Al giudizio politico si prepara un trabocchetto
in cui cascano anche molti dei più istruiti in materia, che trascurano le lezioni
impartite dalla Storia, da saggi filosofi e da autori del calibro di William
Shakespeare.
La svista dipende dal presumere che la costituzione
di uno Stato possa avvicinarsi all’ideale, a garantire la giustizia, e che i
tempi correnti ne comandino la forma conveniente. Quand’anche la composizione e
le prerogative della potestà civile siano quelle buone, essa rimarrà sempre
soggetta all’umana imperfezione, sicché tanto i preposti al comando quanto i
cittadini, più o meno sovrani, saranno portati ad abusare, a prevaricare, a
essere corrotti, persino essendo in buona fede. Perciò la soluzione si gioca
non solo sulle legittime libertà, ma sul rigore che le comprime. Alla legge
giusta occorre applicare una ben sostenuta tolleranza verso un necessario
autoritarismo.
Al contrario, quella tolleranza, contemplata
dalla morale ecclesiastica, fu sostituita con la malizia. Oltre alla demagogia
basata su diritti abusivi, date le ineliminabili deficienze del governo e le
diverse iniquità sociali vere o apparenti, poiché si tendeva a incolpare il
potere e chi ne ricopriva la carica, fu messo in atto un disegno istituzionale
che distribuiva e frazionava la responsabilità, così che riuscisse difficile
individuarla (scaricabarile). Tale debolezza comporta un effettivo potere
occulto, il quale, dietro le quinte, dirige le cose. Inoltre, la democrazia
(disordine organizzato) degenera nell’oclocrazia, ben definita e prevista nell’antica
Grecia.
Platone giudicò che la monarchia fosse la
miglior soluzione, non più attuabile, e che il comando riposto in uno solo girasse
facilmente in tirannide. D’altronde, il grande filosofo ideò una repubblica che
si reggeva pure su alcune falsità machiavelliche e che tuttavia si prospettava
di difficile realizzazione, come egli stesso ammise; né venne mai attuata.
Si era ancora lontani dall’ordine cristiano,
che, se non poté eliminare le ingiustizie, emanò dalla Chiesa come un faro, e
nello Stato della Chiesa avrebbe dato le prove migliori. Grazie alla sposa di
Cristo si instaurò una civiltà cristiana.
In questa temperie, tormentata dai rivolgimenti
politici, per cui il potere era sovente in balia della forza e delle usurpazioni,
facenti leva sul malcontento borghese o popolare, Shakespeare mise in scena l’Amleto. Il drammone, farcito di omicidi
e viltà nel Regno, serve a ricordarci che i dettami religiosi, nonostante
tutto, governavano le cose e le coscienze. L’Aldilà era presente con l’assoluzione
o con la condanna, col suo destino eterno; il trapasso occupava un centro
religiosamente osservato nel giudizio sugli eventi.
Ma l’autore del Giulio Cesare adoperò il distacco storico per rappresentare, con un
apologo, il dramma politico. Da un lato, il dittatore sta assumendo su di sé
essenziali prerogative del senato e dei rappresentanti della plebe; alle Idi di
marzo accetterebbe la corona regale. Dall’altro lato, Bruto e i congiurati sono
i difensori delle tradizioni e della repubblica.
Già varcando il Rubicone, Cesare aveva leso
lo Stato in nome di esigenze ritenute superiori. E dopo che morì pugnalato dal
suo stesso figlio, Roma tornò a precipitare nella guerra civile. Ciò non senza le
ragioni politiche che dividevano il fedele Marc’Antonio dai fautori delle
civili libertà. Il sapiente Cicerone, che si era opposto al quasi autocrate e
successivamente era stato da questi perdonato, mantenne una certa equidistanza
tra i partiti.
Nel contesto della tragedia ben si inserisce
la celebre orazione tribunizia di Antonio, che non ha condiviso il
tirannicidio. Nel discorso si bilanciano le ragioni dell’ucciso, che sembrò
peccare d’ambizione, e quelle dei suoi uccisori. La retorica volge a danno di
questi ultimi, ed è notevole il repentino rovesciamento dell’animo popolare.
Esso avrà peso nella messa in fuga dei congiurati. Infine, con l’epilogo della
loro sconfitta a Filippi, il giudizio appare sospeso, non già l’insegnamento.
Storicamente avviene che i vincitori abbiano
buon gioco ad approfittare della parzialità,
avendo agio di praticarla per screditare il vinto. Troppo spesso, però,
commettono un grave errore privandosi dei beni, soprattutto morali, propri del
sistema rovesciato, beni indebitamente connessi ai mali di quel sistema. In un
primo tempo, non potendosi distruggere tutte le strutture etiche e materiali
che recano l’impronta condannata, si vive anche di esse inconsapevolmente come
d’una rendita, ma, poi, a mano a mano una stolida o fatale coerenza mena i
nuovi governanti alla rovina.
Ben lo si vide con la Rivoluzione Francese,
che mise sul binario d’una legislazione pervertita una nazione Figlia
prediletta dalla Chiesa, diventata riottosa amante del laicismo, avvilente
propugnatrice di vizi e di empietà.
Nel suo complesso, il mondo occidentale, pur
essendosi separato dal Vecchio Regime, ancora assai cristiano, godette a lungo
di un’eredità radicata nel corpo sociale; ma essendosi consolidato, esteso e
incancrenito il regime delle fazioni meschine, delle libertà trasmodanti, sino
al culmine dei principi dell’89 fatti propri dall’ONU, la degenerazione divenne
segnata e inarrestabile.
Piero Nicola
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