Qualche giorno fa discorrevo con una
narratrice che alcuni anni addietro ebbe un discreto successo con un libro
autobiografico, e da mia moglie invitata a cena. Le parlavo della censura che
castigava gli spettacoli negli anni Cinquanta, ed ella osservò che l’idea stessa
di censura la contrariava, ché l’arte era estranea a simili costrizioni.
Spiegandole le ragioni della morale, la sua insofferenza non diminuì. Mi oppose,
un po’ avventatamente, che cosa ne sarebbe stato delle Muse se i moralisti
avessero loro tarpato le ali. Al che obiettai la vastità dell’arte sacra.
Ora che mi appresto a valutare l’opera di
Leopardi (l’opera sua e non l’uomo, il cui giudizio conviene rimettere al
Creatore) mi avvedo come sarebbero stati da censurare molti mostri sacri, che a scuola vennero
imposti al nostro studio e proposti alla nostra venerazione. Dimezzando il
valore etico di Tommaseo e di Pascoli, svalutando i tesori di Carducci,
D’Annunzio, Pirandello, il panorama della moderna Storia della Letteratura
sembra una città dove un’incursione aerea abbia bombardato i monumenti,
lasciando vuoti incolmabili.
Invece ci si può riprendere con Manzoni,
Papini, Cicognani, e diversi altri dispensatori di ricchezze piuttosto in
regola con la verità, ingiustamente considerati autori di calibro minore.
Tra i senza Dio, il figlio ingrato del Conte
Monaldo e spregiatore di Recanati, primeggiò nel dominio della produzione
artistica ottocentesca e le sue creazioni hanno poi signoreggiato quasi ininterrottamente
e signoreggiano nell’attuale regno dei morti viventi. Non è un caso che Eugenio
Scalfari, maestro giornalista, moralista sui
generis, pensatore plurionorificato,
nonché scelto interlocutore di Bergoglio, si sia dato a pregiare e a fare suo
Giacomo Leopardi.
Scalfari è una sorta di divulgatore della
filosofia moderna e un esponente della corrente relativista e progressista che commisera
i convinti della metafisica e, quindi, i credenti in Dio e nell’anima immortale.
Notorio fondatore de L’espresso, su
cui continua a scrivere, è molto più contagioso degli addetti ai lavori come
Cacciari e Vattimo, che compaiono talvolta alla televisione. Il quali figurano
pure in grande compagnia tra Kant, Hegel e Nietzsche, negatori di Dio vero o di
Dio semplicemente.
Con Per
l’alto mare aperto (2011) Scalfari ha inteso compiere una “rivisitazione
della modernità”, che “è stata sconfitta da una sorta di invasione barbarica,
ma la storia non finisce, un’altra epoca nascerà come sempre è avvenuto, finché
l’Homo sapiens riuscirà a guardare il
cielo stellato e a cercare dentro di sé la legge morale. A me questo viaggio
dentro l’epoca è sembrato un sabba, non di diavoli o di streghe, ma di anime e
di stelle danzanti”. Così, nell’introduzione.
Egli professa il relativismo: “Il linguaggio
filosofico deve essere reinventato di sana pianta a misura di un relativismo
che coinvolge sia l’oggetto pensato sia il soggetto pensante” (pag. 126).
E si dispiace della fine della modernità; si
dice illuminista e crociano.
Non si addice forse a questi personaggi l’etichetta di cultori del pensiero debole?
Ma qual è la serie dei suoi pregevoli
rivisitati? Ci sono tutti gli amori dei nemici della Chiesa, mascherati o
dichiarati: Cartesio, Kant, Diderot, Hegel, Marx, Leopardi, Tolstoj, Poe,
Proust, Kafka, Joyce, ecc.
In un articolo su L’Espresso del 21.11.2014: Leopardi
e Chopin infelici e gioiosi, Scalfari sostiene che “il poeta di Recanati
era un nichilista” senza mezzi termini, e aveva una personalità “plurima”. La sua
malinconia esistenziale trovava tregua soltanto nei momenti di creatività.
Ciò è vero, egli in fondo si contraddisse col
suo pessimismo assoluto, con il suo “piacer figlio d’affanno, gioia vana ch’è
frutto del passato timore”. Con la natura matrigna fornicava. Tuttavia affermò il nulla pervicacemente, il nulla al
posto del mistero pascoliano.
Nel volume Incontro con io (1994) Scalfari aveva già condiviso il cantore de La ginestra dicendolo “massimo
filosofo”. E recensendo questo saggio, Emanuele Severino (pure leopardiano,
sistematore di concezioni esistenzialiste e parmenidee) annotava in esso il
“materialismo”, il “biologismo evoluzionistico”, per cui è “illusione che esistano
cose immortali”; rilevava il rimedio contro la morte riposto nella poesia e
nella filosofia, che però vincono precariamente la nullità da esse riscontrata,
dalla quale proviene l’angoscia inevitabile.
Macroscopica incongruenza: se mancano le
prove scientifiche che ci sia il
soprannaturale, mancano anche le prove della sua inesistenza. Laddove il metodo
scientifico non arriva, ragione e
metafisica ce la possono fare (concetto di infinito, di Dio). Bisogna
che la ragione si arrenda al soprannaturale: costatabile bensì scientificamente
nei suoi fenomeni straordinari (p. e. miracoli), bisogna che si arrenda alla
Rivelazione. Ma l’intelletto superbo preferisce castrarsi.
Leopardi piace ai progressisti giunti al
capolinea delle loro tesi, fossero comuniste o cattolico-sinistre, giacché il
loro salvagente ormai deve star fuori della realtà, presente o futura. Infatti
continuano a credere alle conquiste ottenute, a illudersi sull’avvenire. Essi
si compiacciono di fisime gnostiche, di poesia disperata, attaccandosi ai più o
meno potenti spiriti maledetti come Nietzsche, Guenon et similia, da loro disprezzati in gioventù come colonne delle
ideologie naziste e fasciste (queste ultime invero soprattutto d’un ingrossato ramo
postfascista).
Il sistema
leopardiano si risolve in un’antitesi, in uno scontro disastroso, tra
sentimento illusorio, sognante (possibilmente felice) e ragione adulta,
realistica. Donde, la vanità del Tutto, ridotto a materialità illuminista, e antiromantica,
antiliberale, antiprogressista. Ma di questo aspetto, criticato aspramente da
Benedetto Croce, i suoi amanti odierni possono non curarsi: essi hanno superato
anche l’intrinseca contraddizione: sono crociani, nietzschiani, leopardiani e
così via, in un’orgia vagamente eclettica o di sincretisti, che dir si voglia!
Né resta estranea in Leopardi un’uscita
dionisiaca: precipitarsi in una vita intensamente vissuta per scampare alla
“noia”, che nasce dalla grande vanità (Dialogo
di un fisico e di un metafisico, Dialogo
di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez).
Nell’Elogio
degli uccelli: “Crederei che prima occasione e prima causa di ridere, fosse
stata agli uomini la ubriachezza; altro effetto proprio e particolare del
genere umano […] gli uomini sono infelicissimi sopra tutti gli altri animali,
eziandio sono dilettati più che chiunque altro, da ogni non travagliosa
alienazione di mente, dalla dimenticanza di se medesimi, dalla intermissione,
per dir così, della vita”. D’altronde, egli rivendica il titanico valore del
suicidio (Bruto minore, Ultimo canto di Saffo).
Un succo estratto dalle Operette morali è che
verità, bontà e bellezza sono relative, perciò non reali; l’anelito ai piaceri
essendo infinito e inesauribile, determina l’infelicità. Alcune interposte contraddizioni,
non c’impediscono di trovarci rinchiusi nel mondo dei sensi, dove le idee
vengono comprese nella natura maligna, ingannevole.
In seguito, il poeta torna alle giovanili
commozioni, ma pervase di compassione per la finita condizione umana, perché le
tesi delle Operette e dello Zibaldone gli restano care e non escono
dalla sua persuasione distruttiva, diremmo masochistica.
Nell’ultima lirica dei Canti usciti nel 1831: Canto
notturno di un pastore errante nell’Asia, lungamente elaborato, la
negazione è diventata cosmica: la
luna, il sole, le stelle girano inutilmente: “senza posa / Per tornar sempre là
donde son mosse”. E “Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro
covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale”. Ma l’accennato dubbio, il
“forse”, è prestato soltanto al pastore ancora piuttosto ignaro.
Nei suoi ultimi lavori l’autore, che si
districa dalle censure dello Stato Pontificio e del Regno di Napoli, non si
smentisce. L’amore non si salva: “Quando novellamente / Nasce nel cor profondo
/ Un amoroso affetto, / Languido e stanco insiem con esso in petto / Un desiderio
di morir si sente”. E perché? Perché non può stare senza quella intravista
“infinita felicità”. Per liberarsi dall’accoramento passionale, egli non può far
altro che invocare la Morte, bellissima alata fanciulla, che “ogni dolore, ogni
gran male annulla”.
La sua superbia si manifesta segnatamente col
Dialogo di Tristano e di un amico (1832),
in cui attacca gli uomini che non vogliono, come lui, “sostenere la privazione
di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita […] accettare
tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera”.
Con le terzine de I nuovi credenti (1835, pubblicate postume e rivolte al caro amico
Ranieri) egli si limita a rinfacciare ai napoletani che lo accusano di empietà
(sebbene dica la vita “acerba e vana” come fece Salomone) di essere passati
dall’incredulità sotto il regime di Gioacchino Murat, a una fede conformista, e
li apostrofa così: “Degli uomini e del ciel delizia e cura / Sarete sempre,
infin che stabilita / Ignoranza e sciocchezza in cor vi dura”.
Leopardi fustigò assai giustamente sia i
conservatori sia i liberali, proponendo un mondo retto da figure virili,
spartane. Ma ciò non basta a farne un grand’uomo, come non basta la sua alta
poetica nutrita di cultura.
Piero Nicola
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