premette di non riuscire a liberarsi accusandosi, tanta è la
sua aridità interiore, la mancanza di carità che lo tiene. Avrebbe bisogno di
percepire Dio tangibilmente. Ma nulla viene opposto, né ora né in seguito, a
questo errore teologico. Dio è per lui un travaglio; pretenderebbe che si
manifesti; ascolta la tentazione di preferirvi il nulla. Sente l’inutilità
della propria vita passata, rinnegando perciò la missione in Terra Santa e,
poiché il confessore si rivela essere ancora la Morte, qui, giustifica la richiesta della proroga con l’intenzione di
compiere un’azione proficua.
Dunque, desolazione nel luogo consacrato,
desolazione sullo stato signorile, desolazione, come vedremo, estesa al supposto
realismo storico d’altri eventi e personaggi, e contraddizione quando,
ritrovando la sua sposa nel maniero, il Cavaliere le risponderà di non essere
pentito di quello che fece. Il mutato sentimento risulta troppo stanco.
Lungo i trasferimenti da un luogo all’altro,
il debole signore che, per contrasto, conserva la nobile figura conferitagli
dalla nascita e la grande croce sul petto, sopporta con nessuna o con blanda
reazione le parole incredule e blasfeme dello scudiero: uomo vigoroso, idoneo
ad attirare la simpatia comportandosi da difensore degli oppressi.
Segue l’incontro del Cavaliere con la
processione dei flagellanti, penitenti in occasione d’una pestilenza
sterminatrice, e quindi, con la famigliola dei girovaghi, che costituisce
l’unica nota ottimistica, di segno contrario a quello del diffusa miseria morale,
ma altrettanto poco convincente.
Alla donna accampata, madre d’un bel
figlioletto, il nobiluomo confida il suo tormento, rievoca il suo sposalizio
che fu idillico e in seguito gravemente turbato dalla fede, la quale pesò sugli
sposi al pari d’una condanna.
Sicché la vita di questi poveri artisti
appare felice e, per lui, da custodire come qualcosa in cui credere. Però il
marito si adatta a recitare nel teatrino ambulante la parte del becco, la cui
moglie civetta con un terzo attore travestito da gallo. Alla locanda, il marito
subisce le angherie teppistiche di chi spregia i commedianti, sotto gli sguardi
divertiti e le risa dei borghesi.
Quest’uomo
piuttosto vile e d’aspetto innocente, che si rifà raccogliendo un braccialetto
caduto a uno dei persecutori e lo regala alla sua candida compagna, come lei
non avvicina sacerdoti, non recita devozioni. A che gli varrà l’apparizione
della Madonna e vedere la Morte intenta a disputare la partita a scacchi, e
staccarsi allora dalla compagnia del nobiluomo, scampando così, con i suoi,
alla fine destinata agli altri che lo seguono, e vederli infine trascinati
dalla nera Signora in una sorta di danza macabra? La pace attuale e la salvezza
futura di questa coppia ben assortita e in armonia d’affetti appaiono naturali, al di fuori dalla canonica religiosità.
Alla sua finale visione, dal suo carro di Tespi, il veggente si limita a
osservare che quei morti condotti e danzanti “vanno verso un altro mondo
ignoto”, senza distinzione! Mentre sua moglie continua garbatamente a non
prenderlo sul serio.
Riprendiamo il Crociato a cavallo. Ad una
sosta nel bosco, che attraversano per abbreviare il tragitto, sopraggiunge,
scortata dai soldati, la carretta su cui viene menata al supplizio la strega: una
graziosa ragazzina da cui traspare bontà e martirio. Egli, che l’ha già
interrogata di sfuggita al villaggio, torna a chiederle se ha visto il diavolo,
cerca di avere un contatto con lui tramite lei, sperando di ottenere da lui una
notizia di Dio. Ella risponde di mostrare il demonio nei propri occhi, ma egli
non vi trova che l’effetto dello spavento e della sofferenza.
Quindi al castello, avendo dato lo scacco
matto e venuta a riscuotere la vincita, la Morte - salutata dal gentiluomo come
persona di riguardo - preleva la compagnia inclusa la fedele castellana. Lei,
che al desco frugale prende a leggere il brano dell’Apocalisse sul Settimo
sigillo (il cui nesso con la storia riesce ermetico), e gli altri sono
inspiegabilmente accomunati al destino del signore, senza che intervenga
pensiero di sacramenti, senza preghiere, tranne quella da me rilevata
all’inizio, rivolta a un Dio assai vago dal maggiore protagonista. Assistiamo all’attonita
espressione della nobildonna, a un’ultima superba ribellione dello scudiero contro
“l’oscurità in cui siamo avvolti”, allo sgomento della sua ancella, al
tentativo di scagionarsi d’un fabbro, alla compunzione della sua consorte,
datasi ad una scappata insieme al donnaiolo terzo attore, quello acconciato da
gallo sulla scena.
L’idea anticattolica del lavoro emerge
dovunque. E non si può invocare l’oscurità del periodo rievocato, la forzata
parzialità e l’accidentalità di qualsiasi narrazione che non sia storia
generale e documentata. Intendo dire che è inammissibile l’esclusione di ogni
testimonianza di vera Religione, sia del clero sia dei laici. Viceversa e l’uno
e gli altri sono, per Bergman, soggetti prevaricatori, oggetto di disprezzo,
altrimenti smarriti.
Il pittore che adorna con scene macabre le
pareti della chiesa fa il paio con lo scudiero sarcastico e compiaciuto del suo
ateismo. La processione dei flagellanti dà un triste spettacolo di fanatismo.
Il bieco predicatore, che arresta il corteo per ammonire gli astanti, scaglia
crudeli e impietosi annunci di morte imminente recata dalla peste giustiziera.
Un ex dottore teologo, di quelli che promossero la Crociata, è colui che
spoglia i cadaveri dei loro monili e che si diverte a tormentare l’attore alla
locanda. Ovunque corre la voce di una prossima fine del mondo, artatamente
propalata dai chierici. Qua e là, morti e moribondi disperati, privi di sacra
sepoltura e di conforti religiosi. La strega adolescente brucia avendo nello
sguardo l’orrore del vuoto che l’aspetta. Non c’è un prete o un monaco vero,
veritiero nelle parole e nelle azioni. Sono tutti dipinti nella parte di
profittatori e alimentatori della superstizione.
E la nostra cultura si è pasciuta, con scarse
riserve, di questa mistura miserabile e abbagliante!
Piero Nicola
Nessun commento:
Posta un commento