giovedì 5 febbraio 2015

L’EMPIO LEOPARDI SPOSATO DA SCALFARI (di Piero Nicola)

  Qualche giorno fa discorrevo con una narratrice che alcuni anni addietro ebbe un discreto successo con un libro autobiografico, e da mia moglie invitata a cena. Le parlavo della censura che castigava gli spettacoli negli anni Cinquanta, ed ella osservò che l’idea stessa di censura la contrariava, ché l’arte era estranea a simili costrizioni. Spiegandole le ragioni della morale, la sua insofferenza non diminuì. Mi oppose, un po’ avventatamente, che cosa ne sarebbe stato delle Muse se i moralisti avessero loro tarpato le ali. Al che obiettai la vastità dell’arte sacra.
  Ora che mi appresto a valutare l’opera di Leopardi (l’opera sua e non l’uomo, il cui giudizio conviene rimettere al Creatore) mi avvedo come sarebbero stati da censurare molti mostri sacri, che a scuola vennero imposti al nostro studio e proposti alla nostra venerazione. Dimezzando il valore etico di Tommaseo e di Pascoli, svalutando i tesori di Carducci, D’Annunzio, Pirandello, il panorama della moderna Storia della Letteratura sembra una città dove un’incursione aerea abbia bombardato i monumenti, lasciando vuoti incolmabili.
  Invece ci si può riprendere con Manzoni, Papini, Cicognani, e diversi altri dispensatori di ricchezze piuttosto in regola con la verità, ingiustamente considerati autori di calibro minore.
  Tra i senza Dio, il figlio ingrato del Conte Monaldo e spregiatore di Recanati, primeggiò nel dominio della produzione artistica ottocentesca e le sue creazioni hanno poi signoreggiato quasi ininterrottamente e signoreggiano nell’attuale regno dei morti viventi. Non è un caso che Eugenio Scalfari, maestro giornalista, moralista sui generis, pensatore plurionorificato, nonché scelto interlocutore di Bergoglio, si sia dato a pregiare e a fare suo Giacomo Leopardi.
  Scalfari è una sorta di divulgatore della filosofia moderna e un esponente della corrente relativista e progressista che commisera i convinti della metafisica e, quindi, i credenti in Dio e nell’anima immortale. Notorio fondatore de L’espresso, su cui continua a scrivere, è molto più contagioso degli addetti ai lavori come Cacciari e Vattimo, che compaiono talvolta alla televisione. Il quali figurano pure in grande compagnia tra Kant, Hegel e Nietzsche, negatori di Dio vero o di Dio semplicemente.
  Con Per l’alto mare aperto (2011) Scalfari ha inteso compiere una “rivisitazione della modernità”, che “è stata sconfitta da una sorta di invasione barbarica, ma la storia non finisce, un’altra epoca nascerà come sempre è avvenuto, finché l’Homo sapiens riuscirà a guardare il cielo stellato e a cercare dentro di sé la legge morale. A me questo viaggio dentro l’epoca è sembrato un sabba, non di diavoli o di streghe, ma di anime e di stelle danzanti”. Così, nell’introduzione.
  Egli professa il relativismo: “Il linguaggio filosofico deve essere reinventato di sana pianta a misura di un relativismo che coinvolge sia l’oggetto pensato sia il soggetto pensante” (pag. 126).
  E si dispiace della fine della modernità; si dice illuminista e crociano.
  Non si addice forse a questi personaggi  l’etichetta di cultori del pensiero debole?
  Ma qual è la serie dei suoi pregevoli rivisitati? Ci sono tutti gli amori dei nemici della Chiesa, mascherati o dichiarati: Cartesio, Kant, Diderot, Hegel, Marx, Leopardi, Tolstoj, Poe, Proust, Kafka, Joyce, ecc.
  In un articolo su L’Espresso del 21.11.2014: Leopardi e Chopin infelici e gioiosi, Scalfari sostiene che “il poeta di Recanati era un nichilista” senza mezzi termini, e aveva una personalità “plurima”. La sua malinconia esistenziale trovava tregua soltanto nei momenti di creatività.
  Ciò è vero, egli in fondo si contraddisse col suo pessimismo assoluto, con il suo “piacer figlio d’affanno, gioia vana ch’è frutto del passato timore”. Con la natura matrigna fornicava. Tuttavia affermò il nulla pervicacemente, il nulla al posto del mistero pascoliano.
  Nel volume Incontro con io (1994) Scalfari aveva già condiviso il cantore de La ginestra dicendolo “massimo filosofo”. E recensendo questo saggio, Emanuele Severino (pure leopardiano, sistematore di concezioni esistenzialiste e parmenidee) annotava in esso il “materialismo”, il “biologismo evoluzionistico”, per cui è “illusione che esistano cose immortali”; rilevava il rimedio contro la morte riposto nella poesia e nella filosofia, che però vincono precariamente la nullità da esse riscontrata, dalla quale proviene l’angoscia inevitabile.
  Macroscopica incongruenza: se mancano le prove scientifiche che ci sia il soprannaturale, mancano anche le prove della sua inesistenza. Laddove il metodo scientifico non arriva, ragione e  metafisica ce la possono fare (concetto di infinito, di Dio). Bisogna che la ragione si arrenda al soprannaturale: costatabile bensì scientificamente nei suoi fenomeni straordinari (p. e. miracoli), bisogna che si arrenda alla Rivelazione. Ma l’intelletto superbo preferisce castrarsi.
  Leopardi piace ai progressisti giunti al capolinea delle loro tesi, fossero comuniste o cattolico-sinistre, giacché il loro salvagente ormai deve star fuori della realtà, presente o futura. Infatti continuano a credere alle conquiste ottenute, a illudersi sull’avvenire. Essi si compiacciono di fisime gnostiche, di poesia disperata, attaccandosi ai più o meno potenti spiriti maledetti come Nietzsche, Guenon et similia, da loro disprezzati in gioventù come colonne delle ideologie naziste e fasciste (queste ultime invero soprattutto d’un ingrossato ramo postfascista).
  Il sistema leopardiano si risolve in un’antitesi, in uno scontro disastroso, tra sentimento illusorio, sognante (possibilmente felice) e ragione adulta, realistica. Donde, la vanità del Tutto, ridotto a materialità illuminista, e antiromantica, antiliberale, antiprogressista. Ma di questo aspetto, criticato aspramente da Benedetto Croce, i suoi amanti odierni possono non curarsi: essi hanno superato anche l’intrinseca contraddizione: sono crociani, nietzschiani, leopardiani e così via, in un’orgia vagamente eclettica o di sincretisti, che dir si voglia!
  Né resta estranea in Leopardi un’uscita dionisiaca: precipitarsi in una vita intensamente vissuta per scampare alla “noia”, che nasce dalla grande vanità (Dialogo di un fisico e di un metafisico, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez).
  Nell’Elogio degli uccelli: “Crederei che prima occasione e prima causa di ridere, fosse stata agli uomini la ubriachezza; altro effetto proprio e particolare del genere umano […] gli uomini sono infelicissimi sopra tutti gli altri animali, eziandio sono dilettati più che chiunque altro, da ogni non travagliosa alienazione di mente, dalla dimenticanza di se medesimi, dalla intermissione, per dir così, della vita”. D’altronde, egli rivendica il titanico valore del suicidio (Bruto minore, Ultimo canto di Saffo).
  Un succo estratto dalle Operette morali  è che verità, bontà e bellezza sono relative, perciò non reali; l’anelito ai piaceri essendo infinito e inesauribile, determina l’infelicità. Alcune interposte contraddizioni, non c’impediscono di trovarci rinchiusi nel mondo dei sensi, dove le idee vengono comprese nella natura maligna, ingannevole.
  In seguito, il poeta torna alle giovanili commozioni, ma pervase di compassione per la finita condizione umana, perché le tesi delle Operette e dello Zibaldone gli restano care e non escono dalla sua persuasione distruttiva, diremmo masochistica.
  Nell’ultima lirica dei Canti usciti nel 1831: Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, lungamente elaborato, la negazione è diventata cosmica: la luna, il sole, le stelle girano inutilmente: “senza posa / Per tornar sempre là donde son mosse”. E “Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale”. Ma l’accennato dubbio, il “forse”, è prestato soltanto al pastore ancora piuttosto ignaro.
  Nei suoi ultimi lavori l’autore, che si districa dalle censure dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli, non si smentisce. L’amore non si salva: “Quando novellamente / Nasce nel cor profondo / Un amoroso affetto, / Languido e stanco insiem con esso in petto / Un desiderio di morir si sente”. E perché? Perché non può stare senza quella intravista “infinita felicità”. Per liberarsi dall’accoramento passionale, egli non può far altro che invocare la Morte, bellissima alata fanciulla, che “ogni dolore, ogni gran male annulla”.
  La sua superbia si manifesta segnatamente col Dialogo di Tristano e di un amico (1832), in cui attacca gli uomini che non vogliono, come lui, “sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita […] accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera”.
  Con le terzine de I nuovi credenti (1835, pubblicate postume e rivolte al caro amico Ranieri) egli si limita a rinfacciare ai napoletani che lo accusano di empietà (sebbene dica la vita “acerba e vana” come fece Salomone) di essere passati dall’incredulità sotto il regime di Gioacchino Murat, a una fede conformista, e li apostrofa così: “Degli uomini e del ciel delizia e cura / Sarete sempre, infin che stabilita / Ignoranza e sciocchezza in cor vi dura”.
  Leopardi fustigò assai giustamente sia i conservatori sia i liberali, proponendo un mondo retto da figure virili, spartane. Ma ciò non basta a farne un grand’uomo, come non basta la sua alta poetica nutrita di cultura.


Piero Nicola

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