Presentata dai membri di una venerante
scolastica, la domanda di ammissione dell'opera evoliana al sovrano
santuario/editoriale dei postmoderni, giace inevasa davanti all'esigente e
vigile porta antifascista della casa editrice Adelphi.
Di qui
il tentativo dei discepoli di allontanare da Evola la memoria dell'imbarazzante
passato fascista, razzista e neofascista. Un fatica sopportata con inflessibile
e speciale rigore dal professore Giovanni Sessa, avventizio discepolo e severo
spalmatore di bianchetto sulla memoria dei compromessi sottoscritti dal
maestro a scopo di lucro nero.
L'intento
dell'ineffabile Sessa è proporre un sognato mondo di Tradizione, "un'altra modernità", ovvero
"il riferimento ad un uomo non dimidiato e ad un mondo Altro e Alto,
rispetto al presente, muove in noi dal pensiero di Tradizione".
Il
progetto contempla un bagno nel fiume Lete, condizione richiesta per entrare,
epurati e vestiti di candore a-fascista, nel goloso giro della sinistra
corretta e illuminata dai maghi adelphiani.
Tanto è
che nel saggio A proposito di filosofia evoliana, pubblicato nel volume
Itinerari di tradizione, edito in questi giorni da Solfanelli in Chieti,
dei numerosi evoliani un tempo militanti nella defunta destra, da Sessa è
citato solamente il nome ripulito e correttamente iniziatico di Gianfranco de
Turris.
Silenziata
e cassata la memoria degli studiosi evoliani militanti a destra (Roberto
Melchionda, Renato Del Ponte, Pino Rauti, Clemente Graziani, ad esempio) che
pur hanno pubblicato scritti non superficiali (e apprezzati dal sulfureo
maestro).
Censurati
anche i nomi dei mistici fascisti sgraditi a Evola e ai suoi attuali
incensatori, i cattolici Niccolò Giani e Guido Pallotta, e citato Berto Ricci
sociale e anticlericale, un incensato nome che (forse) può passare, con uno
scappellotto, nella colonna degli assolti da Roberto Calasso.
L'epurazione
dei nomi imbarazzanti è accompagnata da Sessa da una interpretazione
finalizzata a mostrare l'attualità e la potabilità di Evola ovvero la sua
perfetta estraneità alla detestata tradizione cattolica e catto-fascista, di
cui è curiosamente/inspiegabilmente accusato il vescovo gnostico René
Guénon.
L'assegnazione
di un passaporto adelphiano al barone nero è, secondo Sessa,
giustificata dalla sua appartenenza alla modernità ultima ed estrema: "Evola
porta a radicale compimento ciò che era implicito nei presupposti
dell'idealismo: il suo intrinseco nichilismo".
Se non che il
tentativo evoliano di superare l'idealismo "resta all'interno della
dimensione volontaristica, soggettivistica, la cui matrice cristiana è
indubitabile. Le qualità dell'individuo assoluto assoluto sono quelle, sia pure
in un orizzonte immanentistico, che la tradizione ebraico-cristiana attribuisce
a Dio creatore".
Quale è dunque la vera
identità di Evola? Per uscire dal vicolo cieco, Sessa cita la sentenza
di Piero Di Vona, secondo cui si può concludere che in "Cavalcare la
tigre il distacco speculativo di Evola dal cristianesimo sembra aver raggiunto
il suo termine e il suo compimento"... Solo in un lungo percorso
speculativo, Evola riuscirà a lasciarsi alle spalle, crediamo in modo
definitivo".
Secondo Sessa il
distacco speculativo dal Cristianesimo implica il riconoscimento del qui ed ora
come assoluti. E al proposito cita un passo di Cavalcare la tigre, l'opera
in cui è visibile il raggiungimento del traguardo che Evola si era prefisso
negli anni venti: "Il reale è perciò vissuto in uno stato in cui non
c'è soggetto dell'esperienza né oggetto che venga sperimentato, che sta nel
senso di assoluta presenza".
A questo punto Sessa
propone una lettura dionisiaca di Cavalcare la tigre. Tale scelta
giustifica la cancellazione definitiva di Evola dall'elenco di suggeritori del
volontarismo e dell'eroismo a destra: "E non è l'indistinzione
logico-ontologica qui presente, l'esito ultimo della visione del mondo
dionisiaca: Non è questa accettazione piena e gioiosa del dato fenomenologico,
la perfetta riproduzione della visione greca?"
La visione greca
di cui parla Sessa coincide perfettamente con il cieco furore delle baccanti,
in processione con le teste delle loro vittime, che tanto esaltava il giovane
Nietzsche [1]. Vero è che Sessa cita in conclusione una
sentenza che precipita Evola nella melma dionisiaca, tante volte da lui
inutilmente deplorata: "In quanto fatti, sono senza un senso, una
finalità, una intenzione, proprio in quanto tali essi hanno un senso assoluto.
Così appare la realtà nella pura qualità dell'esser-cose-così-come-sono".
Ora il
delirio dionisiaco è il tratto caratteristico del pensiero evoliano. Lo ha
sostenuto, in base a una documentazione inoppugnabile, Roberto Dal Bosco,
l'autore del magnifico saggio - classica stroncatura - in cui si dimostra che
"Evola va riconosciuto come uno dei padri della cultura della
morte".
La missione di Evola,
peraltro, era "l'intossicazione delle parti attive, creative,
progettive della destra italiana".
Alterata e infine strozzata
la cultura della destra, sepolto sotto la frana il decerebrato partito di Fini,
agli evoliani non rimane altro che
bussare alla porta degli iniziati supremi ed esclusivi, degni
eredi e continuatori dei "maestri" tenebrosi (pensiamo al massone
Arturo Reghini, al grottesco René Guénon e al sulfureo Aleister Crowley) dai
quali Evola è stato istruito e guidato sulla via degli autodistruttori.
Piero Vassallo
[1] Cfr.: Joachim Köhler, “Nietzsche Il segreto di Zarathustra”, Rusconi, Milano 1994. Nelle
pagine di quest’opera d’ampio respiro, è ricostruito il cammino compiuto da
Nietzsche, nel tentativo di soffocare il lume intellettuale, affondandolo negli
atti dell’istinto sfrenato. Per definire
questa guerra, Nietzsche ricorre alla dialettica tra le due anime della Grecia
arcaica: l'anima tragica, dionisiaca, che obbedisce agli istinti, e l’anima
fittizia della religione, apollinea, che è disprezzata alla stregua di una décadence dall’istinto originario.
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