giovedì 19 febbraio 2015

VIVA GARIBALDI! (di Paolo Pasqualucci)

Come, proprio in un sito di cattolici che vogliono esser fedeli alla Tradizione della Chiesa! Articolo provocatorio, dunque! Certamente. Ed ecco la provocazione: ridateci Garibaldi, però dalla parte nostra: un Garibaldi cattolico. Ma non è questa un’autentica bestemmia? E chi l’ha detto? Adesso vi spiego.
Garibaldi non fu “feroce bandito”, né “mercante di schiavi”, né “ladro di cavalli”, né strangolò la moglie in cinta e moribonda [ohèi!] per sfuggire più rapidamente agli austriaci che lo braccavano. Quest’ultima calunnia è nata da un equivoco, che certo spirito di parte vuol ancor oggi mantenere. Anita Garibaldi morì spossata dalle febbri, forse malariche, nella zona di Comacchio, nell’agosto del 1849, di fronte a diversi testimoni, tra cui il medico che stava tentando di salvarla. Data la situazione d’emergenza, fu seppellita in fretta e malamente, il corpo ritrovato per caso dopo sei giorni da una ragazzina, che lo vide affiorare in parte dal terreno. Un primo referto parlava di “morte da strangolamento”. Ma l’inchiesta giudiziaria ordinata dalle stesse autorità pontificie accertò alla fine che era deceduta di morte naturale per “febbre perniciosa” dopo un “breve eccesso convulsivo” e che ciò che era sembrato strangolamento era dovuto, invece, al piegamento del collo nella fossa mal scavata e dalla necrosi[1].
C’è una saggistica, dal taglio “carismatico” più che cattolico, che da qualche tempo ama rinverdire i crudeli quanto falsi stereotipi d’antan. Se il mito positivo di Garibaldi “eroe dei due mondi” ignora del tutto i suoi anche gravi difetti – la tendenza al cesarismo, la sua scarsa cultura, la sua scarsa comprensione della politica, l’anticlericalismo feroce da massone convinto quel era - quello negativo del “feroce bandito” ignora del tutto le sue indiscutibili qualità.
Cavour, che non lo amava perché vedeva in lui uno spirito rivoluzionario che aborriva, disse tuttavia: “Dobbiamo esser grati a Garibaldi perché ha riconciliato gli italiani con il mestiere delle armi”. In effetti, nell’Italia tisica, malarica, rammollita, incartapecorita ed inane del tempo, Garibaldi fu un vero capo militare. Combattente nato, fu bravo generale e valoroso soldato. Disinteressato, indifferente al denaro, onesto, con un forte senso dell’onore. Nella pratica delle guerre rivoluzionarie in Sud America apprese a meraviglia l’arte della rapidità nei movimenti, essenziale in battaglia, alla quale aggiunse la sua spiccata tendenza all’offensiva, all’attacco diretto e risolutore, alla testa dei suoi uomini. Sotto le mura di Roma, all’epoca della Repubblica Romana del 1849, Garibaldi attaccò d’impeto i settemila uomini del corpo di spedizione francese costringendoli ad una rapida fuga verso Civitavecchia. Sembra che sia stato Mazzini, per ragioni politiche (a Parigi era al potere una Repubblica non meno liberal-massonica della sua), a fermare Garibaldi, impedendogli di infliggere al nemico una sconfitta totale e clamorosa. Dopodiché i francesi dovettero impegnarsi a fondo, con un corpo di spedizione superiore ai 20.000 uomini e un regolare parco d’assedio, per aver ragione (con forze nettamente superiori) di Garibaldi e dei suoi.
La frase più famosa del Nizzardo è sicuramente la seguente: “la guerra es la verdadera vida del hombre”. La guerra gli piaceva: combattere, rischiare la vita, crescere in coraggio e disciplina, nei propri confronti innanzitutto, virilmente. Ma mai per denaro, sempre per una causa: la libertà dei popoli e in particolare di quello italiano. Libertà ma anche uguaglianza, secondo lo spirito rivoluzionario e utopistico dell’epoca. Combattere, che significa? non solo esser uccisi, significa anche uccidere il nemico, che viene preso prigioniero solo se è rimasto in vita. L’importante è combattere in modo leale, rispettando le leggi dell’onore. Sì, Garibaldi riconciliò la gioventù italiana con il mestiere delle armi: trascinava l’esempio di quest’uomo che, oltre a dimostrarsi abile, rischiava sempre di persona, attaccando alla testa dei suoi uomini. Affascinava con il suo coraggio personale e la coerenza tra vita e ideali, per certi aspetti da autodidatta ma intessuti ad un patriottismo sincero, fede granitica nella rinascita di un’Italia liberata dallo straniero e unificata. Ma soprattutto attirava i giovani con l’esempio dell’uomo d’azione disinteressato, che si batteva per un nobile ideale senza chiedere niente in cambio.
A noi italiani d’oggi, allevati nella pseudocultura del compromesso, della resa, del disfattismo, del tornaconto personale, della pace a tutti i costi; nel “pacifismo” molle e corruttore che imperversa in Italia, ma anche nel resto d’Europa, dal 1945 ad oggi, l’elogio del Nizzardo per la guerra ci appare del tutto inconcepibile, non è vero? Ci si ammanta di pubblico ed ostentato sconforto e ribrezzo al solo pensiero del sangue e dei morti in battaglia e non si batte ciglio di fronte ai milioni di aborti volontari che stanno distruggendo il sostrato etnico stesso del popolo italiano e degli altri popoli europei, del tutto indifferenti ed opachi di fronte alla sterminata distesa di quei minuti cadaveri, uomini e donne in miniatura, già formati e innocenti, distrutti e gettati nei rifiuti. Non temete, le loro anime, ce le ritroveremo tutte davanti il Giorno del Giudizio, Dio renderà loro giustizia!
Non ci vorrebbe oggi un capo con le qualità di Garibaldi, un condottiero, un trascinatore, che andasse all’attacco alla testa dei suoi uomini, per risollevare le sorti gravemente compromesse della nazione e della Chiesa? Sissignori, anche della Chiesa, rincitrullita da mezzo secolo di “pacifismo ecumenico”, quello della misericordia falsa e caramellosa che inghiotte sorridendo ogni sorta di cammelli e dromedari, inaugurata dalle ereticali “aperture” del Vaticano II. Un Garibaldi cattolico, voglio dire, capace di risvegliare gli uomini italiani, e in particolare i giovani, dal loro letargo, scrollandoli da questa loro vita senza ideali, senza scopo e senza speranza. Capace di guidare la c r o c i a t a che i tempi imperiosamente esigono contro il nemico di sempre, il mussulmano invasore e omicida, che ci sta puntando spavaldamente il coltello alla gola, forte anche della pavidità dei Senzadio che malamente ci governano? Viva Garibaldi, dunque, e che ne venga per volontà del Dio degli Eserciti uno cattolico; un Capo che ci inciti e guidi alla lotta per la vera Fede con la spada sguainata, diritti in faccia al nemico, sino a scorgere il bianco dei suoi occhi!

Paolo Pasqualucci



[1] Per i particolari, vedi il documentato studio di A. Possieri, Garibaldi, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 131-137. Garibaldi diventò massone in Brasile, nel 1836. Sposò Anita a Montevideo in chiesa, il 26 marzo 1842, dopo che da circa due anni conviveva con essa, che già gli aveva dato un figlio, Menotti. La donna era stata infelicemente sposata senza figli ad un uomo che era sparito dalla sua vita poco prima che Garibaldi la conoscesse, avendo dovuto fuggire al seguito di uno degli eserciti in provvisoria ritirata nella zona, in quell’epoca di guerre e rivoluzioni continue in America del Sud. Molto probabilmente era già morto quando i due contrassero matrimonio. Garibaldi e la moglie erano ovviamente tutti e due battezzati dalla nascita. Per questi particolari biografici, vedi: J. Ridley, Garibaldi, Phoenix Press, London, pp. 88-93; 106-108.

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