“Ringrazio
sempre il Signore di avermi fatto diventare professore universitario e come tale esente dal giuramento di fedeltà alla Repubblica Italiana (intesa come regime) in caso contrario avrei dovuto dimettermi o
sarei stato spergiuro”. (Giulio Vignoli)
Infaticabile studioso e interprete geniale
delle censurate e/o dimenticate vicende dei patrioti italiani attivi in
territori contesi, Giulio Vignoli è un un degno erede e continuatore
dell'opera di nobili scrittori quali Piero Operti e di Giovannino Guareschi.
Vignoli, infatti, è il capofila della
scuola storiografica, che, ove fosse possibile rompere il cerchio della banalità
politicante, potrebbe far uscire la politica nazionale dal cerchio del pensiero
impotente/urlante, intorno al quale si aggirano e prosperano spettri
dossettiani, umbratili marxiani, maghi comizianti a destra, grotteschi
arionordici, antichisti da palcoscenico, politologi da campo Hobbit, mezze
culture e analfabeti conclamati [1].
Ai disordinati pensatori, galoppanti nelle piste dell'emisfero destro, Vignoli indica la via maestra
della ragion politica: riscoprire e fare proprio quell'amor di patria, che ha
nobilitato gli italiani, da San Francesco a Dante, da Petrarca a Vico, dai
patrioti italiani perseguitati dagli austriaci agli eroi delle guerre vinte o
perdute nel XIX e nel XX secolo.
L'influsso di studiosi infatuati dalla
filosofia della storia elucubrata dai tedeschi ha destato purtroppo i pensieri e gli stati d'animo che rendono
incapaci di comprendere il primato spirituale, culturale e civile degli
italiani. Infine il patriottismo si è rovesciato nella gastronomia e nella
mostra dei monumenti che testimoniano la grandezza di un irripetibile passato.
L'umiliante scandalo messo in scena dai
domenicani, che dimenticano e archiviano l'insuperata filosofia di San Tommaso
per gettarsi a capofitto all'inseguimento di chimere tedesche o francesi o
addirittura americane, è la misura del disordine mentale prodotto dal contagio della
malattia antinazionale, che ci fu trasmessa dai vincitori della seconda guerra
mondiale.
Nel magnifico saggio L'Irredentismo italiano di Nizza e del nizzardo, edito in Roma
dalla casa editrice Settimo Sigillo, Vignoli, dopo aver precisato che
patriottismo “nulla ha a che fare con
nazionalismo e con sciovinismo, così
diffuso in Francia”, dimostra
le radici dell'avversione al patriottismo, vizio circolante nell'Italia
repubblicana: la riduzione del patriottismo al Fascismo, “il Fascismo demonizzato, mostro demoniaco
causa di ogni male, demone immondo, non può
aver pensato anche a ciò che
poteva avere una qualche sua giustificazione”.
Vignoli, autentico patriota non fascista né
antifascista, e perciò ammiratore della dignità degli italiani ovunque manifestata, mette
il dito sulla piaga che ha tormentato la cronaca repubblicana: quell'avversione
all'amor di Patria, che ha intossicato gli antifascisti (salva la impavida
minoranza critica, radunata intorno a Gioacchino Volpe, Giorgio Del Vecchio,
Balbino Giuliano, Carlo Delcroix, Giovanni Durando e ai già
citati Giovannino Guareschi e Piero Operti) nelle opposte schiere di amici
della Russia sovietica o dell'Occidente liberale.
L'avversione del potere politico alla cultura
e alla storia italiana governa la mano morta ideologica, che frena e scoraggia
la qualunque ricerca della verità storica intorno agli italiani oppressi
dai nazionalismi/sciovinismi stranieri.
Al proposito di esterofilia, Vignoli rammenta
un episodio surreale, il comportamento villano dei funzionari italiani in lotta
contro le verità storiche sgradite ai francesi: “Per
aver tentato di esporre la storia dell'agonia dell'italianità di Nizza ad un convegno presso il
Consolato italiano di Nizza venivamo presi per un braccio e letteralmente
trascinati via dal microfono”.
Interessante è la rievocazione del grottesco episodio: “Siccome avevo notato che i relatori italiani
non avevano accennato minimamente al perché
della scomparsa, dopo la cessione, della presenza culturale italiana a Nizza,
accennai alla persecuzione dell'italianità.
Non lo avessi mai fatto, l'addetto culturale, certo preside Panattoni, presomi
per un braccio, mi trascinava in malo modo via dal microfono”.
La sgradevole verità
emergente dall'episodio narrato da Vignoli conferma che – essendo il nome Patria
umiliato dalla cultura repubblicana e retrocesso all'anodino termine paese –
il patriottismo non ha cittadinanza nella repubblica nata dalla sconfitta.
Per inciso: il delirio esterofilo, matrice
dell'ideologia della repubblica, spiega le ragioni della gongolante e disarmata
leggerezza con cui il governo italiano (complice il frivolo ecumenismo in corsa
dissennata nei sacri palazzi) accoglie le avanguardie dell'islam.
Agli attori recitanti sul sordo palcoscenico
dell'esterofilia, Vignoli rammenta che il potere esercitato dai francesi
nell'italianissima Nizza attuò una sottile oppressione, intesa a
persuadere gli italiani renitenti ad emigrare. Il risultato della persecuzione
esercitata nel segno dell'ipocrisia è l'esodo ingente degli italiani: “Si stima che attualmente a Nizza solo il 15%
della popolazione sia di origine nizzarda”.
Vignoli dimostra che l'italianità di
Nizza si estinse per effetto della repressione della cultura, “con la congiura del silenzio e la
disinformazione, che continua tuttora”.
Opportunamente Vignoli osserva che la tendenza
dei francesi ad addomesticare la verità sulla progettata e realizzata mutazione
della nazionalità dei nizzardi, quantunque riprovevole è comprensibile “quella italiana è
meno facile da spiegarsi se non con la viltà
della Repubblica italiana, nata dalla morte della patria, spiritualmente una
repubblica apatride”.
Il furore anti-italiano
circolante nella cultura di regime (lo rammenta Vignoli) si manifesta in un
articolo pubblicato nella rivista “Il
Veltro, periodico della Società
Dante Alighieri, che dovrebbe dovrebbe diffondere la nostra lingua, in cui mi
si accusa di creare dissidi fra Italia e Francia (con un libro, addirittura!)
di aver citato un non citabile e cioè
Ermanno Amicucci, (al rogo, al rogo...) e, ovviamente, di mire nazionalistiche
se non proprio fascistiche” [2].
Nella seconda, robusta parte
della sua pregevole opera di Vignoli rievoca la vicenda degli italiani
renitenti agli appelli “democratici” lanciati dagli occupanti francesi. Le
notizie (per lo più censurate dalla fellonia dei governi democratici) saranno
prossimaente oggetto di una nota a mparte.
[1] In
via riservata ho spedito al professore Vignoli un triste elenco dei dementi che
squillano nelle prime file del desolato centrodestra.
[2]
Ermanno Amicucci (1890-1955) fu direttore del Corriere della Sera durante il periodo della Rsi. Per tale reato fu
condannato a morte mediante fucilazione nella schiena. Evitò la fine toccata a Robert Brasillach perché Togliatti, consapevole dell'impossibilità di una
maggioranza a-fascista, decretò un'amnistia finalizzata a
captare la benevolenza dei fascisti. Amicucci tuttavia non entrò nel numero dei convertiti e svolse un'attività giornalistica scrivendo sul quotidiano anticomunista Il Tempo
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