Da anni Paolo Pasqualucci è
impegnato nell’elaborazione di cinque tesi preliminari alla Metafisica del Soggetto, da
ricostruire nel solco della tradizione aristotelico-tomistica e quindi del
realismo filosofico, oggi vituperato nei salotti esangui del filosoficamente
corretto. Esce in questi giorni, per i
tipi di Giuffré, il secondo volume di questa sua lunga fatica, dedicato a Il
concetto dello spazio. È un poderoso
tomo di ben 650 pagine. Allergico alle
gaie quanto superficiali, sgangherate seduzioni del “pensiero debole” oggi
imperversante, Pasqualucci ci propone audacemente un’ampia meditazione sul “concetto
dello spazio”, visto nei suoi aspetti metafisici, fisici, teologici, in quanto
concetto che bisogna ristabilire nei suoi giusti termini, quale primo mattone
per una ricostruzione della metafisica[1].
Il primo volume della sua
ricerca, uscito cinque anni fa per le Edizioni Spes- Fondazione Giuseppe
Capograssi, trattava dei limiti del nostro pensiero, quali risultano in primis
dall’impossibilità di pensare simultaneamente a due o più cose diverse. I
nostri pensieri e stati d’animo sono sempre in succesione nel tempo, mai
simultanei tra di loro. Questa semplice constatazione
dimostra che il tempo esiste come dimensione reale, nella quale opera la nostra
mente.
Ma si possono scrivere 650 pagine
sul concetto dello spazio, si chiederà il lettore, sia pure in uno stile chiaro
e lineare, per nulla accademico? Il libro
è in realtà anche una resa di conti speculativa con la teoria della conoscenza
del pensiero moderno, con il soggettivismo in essa imperante, da
Cartesio, a Kant, a Heidegger, senza trascurare il pensiero scientifico. Alla concezione dello spazio-tempo di
Einstein viene dedicata un’ampia analisi critica, che alla fine ritorna al
punto di partenza originario di ogni nostro pensare, ossia al rapporto tra
Dio e lo spazio. Data la complessità
e vastità dell’intreccio elaborato da Pasqualucci, la cosa migliore in sede di
presentazione è senz’altro quella di esporre una breve sintesi delle sue poche ma
illuminanti pagine introduttive, intitolate “Al Lettore”.
“La prospettiva dell’uomo comune
che si cerca di far valere qui non è certamente quella di un beffardo empirismo,
rutilante ad esempio nell’invettiva del sulfureo Céline, il quale, cito a
memoria, scrisse una volta che “scienziati, astronomi scalmanati
chiacchieroni…scocciano a morte…sbavano incomprensibili teorie che
matematizzano il nulla…astri la cui luce arriva miliardi di anni dopo, nel
frattempo già scomparsi del tutto!”. Il
quisque de populo nel quale mi sono immedesimato vuol esser socratico,
se così posso dire, quanto al suo metodo:
analizzare pazientemente e porre domande in tutta semplicità, al fine di
giungere al vero, anche senza la pretesa di riuscire a spiegar tutto, cosa del
resto rivelatasi impossibile agli stessi uomini di scienza. La prospettiva che chiamo socratica
mira perciò a rivalutare nel giusto modo il senso comune quale facoltà del
nostro intelletto capace di sostenerlo nel ripristino di una concezione realistica
del mondo, di contro al soggettivismo dominante, avvitatosi nelle ben note spirali nichiliste,
anche in ambito scientifico.”
Il primo passo in direzione di
questa rappresentazione realistica – chiarisce l’Autore – è consistito “nell’accertamento
di una verità, ampiamente dibattuta nel primo volume della Metafisica del
Soggetto, ossia che lo spazio fuori di noi è condizione imprescindibile
della nostra conoscenza del mondo esteriore, perchè realtà tridimensionale
(estensione e profondità) che, di per sè, consente la stasi e il moto dei corpi
e dell’energia, e non perchè “forma a priori della nostra sensibilità” (secondo
la celebre formulazione kantiana), forma inconsciamente predeterminata,
anteriore ad ogni esperienza concreta
dello spazio stesso”. Il carattere pleonastico
dell’apriori kantiano, risulta già dalla constatazione del “fatto stesso del tempo
impiegato dall’immagine dell’oggetto esterno a formarsi nella nostra
mente. È il tempo impiegato dalla luce
diffusa a percorrere lo spazio che ci separa dall’oggetto, sommato a quello dei
processi fisico-chimici che, dentro di noi, si risolvono nell’immagine compiuta
della cosa esistente fuori di noi. Per
renderci conto dell’esistenza di questo tempo, basta sapere che la luce
non si propaga istantaneamente ma con una determinata velocità: non occorre presupporre l’esistenza in noi di
un’intuizione immediata del tempo, a priori, indipendentemente da ogni esperienza”.
Partendo da questa deduzione
empirica del concetto dello spazio, Pasqualucci sviluppa un confronto serrato con
la concezione kantiana della conoscenza e dello spazio (cui dedica tre
capitoli, sugli undici dell’opera), “la cui influenza, piaccia o meno, si è fatta
sentire sino alle elaborazioni einsteiniane”.
E non si sottrae al confronto con la “spazialità esistenziale” di
Heidegger (nel cap. sesto), “ancora considerato il maggior filosofo del XX
secolo, il quale cerca di risolvere in chiave appunto esistenziale, di
spazio vissuto, il problema della natura dello spazio”.
Ma il confronto essenziale
avviene con le concezioni dello spazio dominanti nella fisica moderna e
contemporanea, cui sono dedicati tre capitoli.
Essa, ci ricorda Pasqualucci, “alberga dentro di sé una ‘filosofia della
natura’ secondo la quale l’immagine del mondo deve ritenersi curva ed anzi
deforme come le figure che si scorgano sul pomo di ottone levigato di una
rotonda maniglia di porta. Ciò che a
noi sembra diritto sarebbe in realtà incurvato, ma non come la superficie della
terra, cranio di ben polita sfera: distorto
a causa della curvatura dello spazio, deformato dalla materia che contiene. Mentre le dimensioni di ogni spazio misurato sarebbero comunque relative al tempo impiegato
dalla luce a portarcene l’informazione (spazio-tempo)”.
Riflettendo sul quadro offerto dal pensiero filosofico e scientifico,
che idea dello spazio se ne ricava? Ed è
un’idea univoca?
“Intuizione a priori della nostra
“senbilità” lo spazio, oppure asimmetrica “spazialità” del nostro
esser-nel-mondo che si disvela nell’Esserci nostro quotidiano nascondendo lo
spazio in sé e per sé, ridotto ad irrilevante comparsa? Oppure, curvilineità della materia-energia
che fa di noi stessi una semplice variazione di densità dello
spazio-tempo, una transeunte e quasi invisibile increspatura del tutto cosmico
eterno ed increato, come sosteneva lo spinoziano Einstein?”. Di fronte a queste “ardite concezioni,
vibranti di una loro profana escatologia”, unite tuttavia da un comune sostrato, la
negazione dell’esistenza di uno spazio in sé vuoto ed euclideo, sottolinea
Pasqualucci, non bisogna deporre le armi e rifugiarsi nel “pensiero debole”, quello
che usa come alibi l’ ossessivo ritornello
del tenebroso Heidegger sulla “fine di ogni metafisica” (della quale lui
sarebbe stato il volonteroso becchino). Bisogna,
all’opposto, combattere ovvero “confrontarsi con quelle complesse e profonde
speculazioni prima di ribadire il sano realismo della rappresentazione
dello spazio del senso comune mediante una rigorosa deduzione empirica
del suo concetto (nel decimo e penultimo capitolo dell’opera), quale concetto
di una realtà euclidea che esiste effettivamente fuori di noi e si lascia
cogliere innanzitutto mediante il senso della vista”.
Ma dalle “disquisizioni
metafisiche e fisiche”, rileva Pasqualucci, emerge anche un nodo teologico. Ne ha offerto lo spunto proprio Kant,
“quando affermava che chi non accettava la sua concezione trascendentale dello
spazio come nostra intuizione a priori (senza la quale non potremmo conoscere
lo spazio come realtà che pur esiste fuori di noi), anteriore ad ogni
esperienza, rischiava di cadere nello spinozismo cioè nel materialismo
di Spinoza, che faceva della res extensa un attributo di Dio. Spazio, allora, come attributo di Dio e
quindi impossibilità di ammettere l’esistenza di un Dio creatore, assolutamente
indipendente dalla realtà del cosmo da Lui stesso creato, ivi compresi lo
spazio e il tempo? Bisognava difendere
da quest’accusa la concezione realistica dello spazio. Tale difesa, che ha comportato (nel capitolo
quinto) l’analisi critica del concetto dello spazio come “sostanza corporea” in
Cartesio e Spinoza, nonché la difesa di quella dello “spazio assoluto” di
Newton, ha riproposto di per sé il tema fondamentale del rapporto tra Dio e
lo spazio, sviluppato nell’ultimo capitolo dell’opera”. In tale capitolo, dopo un’analisi del
pensiero dei Padri e dell’Angelico sul tema, l’Autore propone di “considerare
come sesta prova dell’esistenza di Dio il modus operandi a distanza ma
istantaneo della forza di gravità nello spazio, scoperta fondamentale e crux
philosophica della scienza moderna e contemporanea. Annullando nella sua istantaneità sia lo
spazio che iI tempo, tale modus si pone al di fuori delle leggi fisiche
da noi conosciute, che non riescono affatto a darne ragione, rinviando pertanto
all’intervento di un Agente capace di operare in modo soprannaturale. Un accenno in tal senso si trova, del resto,
in una celebre lettera di Newton ad un suo discepolo”.
Chi ritenesse la critica ai
filosofi del passato roba da museo, prosegue Pasqualucci, si sbaglierebbe di
grosso: “Einstein ha visto in Cartesio
(che identificava corpo e spazio, negando l’esistenza del vuoto) un precursore
del suo concetto dello spazio e si è apertamente professato panteista nel
senso spinoziano del termine, con le evidente implicazioni teologiche
che ciò comporta, a cominciare dalla negazione (espressa, in Einstein)
dell’esistenza di un “Dio personale”, e quindi Creatore e Giudice; credenza per
le “anime fiacche”, diceva.” Perciò, “lo
spinozismo con il quale Kant minacciava i suoi critici, è riapparso nella
visione del mondo dei Fisici contemporanei, intrecciato (sotto spoglie spesso
neopositiviste) ad un kantismo di fondo per quanto riguarda il nesso
spazio-tempo e una certa tendenza al soggettivismo dal punto di vista
metodologico”.
Per tutti quei cattolici che si
lamentano della colpevole sudditanza del pensiero cattolico al sempre più
asfittico e declinante pensiero moderno, questo libro dovrebbe comunque
rappresentare una lettura che induce alla speranza di una ripresa della vera
metafisica.
Piero Vassallo
[1] P. PASQUALUCCI, Metafisica del Soggetto II –
Il concetto dello spazio, Giuffrè, Milano, pp. 650, 2015. Chi ne vuole una una copia in omaggio
può rivolgersi a: Fondazione G.
Capograssi, Via Savoia, 86, 00198 Roma, tel.
39-06.855.80.65 fax 06.855.88.32 –- e-mail: fond.capograssi@libero.it. Sono disponibili anche copie in
omaggio del primo volume, intitolato:
P. PASQUALUCCI, Metafisica del Soggetto. Cinque tesi preliminari – Volume Primo,
Ediz. Spes-Fondazione Giuseppe Capograssi, Roma, 2010, pp. 186.
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