L’azione combinata della storiografia al
bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del breviario
cattocomunista, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu
lanciata dalle avanguardie cattoliche presenti nella scuola milanese di mistica
fascista.
In tal
modo la memoria storica degli italiani è stata privata di una nozione utile
agli studiosi intenzionati a contrastare seriamente l’ideologia totalitaria e a
procedere su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall’intossicante
influsso dello storicismo hegeliano.
Un
percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo
capo ad un’evoluzione del Novecento italiano – un’autentica rivoluzione tradizionale – di segno
contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi)
degli intellettuali fascisti nel partito di Togliatti, Longo, Moranino,
Moscatelli e Scoccimarro.
Nato da
una costola della modernità, il fascismo irruppe, infatti, nella scena storica
come strumento della guerra rivoluzionaria. Non a caso si costituì come
partito in un salone di piazza Sansepolcro, prestato da un banchiere milanese,
che era iniziato agli alti misteri della massoneria.
La
dipendenza del fascismo dalla massoneria si rivelò apparente e fragile: dopo la
Marcia su Roma Mussolini decise di perseguire finalità opposte a quelle della
setta.
Nel
nuovo scenario politico ebbe ragion d'essere e legittimità la Scuola di mistica
fascista, fondazione di Arnaldo Mussolini, il fratello cattolico del duce, il
quale aspirava a stabilire un fecondo dialogo e un'intesa tra la cultura
fascista, debitamente depurata dagli influssi neo-hegeliani, e la dottrina
cattolica.
Ora
l'’accertata insorgenza nella Scuola di mistica fascista di una forte
opposizione alla filosofia di matrice hegeliana fa crollare i due pilastri
della mistificazione storica inscenata dai comunisti: la leggenda della
complicità cattolica con l’ideologia ultra hegeliana e germanofila prevalente
nel movimento fascista – leggenda
sintetizzata ultimamente dal calunnioso slogan “Pio XII papa di Hitler” – e la rappresentazione degli intellettuali
italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis e
assimilato dal longanime partito staliniano.
La
vicenda degli oppositori all’idealismo, invece, rivela l’autonomia, la
straordinaria vitalità e l’attitudine del pensiero di Arnaldo Mussolini ad
orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo, alla radice
religiosa della patria italiana [1].
Curiosamente
l’influsso del pensiero cattolica aumentò nella prima fase della II guerra
mondiale, quando la Germania nazista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo
che il governo italiano ebbe sottoscritto un’innaturale alleanza con la
Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani militanti, causando
la divisione dell’area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente
maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò
risoluta a percorrere la via d’uscita indicata dalla tradizione cattolica e una
corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell’idealismo e perciò decisa
a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell’estremismo
anticristiano.
Espressione
del fermento creativo in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico
saggio vichiano di Nino Tripodi (1911 – 1988), giovane interprete delle novità
introdotte nella scuola milanese di mistica fascista dal cardinale Ildefonso
Schuster e dal fondatore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, il
francescano Agostino Gemelli [2].
Tripodi,
grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace
confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la dottrina
politica di Benito Mussolini.
L’affinità
del fascismo e della scienza nuova, nell’acuta analisi di Tripodi, non
era causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla
comune tendenza a riconoscere che “maestra
non è la mente di questo o quell’uomo che razionalmente pone un principio, ma
la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono
svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è
intrinseca”.
La
scelta di Tripodi cade su Vico poiché “Fu
perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle
creature, tra l’essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create,
come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel
mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la
Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità”.
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Pubblicato
nel 1941 e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall‘indifferenza
neodestra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle
ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio
Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco
Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini, Guido Manacorda,
Balbino Giuliano) che avevano sostenuto l’irriducibilità della tradizione
italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su
Vico precursore dell’idealismo.
Tripodi
afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l’ontologia,
“ha sempre creduto nella finitezza
dell’umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo
spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio” mentre gli
idealisti, convinti di sfondare quella parete, “hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista
o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili
atteggiamenti dualistici d essa”.
Di qui
il perfetto ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo
cristiano di Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia
malgrado gli apparenti successi della modernità: “La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del
pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all’idealismo. Né
Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e se ne cercò di darla
al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina”.
Tripodi
indica in Vico l’antagonista dell’irrealismo e del soggettivismo dominanti
nell’età moderna: “Vico non può essere
idealista perché la sua filosofia impugno Cartesio e fa impugnare in Kant gli
iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore”.
La
filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità
dell’azione umana nei fatti della storia “che
altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una
meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero
che l’aveva posta. … La coscienza delle
proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l’uomo a dimenticare
che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non
al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella
volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina
provvidenza”.
L’invito
a separare il destino dell’Italia fascista dalle chimere del razionalismo e
dalle suggestioni dell’attivismo prometeico e dell’amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza.
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Nelle penetranti
tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della
strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell’avanguardia
cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca,
Augusto Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi,
Giovanni Torti, Silvio Vitale, Tommaso Romano, Ulderico Nisticò) che nella
filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri
dell’astrazione hegeliana trasferita, intanto. nella parodia inscenata dau
francofortesi.
La
posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto
naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto
tra la giustizia ideale e le leggi che i popoli producono nel corso della loro
cangiante storia.
Dagli
scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di
risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche
contemplanti un pensiero dell’assoluto che evolve nel tempo: “Esiste non una separazione ma una diversa
gradazione d’intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto
naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo
vero. Il secondo è dato dall’insieme delle norme che il mondo delle nazioni
partitamene elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia”.
Di qui
l’indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il
fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione
delle teorie utilitaristiche, che ritengono l’interesse
materiale unica molla delle azioni umane.
Nella
definizione del comune fondamento della teoria dello stato, Tripodi sostiene,
pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza
fa prevalere la solidarietà sull’istinto egoistico: “La provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità
che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico
per cui vorrebbero tutto l’utile per se
e niuna parte per lo compagno”.
Tripodi
conclude il suo ragionamento affermando che “l’unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello
stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista” è dimostrato dalla
condivisione del fine soprannaturale: “L’uomo
trova nello stato l’organizzazione storica che gli consente di realizzare quei
principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua
stessa funzione trascendente di uomo”.
E’
evidente che l’identificazione della dottrina fascista con la filosofia
vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione
sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall’imbarazzante alleanza con il
nazismo, di rompere con la cultura neopagana e/o neognostica prevalente in
Germania e di condurre all’approdo cattolico le vere ragioni dell’ideologia
fascista.
E’
incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere
l’ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana.
Non a
caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli
intellettuali dell’INSPE (Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo
Ottaviano, Ernesto De Marzio, Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino
Sottochiesa, Giano Accame, Fausto Gianfranceschi, Fausto Belfiori, Giuseppe
Tricoli, Primo Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi, Gianfranco Legitimo,
Silvio Adorni) l’istituto che progettava la trasformazione del Msi di Arturo
Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica.
L’attenzione
prestata da Pio XII all’evoluzione del Msi in conformità alle tesi di Tripodi,
aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del Msi, che doveva
tenersi a Genova nel luglio del 1960, doveva, infatti, approvare in via
definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a
vuoto i progetti dell’oligarchia favorevole all’apertura a sinistra.
Purtroppo
la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista e l'impennata
dell'orgoglio di Almirante [3],
impedirono lo svolgimento di quel congresso, respingendo la cultura del Msi nel
sottosuolo dionisiaco/eleusino del pensiero moderno e nelle magiche grotte del
tradizionalismo spurio.
La
lunga immersione nell’area dell’indigenza filosofica impoverì a tal punto la
cultura di destra che, quando la discesa in campo di Silvio Berlusconi offrì
un’altra occasione all’inserimento nella politica di governo, la classe
dirigente del Msi, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal
pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi
di Fiuggi. Infine la morte civile, il consumante ergastolo della destra in agfonia nel talamo dei
Gaucci.
Piero Vassallo
[1] Cfr. Fausto Belfiori e Luigi Gagliardi, "Arnaldo
Mussolini La rivoluzione restauratrice", quaderni di Storia Verità,
edizioni Europa, Roma 1997
[2] Cfr.
“Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo”, Cedam, Padova
1941.
[3] Lo storico Luciano
Garibaldi era presenta all'aspra discussione, che opponeva il segretario del
Msi Arturo Michelini - deciso ad accettare la proposta di Ferdinando Tambroni
di spostare la sede del congresso missino dall'indifendibile centro di Genova a
Nervi - e Almirante, che minacciava la scissione ove fosse stata trasferita la
sede del congresso
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