Sullo schermo televisivo ove compaiono gli
usuali comportamenti e i soliti avvenimenti, in questa finestra aperta su di
essi, inserita nell’ambiente domestico, mi è capitato di vedere una sfilata
dell’ultimo grido. Indossatrici longilinee e graziose, sebbene alquanto
stereotipate e un tantino accigliate, esibivano modelli decorati a fiori. Nulla
di più leggiadro, si capisce. Sennonché alcune, a turno, svestite più che
vestite, portavano sotto una casacca un indumento simile alle mutandine. Quale
altra definizione attribuirgli, se quel brano di stoffa vaporosa lasciava
intravedere gli inguini e, lateralmente, lasciava scoperto il sommo delle gambe?
È stato il vertice del buon gusto cui abbia
assistito da parecchi anni a questa parte alla tivù.
Com’è che l’eleganza sulla persona e della
persona è finita da un pezzo nella stravaganza lubrica e sembra incapace di
uscirne fuori? Però dice “sembra incapace” un cuor gentile fiducioso, che non
si rassegna ai conti che tornano tutti fino all’ultimo… centesimo.
Chiarisco. La produzione delle arti offre
poche varianti d’un suo certo estro che suscita scalpore, e che chiamare
mirabile sarebbe adulatorio. Come avviene per tutta la scala delle ideazioni
andanti dall’architettura all’artigianato, anche l’abbigliamento dipende
dall’animo che lo concepisce e dipendere alquanto dal gradimento dei fruitori.
La moda è malata quando si violano i canoni dell’armonia. L’invenzione,
l’originalità, l’impronta personale dovrebbero usare un tocco educato, consono
a garbatezza, pena la pacchianeria, la chiassosità, la novità per se stessa.
Questa piace ai faciloni, alle farfalle femmine e maschi che desiderano essere
guardati, piace ai conformisti della voga. Per loro il cambiamento e l’effimera
sfornata dei cenci, dei panni, degli accessori più recenti sono il principale.
Importa che facciano colpo e che, essendosene appropriati, rendano interessante
la pochezza. Apparire è l’ossigeno, è il pane, giacché nessuno vive di solo
pane e occorre saziare l’amor proprio.
In un certo senso, è sempre stato così. Ma nel
tempo andato furono piuttosto gli acquirenti a vestire in modo esilarante,
senza che il venditore ve l’inducesse.
Adesso, il gusto deteriore la fa da padrone;
la delicatezza armoniosa resta appannaggio di uno sparuto gruppo di sorpassati.
Del resto, i più, specie i maschi, di norma non si vestono, si coprono
sbrigativamente, secondo un residuo dell’uso casual o da sportivi,
come si diceva una volta. Spesso il brutto viene ostentato in segno di un risibile
e trito anticonformismo, con quegli americani indumenti da lavoro, qua e là
consunti o bucati, che sono i blu jeans.
La
legge di Mammona si impone agli stilisti che non abuserebbero dello Stile, che
sarebbero dotati dell’indispensabile modestia e sincerità; talché anche loro si
adeguano al mercato, scansando il rischio di servire a un’élite evanescente. È troppo gravoso non andare sul filo della marea.
Cercare, inoltre, una maestranza con attitudine alla raffinatezza, addestrarla
e mantenerla, potrebbe essere un’impresa titanica.
Ciò quadra con le svariate forme di
velleitaria imitazione del bello. Facendolo prostituire al palato grosso e
barocco, coltivato democraticamente, non riuscirà mai a rendere altro che
ignobile l’emulazione delle antiche bellezze.
Restringendoci all’incedere delle
indossatrici sulle passerelle, i loro capi di abbigliamento da carnevalata
esprimono la necessità di sbalordire, senza di che non avrebbero séguito;
rivelano la loro funzione di spettacolo. Donde possiamo spaziare coerentemente sui
comuni generi di vestiario arzigogolati: da quelle scarpe dalla punta
lunghissima, oppure tozze e pesanti, alle gonne di drappeggio sghembo su donne
qualsivoglia. Ora regna il nero, ora un altro colore indelicato. E le fogge e
le stoffe: alla stessa stregua. La libertà non porta a svincolarsi scegliendo
gli indumenti adatti alla propria figura, per le occasioni o per le pratiche
attività quotidiane. Bando alle incertezze: è un continuo, una generale
stonatura, in cui la chiara sensibilità brilla per la sua assenza.
Oh, l’eleganza è un bene raro, così la
eccellente educazione, la signorilità che mai si spazientisce essendo di buon
animo impassibile. Così è sempre stato. Conveniamone pure di nuovo. Ma
l’eleganza si ebbe, si mostrò, penetrò, foggiò persino le maniere del volgo,
rendendolo talvolta comico, ma volenteroso; durò finché le popolane guardavano
in su attonite, invidiando, accarezzate dalle forme poetiche. Quando non le
comprendevano, e magari si facevano venire qualche complesso, erano tuttavia
lungi dal discuterle, lungi dal farne un problema. Soltanto in circostanze
particolari, l’eleganza rientrava nell’insulto recato dalla ricchezza alla
povertà.
I primi a tradire lo stile furono gli
architetti. Poi, piano piano, ci si misero gli altri. Artisti, letterati,
canzonettisti, intrattenitori, sarti delle stelle del cinema, disegnatori di
carrozzerie videro crescere nelle loro fila uomini insensibili all’aurea
misura, involgariti. Piano piano, il loro numero soppiantò la supremazia dei
signori per antonomasia. La grazia di costoro è un po’ distante dai modi della
santità, tuttavia resta apprezzabile ed è stata a torto disprezzata.
L’influenza che non viene dal gran garbo
genera ineleganza. E sarebbe perfino impossibile riprendere l’ultimo vecchio
modello, gli ultimi garbati figurini, quelle riviste linde e graziose, per
restaurare la signora Grazia. Trattandosi di arte, foggiata su modelli di
un’epoca trascorsa non sarebbe arte, essendo avulsa dal suo tempo.
L’arte – ne approfitto per estendere il
concetto - venne ricreandosi al passo dei tempi, e riuscì sapendo coniugare con
il proprio tempo le forme classiche, da cui prendeva ispirazione. Soltanto un
fantastico genio dittatoriale
potrebbe trasfondere uno stile eternamente bello in una vita scaduta nel
cattivo gusto, lo potrebbe cioè, formando uno spirito di bellezza introdotto
nelle usanze. Soltanto un’irresistibile persuasione renderebbe le usanze
disponibili, plasmabili, materia per l’artefice.
Al di fuori di simile fantasia, una civiltà
decaduta, carente di fede, di etica, di identità largamente condivisa, produce una
vacua fisionomia, un vuoto di carattere, del carattere necessario ad uno stile.
Lo stesso meglio artistico, comparso
sporadicamente, esprime stili personali, eterogenei, che vanno dispersi.
Piero Nicola
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