Come, proprio in un sito di
cattolici che vogliono esser fedeli alla Tradizione della Chiesa! Articolo
provocatorio, dunque! Certamente. Ed ecco la provocazione: ridateci Garibaldi,
però dalla parte nostra: un Garibaldi cattolico. Ma non è questa
un’autentica bestemmia? E chi l’ha detto? Adesso vi spiego.
Garibaldi non fu “feroce
bandito”, né “mercante di schiavi”, né “ladro di cavalli”, né strangolò la
moglie in cinta e moribonda [ohèi!] per sfuggire più rapidamente agli austriaci
che lo braccavano. Quest’ultima calunnia è nata da un equivoco, che certo
spirito di parte vuol ancor oggi mantenere. Anita Garibaldi morì spossata dalle
febbri, forse malariche, nella zona di Comacchio, nell’agosto del 1849, di
fronte a diversi testimoni, tra cui il medico che stava tentando di salvarla. Data
la situazione d’emergenza, fu seppellita in fretta e malamente, il corpo ritrovato
per caso dopo sei giorni da una ragazzina, che lo vide affiorare in parte dal
terreno. Un primo referto parlava di “morte da strangolamento”. Ma l’inchiesta
giudiziaria ordinata dalle stesse autorità pontificie accertò alla fine che era
deceduta di morte naturale per “febbre perniciosa” dopo un “breve eccesso
convulsivo” e che ciò che era sembrato strangolamento era dovuto, invece, al
piegamento del collo nella fossa mal scavata e dalla necrosi[1].
C’è una saggistica, dal taglio
“carismatico” più che cattolico, che da qualche tempo ama rinverdire i crudeli
quanto falsi stereotipi d’antan. Se il mito positivo di Garibaldi “eroe dei due
mondi” ignora del tutto i suoi anche gravi difetti – la tendenza al cesarismo,
la sua scarsa cultura, la sua scarsa comprensione della politica, l’anticlericalismo
feroce da massone convinto quel era - quello negativo del “feroce bandito” ignora
del tutto le sue indiscutibili qualità.
Cavour, che non lo amava perché
vedeva in lui uno spirito rivoluzionario che aborriva, disse tuttavia: “Dobbiamo
esser grati a Garibaldi perché ha riconciliato gli italiani con il mestiere
delle armi”. In effetti, nell’Italia tisica, malarica, rammollita,
incartapecorita ed inane del tempo, Garibaldi fu un vero capo militare. Combattente
nato, fu bravo generale e valoroso soldato. Disinteressato, indifferente al
denaro, onesto, con un forte senso dell’onore. Nella pratica delle guerre
rivoluzionarie in Sud America apprese a meraviglia l’arte della rapidità nei
movimenti, essenziale in battaglia, alla quale aggiunse la sua spiccata
tendenza all’offensiva, all’attacco diretto e risolutore, alla testa dei suoi
uomini. Sotto le mura di Roma, all’epoca della Repubblica Romana del 1849,
Garibaldi attaccò d’impeto i settemila uomini del corpo di spedizione francese
costringendoli ad una rapida fuga verso Civitavecchia. Sembra che sia stato
Mazzini, per ragioni politiche (a Parigi era al potere una Repubblica non meno
liberal-massonica della sua), a fermare Garibaldi, impedendogli di infliggere
al nemico una sconfitta totale e clamorosa. Dopodiché i francesi dovettero
impegnarsi a fondo, con un corpo di spedizione superiore ai 20.000 uomini e un
regolare parco d’assedio, per aver ragione (con forze nettamente superiori) di
Garibaldi e dei suoi.
La frase più famosa del Nizzardo
è sicuramente la seguente: “la guerra es la verdadera vida del hombre”. La
guerra gli piaceva: combattere, rischiare la vita, crescere in coraggio e disciplina,
nei propri confronti innanzitutto, virilmente. Ma mai per denaro, sempre per
una causa: la libertà dei popoli e in particolare di quello italiano. Libertà
ma anche uguaglianza, secondo lo spirito rivoluzionario e utopistico
dell’epoca. Combattere, che significa? non solo esser uccisi, significa anche
uccidere il nemico, che viene preso prigioniero solo se è rimasto
in vita. L’importante è combattere in modo leale, rispettando le leggi
dell’onore. Sì, Garibaldi riconciliò la gioventù italiana con il mestiere delle
armi: trascinava l’esempio di quest’uomo che, oltre a dimostrarsi abile,
rischiava sempre di persona, attaccando alla testa dei suoi uomini. Affascinava
con il suo coraggio personale e la coerenza tra vita e ideali, per certi
aspetti da autodidatta ma intessuti ad un patriottismo sincero, fede granitica
nella rinascita di un’Italia liberata dallo straniero e unificata. Ma
soprattutto attirava i giovani con l’esempio dell’uomo d’azione
disinteressato, che si batteva per un nobile ideale senza chiedere niente in
cambio.
A noi italiani d’oggi, allevati
nella pseudocultura del compromesso, della resa, del disfattismo, del
tornaconto personale, della pace a tutti i costi; nel “pacifismo” molle e
corruttore che imperversa in Italia, ma anche nel resto d’Europa, dal 1945 ad
oggi, l’elogio del Nizzardo per la guerra ci appare del tutto inconcepibile,
non è vero? Ci si ammanta di pubblico ed ostentato sconforto e ribrezzo al solo
pensiero del sangue e dei morti in battaglia e non si batte ciglio di fronte ai
milioni di aborti volontari che stanno distruggendo il sostrato etnico stesso
del popolo italiano e degli altri popoli europei, del tutto indifferenti ed
opachi di fronte alla sterminata distesa di quei minuti cadaveri, uomini e
donne in miniatura, già formati e innocenti, distrutti e gettati nei rifiuti. Non
temete, le loro anime, ce le ritroveremo tutte davanti il Giorno del Giudizio,
Dio renderà loro giustizia!
Non ci vorrebbe oggi un capo con
le qualità di Garibaldi, un condottiero, un trascinatore, che andasse
all’attacco alla testa dei suoi uomini, per risollevare le sorti gravemente
compromesse della nazione e della Chiesa? Sissignori, anche della Chiesa,
rincitrullita da mezzo secolo di “pacifismo ecumenico”, quello della
misericordia falsa e caramellosa che inghiotte sorridendo ogni sorta di
cammelli e dromedari, inaugurata dalle ereticali “aperture” del Vaticano II. Un
Garibaldi cattolico, voglio dire, capace di risvegliare gli uomini
italiani, e in particolare i giovani, dal loro letargo, scrollandoli da questa
loro vita senza ideali, senza scopo e senza speranza. Capace di guidare la c r
o c i a t a che i tempi imperiosamente esigono contro il nemico di sempre, il
mussulmano invasore e omicida, che ci sta puntando spavaldamente il coltello
alla gola, forte anche della pavidità dei Senzadio che malamente ci governano? Viva
Garibaldi, dunque, e che ne venga per volontà del Dio degli Eserciti uno
cattolico; un Capo che ci inciti e guidi alla lotta per la vera Fede con
la spada sguainata, diritti in faccia al nemico, sino a scorgere il bianco dei
suoi occhi!
Paolo Pasqualucci
[1] Per i particolari, vedi il documentato studio di
A. Possieri, Garibaldi, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 131-137. Garibaldi
diventò massone in Brasile, nel 1836. Sposò Anita a Montevideo in chiesa, il 26
marzo 1842, dopo che da circa due anni conviveva con essa, che già gli aveva
dato un figlio, Menotti. La donna era stata infelicemente sposata senza figli
ad un uomo che era sparito dalla sua vita poco prima che Garibaldi la
conoscesse, avendo dovuto fuggire al seguito di uno degli eserciti in
provvisoria ritirata nella zona, in quell’epoca di guerre e rivoluzioni
continue in America del Sud. Molto probabilmente era già morto quando i due
contrassero matrimonio. Garibaldi e la moglie erano ovviamente tutti e due
battezzati dalla nascita. Per questi particolari biografici, vedi: J. Ridley, Garibaldi,
Phoenix Press, London, pp. 88-93; 106-108.
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