Gli atei ostinati
dovrebbero riflettere sulla rigorosa/paradossale forma teologica dei pensieri
dominanti nel poema concepito e scritto da Parmenide per definire e celebrare
l'assoluto immanente. La definizione eleatica dell'universo eterno e increato,
lo hanno rammentato Virginia Guazzoni Foà e Cornelio Fabro, ha infatti la
struttura di una teologia rovesciata nel mondo: salvo gli opposti e
irriducibili punti di vista, l'immanentista di Elea e il teista Tommaso
d'Aquino declinano lo stesso pensiero sulla perfezione dell'essere increato e
perfetto, al quale nulla può essere aggiunto.
A loro
modo sono teologici anche i fulminanti/sconcertanti paradossi di Zenone:
la inutile corsa di Achille dimostra che l'essere assoluto esclude il divenire
e lo respinge nella sfera della doxa,
dove l'infinità dei punti che separano la corsa fulminante/fulminata di piè
veloce dal placido tra tran della tartaruga abolisce la realtà del
divenire.
L'ateismo
eleatico è una religione orizzontale, un'ontologia che obbedisce al pregiudizio
pagano intorno alle imperfezioni delle divinità olimpiche e perciò rovescia la
persona del creatore nell'immaginaria infinità del creato.
L'ateismo
dei moderni (e dei post-moderni) invece è il risultato della fuga precipitosa
dalla philosophia perennis e della ricerca disperata di un rifugio alto
e inaccessibile, una fosforescente superstitio - ossia una
soprastruttura che faccia baluginare la possibilità di sottrarre il
fragile pregiudizio immanentista al
detestato martello della ragione ragionante.
L'ateismo
dei moderni si allontana dalla teologia ateologica di Parmenide e dalla
teologia propriamente detta per consegnarsi al fiume impetuoso e bizzarro del
divenire assoluto e insensato.
La
fragilità dell'ateismo in scena dopo il pallido bluff del moderno è
confermata da un giovane e brillante filosofo italiano, Francesco Agnoli,
autore del puntiglioso saggio critico, Perché non possiamo essere atei, pubblicato
in questi giorni da Gondolin, editore in Verona.
Muovendo
con perizia l'arma della critica, Agnoli ingaggia un duello spietato con gli
incensati autori dei sofismi che, nelle intenzioni gridate dal palcoscenico
allestito dal potere culturale, annunciano la fine della fede in Dio e il
tramonto del panteismo antico.
Il
dogma degli atei di ultima e irremovibile generazione afferma che "è la
materia inorganica che da sola, meccanicamente e casualmente, dà vita alla
vita". Se non che John Eccels, premio Nobel per la medicina a
dimostrato che ove sposassimo la filosofia del materialismo monistico "non
ci resterebbe nessuna base su cui costruire un significato della vita e dei
suoi valori. Saremmo creature del caso e delle circostanze. Tutto in noi
sarebbe determinato dall'eredità e dal condizionamento. Il nostro sentimento di
libertà e di responsabilità sarebbe soltanto un'illusione".
A David
Dawkinson, "ateologo turlupinato dal suo zelo" e indotto ad
affermare intrepidamente che la religione sopravvive perché il cervello dei
bambini crede nella qualunque assurda affermazione dei genitori, "dunque
una volta infettato il bambino crederà e
infetterò la generazione successiva con le stesse assurdità", Agnoli
risponde formulando una devastante obiezione: "Perché dopo settant'anni
di comunismo ateo in Russia, in cui l'idea religiosa non è stata tramandata da
padre in figlio, ma anzi soppressa violentemente e perseguitata, la religione
non è affatto morta ma anzi conosce una rinascita prodigiosa? Perché si può
passare da atei a credenti nel corso della vita, o addirittura convertirsi in
punto di morte?"
Importante è il capitolo in cui Agnoli ricostruisce la
fecondazione/incubazione - ateista/scientista - degli orrori - mostri
spaventosi - attuati nel XIX e nel XX secolo dall'eugenetica. Prima di
svolgere il tema l'autore rammenta che "con l'espressione
razzismo scientifico si identifica quel modo di catalogare gli uomini, secondo
principi biologici, che ha origine nel Settecento illuminista e che sfocia nei
grandi movimenti razzisti del Novecento, attivi soprattutto negli Stati Uniti e
in Germania".
Opportunamente
Agnoli cita il saggio Il mito ariano, in cui lo storico Leon Poliakov
stabilisce una stretta relazione tra razzismo e illuminismo e rammenta i
testi sul poligenismo, nei quali incuba
l'antisemitismo - di stampo anticristiano - apertamente professato da
Voltaire.
Abbattuto
il nazismo la mitologia razzista o biocrazia ha conservato la sua
autorità nella cultura dei poteri forti, mediante i quali avanza l'incuboso
disegno di un mondo abitato dall'aristocrazia selezionata dalle macchine della
felicità: aborti, eutanasie, carestie, pestilenze, fanatismi pseudo-religiosi e
guerre civili.
Di qui
le politiche finalizzate a limitare e possibilmente impedire la procreazione
dei più poveri e negligenti.
Il
saggio di Agnoli si raccomanda quale descrizione puntuale della follia razzista
incombente sulle nazioni atlantiche, che hanno sconfitto la Germania nazista
risparmiando e addirittura facendo propri
gli errori contro i quali fu promossa la crociata di
Eisenhower.
Piero Vassallo
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