L'appiccicoso
rosolio, distillato dagli ecumenici alambicchi del Vaticano II, mentre
intontiva la fede di sempre e rovesciava spruzzi luterani sulla sacra liturgia,
ha spalmato un oblio risentito e collerico sugli autori del Novecento
cattolico, colpevoli di essere stati testimoni di una fede capace di alzare la
voce una ottava più in alto della ronzante/frusciante chiacchiera mondana.
La
censura delle voci maschie e inflessibili degli scrittori fedeli ha messo sul
palcoscenico ecclesiale il concerto di una teologia timida e stordita e perciò
incline ad applaudire gli squillanti vizi di mente, che accompagnano la inavvertita decomposizione del mondo moderno.
Consapevole
della putrefazione in atto nel cuore infetto della modernità fu invece lo
scrittore toscano Domenico Giuliotti
(1887-1956), cattolico sordo alle vane chiacchiere dei modernisti e perciò
immune dagli entusiasmi progressivi, in festa rivoluzionaria già nei primi anni
venti del secolo sterminato.
Giuliotti
fu un autore capace di resistere e di reagire con virile fermezza alle
seduzioni urlanti nei proclami sovietici, fruscianti nelle favole americane e
squillanti nelle pochade degli espressionisti tedeschi.
Al
proposito si affaccia alla memoria la notizia del discredito rovesciato dai
novisti sulla fortezza - virtù cardinale screditata e quasi vampirizzata
dalla teologia imbelle, che sbandiera
una filologia addomesticata dai disertori dal tomismo.
Il
capolavoro di Giuliotti, L'ora di Barabba, pubblicato nel 1920, è il
manifesto incendiario di un cattolicesimo capace di esprimere, in un italiano
corretto e scintillante, la refrattarietà e l'irriducibilità della fede alle
sirene di mondo moderno, che non ha mai nascosto le sue tare e le sue laide
magagne.
In
tutte le opere di Giuliotti, peraltro,
il lettore d'oggi potrebbe trovare e raccogliere i giudizi che producono le
difese immunitarie, indispensabili ai fedeli refrattari, in fuga dalla
torbida/soffocante slavina, che trasporta la rumorosa farneticazione dei
neomodernisti e dei neo-preti.
In modo
speciale è utile e raccomandato ai fedeli turbati e sconcertati dal can-can
liturgico oggi in pittoresco atto, l'avvincente, commovente saggio di Giuliotti,
Il ponte sul mondo Commento alla Messa, edito dalla benemerita Amicizia
Cristiana, stamperia che opera in Chieti per la difesa della
indeclinabile tradizione cattolica dalle insidie del clero sincretista.
Giuliotti,
al pari dei suoi coraggiosi editori, incarna la figura del cristiano rigido,
cioè refrattario alla molliccia ginnastica del buonismo, il fedele la cui
intransigenza dispiace a Francesco I, interprete della dottrina
dolcificata/dinoccolata, ultimamente prigioniera delle insipienti chiacchiere
venerate da una platea che identifica la
verità evangelica con le flessioni del
tango e le squallide omelie dei comici.
Nelle
pagine di Giuliotti si leggono, infatti, le proibite ragioni di quella fedeltà
alla vera liturgia cattolica, turbamento
e scandalo dei pii corridori lanciati sulla pista, che ha per traguardo la
mondanizzazione della dottrina antimondana per antonomasia.
Nel
1932, quasi anticipando la descrizione delle nebbie fatte cadere sulla Santa
Messa dalla infelice riforma di Annibale Bugnini (1912-1982), Giuliotti
scriveva: "La Messa, per moltissimi, immersi nell'ignoranza religiosa,
è come un affresco che altri afferma prezioso, ma che agli occhi annebbiati di
chi lo guarda, appare tutto coperto di un fitto strato di polvere. Ho tentato
di dissipare quella nebbia e di far vedere il dipinto".
La
Santa Messa non è la commemorazione di un lontano e drammatico evento ma la
ripetizione incruenta del sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce: "L'altare
è la mensa mistica e il Monte Santo, la Tavola del convito umano e divino e
l'Ara pel Sacrifizio unicamente accetto al Creatore del mondo. Tutto l'edificio
della Chiesa è stato costruito per l'altare; e l'altare a sua volta è stato
costruito per la Messa".
Nella
Messa preconciliare, infatti, il sacerdote, invece di avvicinarsi a un anonimo,
traballante tavolino, si preparava alla salita dei tre scalini, che lo
separavano dall'altare, purificando il proprio intelletto e la propria volontà.
I fedeli si univano spiritualmente al sacerdote: "Ogni pensiero profano
cancellato, dileguato, annientato. La mente, il cuore, l'anima staccati da
tutto, purificati, mondi, concentrati in Dio. Ma ciò unicamente ci sarà
possibile con l'aiuto di Cristo".
In
luogo di una preghiera finalizzata all'umiliazione dell'io, la nuova liturgia
offre deprimenti canzonette e sbiadite orazioni. I tre scalini che avvicinavano
all'altare sono aboliti e ridotti a passi anonimi. L'umiliazione è addolcita a
beneficio dei sacerdoti e dei fedeli. In compenso la chiese si svuotano.
In una
recente intervista l'autorevole cardinale Burke, pur lodando lo splendido,
avvincente canone della Messa detta di San Pio V, ha ammesso che anche il nuovo
canone è valido.
In
nessun modo possiamo respingere il giudizio dell'illustre e coraggioso ecclesiastico.
Tuttavia, leggendo il magnifico scritto di Giuliotti, non possiamo negare,
nessuno può seriamente nascondere che la sapiente bellezza dell'antico canone è
stata diminuita e quasi obnubilata da una riforma indirizzata alla conquista
delle congreghe protestanti, affondate nella melma luterana e di tutto
bisognose fuorché di concessioni alla loro sgangherata liturgia e alla loro
esangue, ateologica teologia.
Pietro Vassallo
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