Nelle due serate
di illustrazione dei Dieci Comandamenti, Benigni ha dato il meglio di sé, per
quanto le sue zavorre morali e culturali glielo permettessero. Egli è apparso
convinto, commosso, tenace nel controllo del suo impulso a trasgredire. Ma alla
conversione occorreva ben altro, e l’impedivano i commenti, le esegesi del
canovaccio fornito dai suoi maestri allineati con l’ultima teologia, e ben più
responsabili di lui.
Non sono venute meno le sue battute scherzose
vagamente blasfeme, qualche confidenza di troppo presa col Creatore. Direi che
questo è stato il peccato veniale. Dapprima, la retorica già vista, abile,
gagliarda, però mirabilmente temperata, anche esatta in alcuni contenuti,
insomma la sua arte oratoria, è servita alle omissioni. Le osservazioni
intelligenti, originali sull’essere di Dio, sulla fede, sui rapporti umani con
Lui, le iperboli meravigliose, declamate con ingenuo stupore, hanno affabulato
la storia di Mosè, esaltato determinati aspetti del Decalogo. Poi ha sdrammatizzato i comandamenti,
conquistando una platea per nulla facile come quella romana; e sembra che gli
ascoltatori abbiano seguito il tragicomico pimpante a bocca aperta, a milioni e
milioni. - Purtroppo.
Poiché Colui che parlò a Mosè scrisse sulle
Tavole “sono il Signore Dio tuo” e si
disse “geloso”, Benigni ne deduce un amore quasi umano e ci ricama sopra. Dio è
un “innamorato” del popolo dell’Alleanza. E siccome nel prescrivere il riposo
del sabato Egli ordina che, oltre ai servi, anche gli animali partecipino della
festa, si suppone una liberazione e una comunione che giunge fino alla vita
eterna, al Paradiso. Gliene ha offerto il destro il discorso di Bergoglio
sull’ingresso di tutto il Creato nella gloria, alla fine dei tempi.
Dal Signore che si è umiliato parlando da un
misero roveto ardente e dal comune godere del sabato sia del padrone sia dello
schiavo, sorge la divina, rivoluzionaria richiesta dell’uguaglianza. Ma, se il
destino dev’essere socialmente uguale per tutti i sottoposti alla Legge, con la
stessa parzialità si sarebbe potuto attribuire al Creatore una volontà
classista, maschilista e razzista, riguardo a molte altre disposizioni da Lui
impartite agli ebrei.
Arrivato al comandamento non ammazzare - come non aspettarselo? – arriva il pacifismo.
L’abuso del nome di Dio pronunciato invano è già stato esteso a chi se ne serve
per usare violenza, mentre sul vizio della bestemmia l’oratore ha calato ironie
indulgenti. Ora, se la prende anche con i Crociati. Venendo all’attualità, se
ai tempi dell’Esodo l’omicidio era praticato abbondantemente, in questo secolo,
specie nel Novecento, le stragi non si contano. Non un pizzico di distinzione
tra guerra e guerra, tra guerre combattute più o meno lealmente e uccisioni efferate,
ingiustificate. Anche a tale proposito, l’equilibrio avrebbe imposto di
considerare il Dio degli eserciti e il suo sostegno prestato a Israele in
alcune battaglie, alla mano armata di Giuditta.
Parlando dell’Isis e del fanatismo assassino,
ecco che Allah diventa il Dio comune dei monoteisti. Certo non è tutta colpa di
Benigni, dopo tanta eresia di cui il Vaticano ha dato prova su questo punto, e
probabilmente il copione lo istigava.
Tuttavia, passando al sesto comandamento, il
toscanaccio torna a ricordare la sua pubertà, quando gli insegnavano un
catechismo tradizionale. Peccato dimentichi che allora si nominavano i pagani e
gli infedeli da convertire al vero Dio con preghiere e missionari.
Sembra persino che gli avessero nominato la
parola fornicare, dall’oscuro
significato. Egli afferma, secondo la
nuova traduzione e redazione catechistica, che la Chiesa commise un abuso,
sostituendo gli atti impuri all’adulterio. Ma i dizionari sono concordi
nel definire la fornicazione un atto sessuale compiuto fuori del debito
matrimoniale, dunque essa si estenderebbe soltanto un po’ oltre l’adulterio.
A tale proposito il bravo Roberto si permette
l’eresia più grossa e più sudicia, sostenendo che non solo l’onanismo non è
compreso nel comandamento, ma che a ragione egli, giunto sui diciott’anni, ebbe
in animo di chiedere un risarcimento alla parrocchia per avergli causato sensi
di colpa con le confessioni cui il prete lo sottoponeva a proposito degli atti
impuri.
Da quando esiste la Chiesa, ed anche nel Vecchio
Testamento, il peccato di Onan è condannato come peggiore dell’adulterio,
essendo un atto contro natura, contro la procreazione. E tanto più esecrabile,
essendo compiuto senza la presenza dell’altro sesso (cfr. I Cor. 6,10; Gal. 5,
19; Efes. 5, 3 e diverse risoluzioni di Papi e di Organi del Governo
ecclesiastico).
L’onanismo è più grave della fornicazione,
quindi andava compreso nel sesto comandamento. Negarne la gravità costituisce
una corruzione indecente e pestifera. Lo stesso senso morale naturale ne
denuncia la colpevolezza. Non c’era bisogno del confessore e della vecchia
dottrina per imporporare di giusta vergogna le guance del medesimo Robertino.
Il dovere della veritiera testimonianza gli
ha dato lo spunto per sostenere che la bugia è altra cosa, cosa debita in vari
casi, come quando gli eroici paladini della libertà, contro le tirannidi non
vollero essere veritieri e confessi, sacrificandosi per la causa. Per far luce
sull’equa valutazione di libertà e di regimi liberticidi datisi storicamente,
sarebbero occorse delle spiegazioni. Tutto sommato, era meglio evitare un argomento stiracchiato.
Egli conclude l’elenco speculando sul divieto
di desiderare la moglie altrui, dice che non è il fatto di desiderarla
l’oggetto della divina proibizione, dice che se ne approfittò per bollare un
desiderio naturale e lecito, purché non implichi un’idea adulterina. L’erronea
confusione è palese. Di nuovo, la Chiesa allegò giustamente al nono comandamento
il peccato di desiderio. Se l’impulso alla concupiscenza di per sé non comporta
un misfatto, l’adesione ad essa è peccaminosa. Ciò non doveva essere
sottaciuto.
L’epilogo ha visto il novello predicatore
celebrare la vita, di cui ciascuno dispone per procurarsi la felicità, giacché
l’eternità la possiamo già ottenere quaggiù amando, senza bisogno di
particolari misticismi. Chi sa amare, credente o no, avrà il suo posto in
Paradiso, in barba alle obiezioni dei teologi parrucconi.
A coronamento dell’uscita dal seminato
abbiamo sentito la lettura, pateticamente partecipata, di una poesia del
newyorkese democratico, progressista, trascendentalista, omosessuale, onanista,
umanitario sentimentale e amorale Walt Whitman. In un verso del visionario
scrittore si colloca Dio nell’uomo. Con buona pace del pubblico plaudente!
Restando in carattere, oggi coppie di
ballerini di tango accolti da Bergoglio, hanno fatto le loro strette giravolte
davanti a lui in Piazza San Pietro.
Piero Nicola
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