La volgarità è cosa sudicia per definizione,
cosa attinente al comportamento che si allontana dal buon nome. Per meglio
definirla, prendo due sue componenti: l’immodestia e l’impudicizia. Queste
certificano la volgarità essere un aspetto del male. Colui che la pratica
riesce degradato rispetto al costume onesto.
Pudore
significa il ripudio di un atteggiamento che provoca il male ed è disonorevole,
significa il rifiuto di manifestare azione o sentimento che siano fomiti di
scandalo, ad esempio, un gesto che esprima vanagloria o che possa così
interpretarsi. Il pudore vieta di compiere qualcosa suscettibile d’indurre a
cattivi sentimenti; in particolare, vieta di esporre una parte del proprio
corpo che, nuda, ci avvilisce, essendo fonte di corruzione del prossimo o di disgusto
oltraggioso.
L’inverecondia comporta simili malefatte, anche
perpetrate con la parola. Tra le esibizioni o espressioni scandalose, che
suscitano il legittimo biasimo, l’avversione o, al contrario, la malizia,
risaltano quelle sessuali. Lo stimolo e la funzione sessuale sono, da Adamo in
poi, all’origine di problemi per la coscienza, dunque occasione di rendersi
colpevoli, perciò sono oggetto di ritegno e di segretezza, mentre la loro
qualsiasi mostra viene ripresa con ragione, poiché genera almeno il turbamento.
Ė quindi pacifico che la volgarità nelle sue
diverse forme non sia un fenomeno relativo, meramente psicologico, per il quale
in determinate condizioni di usanze o di liberazioni interiori il suo danno
scompare. La coscienza di esso permane indistruttibile e rivela che il filone
da cui scaturisce può essere soltanto coperto nel suo crescente svolgimento, ma
non eliminato. Sorse con l’uomo il sentimento del ritegno riguardo alle
scostumatezze. Riguardo ad esse, furono educazione e galateo. Se esiste il bene
e il male - come esiste il bello e il brutto in eterno, quasi concordemente per
chiunque, sicché un atto generoso e un bel volto hanno per opposto un atto
egoista e un volto ingrato – dev’esserci quanto appartiene all’una categoria e
quanto appartiene all’altra. La volgarità si accompagna alla malizia,
all’insolenza, al delitto; stride con la purezza. La purezza fa a pugni con le
sudicerie, con loro sarebbe un bimbo in un lupanare.
Ciò non toglie che vi sia chi preferisce il
lupanare alla casta dimora o chi pretende di conciliarli, entrambi
qualificandosi abbastanza. E soltanto il sofista tenterà di giustificare la
volgarità con l’affrancamento dalle inibizioni, con l’innocenza nell’indecenza,
e via di seguito.
La volgarità, avendo scansato la mano pòrta dalla
finezza, essendo un darsi allo sfogo impuro freddamente o spavaldamente, resta
una scelta maligna. Analogamente l’impazienza radicata è vizio, mentre la
pazienza è virtù. Analogamente il peccato è un volontario trasgredire; e la sua
azione è nociva quand’anche sia assolta dalla buona fede o da una giusta causa.
Dall’errore del peccato scaturisce la nocività.
I bei modi – s’intende – non certificano
sempre la correttezza di chi li adopra, ma chi adotta le maniere sgarbate è
positivamente indegno, specie quando costui disconosce il valore delle buone
maniere.
Appurato che a un certo segno di scurrilità e
di procacità corrisponde un livello di degradamento, valutiamo la condizione
individua e comunitaria nel nostro tempo col metro di questa forma di
maleducazione.
La volgarità odierna nelle sue varie
espressioni, a cominciare dal linguaggio, possiamo ritenere che sia soprattutto
un vezzo, un’abitudine accettata, un fatto del costume disinibito, libertario e
talvolta protestatario? Se anche così fosse, l’essenza venefica del
comportamento permane, come prima abbiamo osservato. Tuttavia non si può dire
che la faccenda proceda in questo modo. Alla dilagata volgarità va congiunta
un’adesione ad essa tutt’altro che scarsa, ingenua e innocente. Il compiacimento,
il cedere alla sua tentazione sono lungi dal potersi escludere.
Non si nega l’animo onesto e ammirevole di un
semplice, di un popolano o d’un contadino. Essi non saranno fini, non avranno
una lingua proprio castigata, saranno a loro modo incivili, e però non troppo;
rispetteranno le garbatezze di un ceto più in alto del proprio. In una società
normale, il loro stato avrà pure una regola delle relazioni informata a decenza,
un binario del rispetto di sé e degli altri.
Orbene, quel genere di relativa indecenza è
scusabile e avviene che si concili con un’elevatezza di sentire, con la probità,
in quanto non potrebbero aversi educazione e usi maggiormente gentili e
garbati. Ogni condizione sociale ha la sua guida per il comportamento costumato,
il quale avrà un sufficiente grado di concordanza intima e manifesta nei
singoli. Ma stiamo parlando di ciò che dovrebbe essere, e che alquanto fu;
benché la maggioranza degli individui sia stata inferiore a quella guida, pur
avendola riconosciuta pubblicamente. D’altro canto, i pochi bennati, idonei
alla rettitudine, dovettero attraversare una minore incomprensione.
Siccome le classi sono fra loro comunicanti e
dipendenti dal tono impresso, dall’esempio offerto da chi abbia ascendente
sulla vita pubblica e possa dirigerla secondo il suo potere e il suo volere,
risponde a dignità che quanti per nascita e condizione stanno più in basso riconoscano
la superiore gentilezza, non già l’ipocrisia e la finzione, ma la franca cortesia
e la forma elevata, fatta per lo spirito consono, che volentieri essi
apprezzeranno. Non affermo che i rapporti siano mai stati proprio in questi
termini, tuttavia ce ne volle perché la maggioranza li calpestasse.
Oggi la regolarità è sconvolta. Vediamo, in
breve, come si è giunti allo sconvolgimento del rispetto e della pulizia morale
attraverso alcuni cambiamenti indicativi succedutisi negli ultimi sessant’anni,
in un crescendo di indotte rilassatezze.
Negli anni Cinquanta si può dire che una certa
castigatezza avesse corretto le trascorse licenze di spettacoli e di pubbliche
trivialità. I modelli, tra i quali i
divi del cinema, avevano volti e linguaggio che spiravano decoro, se non
eccellenza. Le offese della rivista, dell’avanspettacolo, erano per lo meno
confinate nei teatri, e non di rado la censura assolveva il suo compito in ogni
dove.
Potremmo accusarla d’essere stata oppressiva?
Può accusarsi di tirannia ciò che frena o inibisce i fomiti di corruzione, dato
che, riguardo ad essa, l’uomo è un essere molto indifeso? Essendo un bene che egli
sia edificato, agiscono senza dubbio all’opposto le provocazioni degli istinti,
le seduzioni dei sensi. In quell’epoca il sentimento popolare (non lo si dovrebbe
allegare perché faccia testo quando sia guasto, come ora avviene) mormorava per
una canzonetta indulgente verso una prostituta o per una scena di film in cui
una donna stuprata dalla soldataglia faceva intime abluzioni in un ruscello.
Negli anni Sessanta, epoca del notevole
sbrigliamento, del varco aperto e delle riverenze a chi solleticava la
morbosità o chiamava il pubblico alla lussuria, celebri femmine cantanti,
inclusa una di loro eccellente nel virtuosismo, si davano a interpretare, bensì
con gli atteggiamenti, dei testi canori che dire boccacceschi è dire poco.
Intanto la pornografia entrava nel cinema con vari pretesti di realismo e di
espressione, compariva ugualmente su palcoscenici di rottura con i tabù del sesso.
Gli anni Settanta sono quelli del freno tolto
all’oscenità discorsiva, segnatamente femminile. Il gentil sesso sciupò la sua
gentilezza usando termini sino ad allora punteggianti la colorita conversazione
di maschi compagnoni. Ormai nessuna smorfia, se una ragazza, in mezzo a
un’eterogenea compagnia, usa dire che un tizio è sfigato, e adopra la parola sfiga
al posto di malasorte o di scalogna, e la parola casino in
luogo di pasticcio o di confusione. Figo è diventato per lei quello che era stato un bel fusto. Si noti che quella filza di
neologismi, fattisi correnti, era fresca di conio e dalla palese derivazione. Intanto,
per la prima volta, sulle comuni spiagge si vedono donne a seno scoperto. E,
come era avvenuto con la minigonna, sovente si scopre qualcosa che stava meglio
coperto per lo stesso buon gusto
artistico spregiudicato.
Nel periodo successivo le consuetudini non
fanno che peggiorare. Non tanto negli aspetti indecorosi e licenziosi, quanto nell’estinzione
della dignità che vi sta contrapposta. A un certo punto, furoreggia una danza
dieci volte più lasciva del tango e, ormai, se i nudi venissero mostrati nella
loro interezza, susciterebbero minor bramosia delle nudità velate e semisvelate
che s’incontrano ad ogni piè sospinto, mentre nessuna pellicola si priva di un
accoppiamento che suggelli l’amore dei protagonisti. La costante e pretta volgarità
ha partita vinta. Nelle scuole, ove dapprima le parolacce venivano esibite
soltanto fra i maschi, adesso hanno assunto il diritto di cittadinanza in ogni
gruppo, spesso anche tra allievi e docenti. Nelle famiglie l’andazzo è il
medesimo. Sull’autobus, le ragazzine pronunciano sonoramente parole
irripetibili.
Di certo lo sfogo nevrastenico ha la sua
parte, ma lo sfogo del turpiloquio equivale all’ingiustizia dell’invettiva o
dell’insulto, e s’apparenta alla bestemmia. Infatti la bestemmia entra prepotentemente
nella volgarità. Nelle pellicole americane si sprecano intercalari e
esclamazioni blasfeme che pronunciano il Nome più santo.
Non deve stupire se alla televisione vige un
codice che argina le espressioni sboccate. Si dimostra il vigore del ceppo
logorato e falsato. E poi, quanti vecchi formano il pubblico del piccolo
schermo! Spesso loro malgrado, essi stanno a disagio udendo sconcezze. Le quali
abbondano ugualmente, essendo entrate nella consuetudine e un poco ammorbidite.
Sono tutto uno sconcio, molti trattenimenti pettegoli e inchieste, processi che
sciorinano panni sporchi, che mettono scientificamente
all’onore della normalità le pratiche più sordide, solleticando le basse
curiosità e i bassi impulsi.
Sono trascorsi ormai parecchi anni da quando
un noto, e per un verso passatista, conduttore di spettacoli canori riportava
alla ribalta vecchi motivi e stagionati interpreti di indubbia abilità. Godette
di qualche fortuna; adesso sembra diventato un tappabuchi. Ma, come un quarto
di secolo fa, nell’esaltare la maestria musicale dei decenni Sessanta e Settanta
del Novecento, si compiaceva di sbeffeggiare la vecchia censura (quasi non
bisognasse che ce ne sia sempre una!), tuttora non si scorda di rivangarla con
sarcasmi e disapprovazione; e questo plateale dileggio, vastamente condiviso da
quelli che rinnegano per giunta il bel canto italiano, è un segno
inequivocabile della sconoscenza verso la nobiltà, della connivenza con la
sozzura, del coma spirituale di questo secolo, del budello in cui questo popolo
si è inoltrato senza ritorno.
Piero Nicola
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