Le leggi della repubblica italiana
esigono che della resistenza si parli in ginocchioni. L'età avanzata e
l'artrosi, certificata dal medico della mutua, mi consentono di rimanere
tranquillamente seduto. E di affermare che il datato squillo delle trombe
resistenziali desta un invincibile disagio. Vivo pertanto il privilegio
dell'esenzione dalla genuflessione democratica con una felicità, che è
incrementata dalla conoscenza delle notizie vanamente coperte dal gemito
storiografico emanato da alte e autorevoli gole.
Agosto del 1944. Il comandante della divisione
tedesca dislocata a Genova, generale Gunther Meinhold, chiese e ottenne
d'incontrare il vescovo ausiliare dell'archidiocesi, Giuseppe Siri e, dopo
avergli confidato la sua convinzione circa la inevitabile, incombente sconfitta
della Germania, gli espose un progetto che contemplava, al momento opportuno,
la formale resa ai partigiani e la pacifica ritirata della guarnigione tedesca
di stanza a Genova.
Il 22 aprile del 1945 finalmente Meinhold
comunicò al vescovo Siri l'intenzione di sottoscrivere la resa dei tedeschi ai
partigiani.
La decisione di Meinhold non discendeva dalla
paura dei nascosti partigiani ma dall'intenzione di evitare inutili spargimenti
di sangue e di garantire la tranquilla
evacuazione dei militari tedeschi e la loro consegna agli americani.
Meinhold non era mosso dal timore di
soccombere a una eventuale insurrezione dei partigiani: al suo comando era,
infatti, attiva una disciplinata e risoluta guarnigione di seimila combattenti,
mentre sulla città erano puntate temibili batterie di obici e di mortai.
Il card. Siri, in una memoria pubblicata negli
anni Settanta, ha rammentato che intorno al 25 aprile, i partigiani, fedeli al
proverbio a nemico che fugge ponti d'oro, si erano dati alla macchia,
costringendolo a una faticosa ricerca dei loro prudenti nascondigli. Dopo
averli tratti dai loro rifugi, Siri condusse i partigiani nella sede del
comando tedesco, dove fu firmato l'atto di resa.
Prima di essere consegnati agli alleati in
marcia su Genova, i prigionieri tedeschi furono fatti sfilare per le vie
cittadine allo scopo di accreditare la leggenda (in seguito istituzionalizzata)
dell'eroica insurrezione.
Alcuni reparti tedeschi, disponendo di
adeguati mezzi di trasporto,si diressero tuttavia a Nord, nella speranza di raggiungere il Brennero e di trovare
rifugio in Germania.
Il vescovo Siri, in sosta nel portico di un
palazzo, li osservò sfilare indisturbati nella piazza De Ferrari (luogo della
mitica battaglia celebrata da un magniloquente lapida) e dirigersi a Nord.
Ed ecco che contro l'ultimo camion tedesco si
avventò, armato di fucile, un giovane partigiano. Il vescovo Siri tentò inutilmente di trattenere
l'incauto giovane, il quale, uscendo dal portico, sparò alcuni colpi
indirizzandoli contro il camion tedesco.
La risposta dei militari tedeschi fu immediata
e l'infelice partigiano ferito al petto
cadde nel centro della piazza. Il vescovo Siri non pote far altro che impartire
l'estrema unzione all'agonizzante. La
morte di un eroe disperato segnò l'inizio e la fine della celebrata battaglia
di piazza De Ferrari.
Il rispetto che si deve al caduto non è
sufficiente ad abbattere il ridicolo in corsa senza freni nella leggenda
narrata agli studenti della scuola dell'obbligo per convincerli a credere
nell'eroica vittoriosa battaglia combattuta dai partigiani genovesi.
Il ridicolo è stato incrementato dalla perizia
di un illustre studioso, il compianto Raffaele Francesca, il quale dimostrò che
il cannone protagonista dell'immaginaria battaglia di De Ferrari, era un
reperto della prima guerra mondiale abbandonato dai tedeschi quale ostacolo
alla loro ritirata.
Piero Vassallo
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